Misure di sicurezza imponenti e un ampio schieramento di ministri stranieri hanno segnato ieri l’estremo saluto a Zahir Shah Durrani, l’ultimo monarca afgano, spentosi a 92 anni nel paese da cui, esiliato nel 1973, era tornato meno di cinque anni fa. Un evento circondato come ormai quotidianamente dalle notizie sempre molto confuse attorno alle battaglie militari contro i talebani, al bollettino che informa sulle varie vicende degli ostaggi, a un’uscita politica del governo italiano che, dopo mesi di silenzio, ha nuovamente rispolverato l’idea di una conferenza di pace.
Le esequie di Zahir Sahah sono state anche l’occasione di uno scambio di vedute tra il sottosegretario Gianni Vernetti e il ministro degli Esteri britannico David Milliband, alla sua prima visita ufficiale in Afghanistan dove erano presenti, tra gli altri, anche il primo ministro pachistano e vari dignitari e diplomatici dal Canada all’India, mentre tributi alla figura di Zahir sono arrivati un po’ da tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti per i quali, parola del presidente, il vecchio è stato una figura «monumentale» nella storia del paese. Un paese che guarda al suo incerto destino anche dalla collina di Kabul dove un tempo si ergeva il palazzo del re costruito con una miscellanea di stili che ammiccavano all’Occidente. Ma oggi la grande cupola che sovrasta il vasto edifico è uno scheletro danneggiato dalle bombe che vennero sparate dai mujaheddin contro altri mujaheddin negli anni della guerra civile: è il monumento per eccellenza al fallimento di una pace che resta lontana e che pure continua ad essere il leit motif di discorsi pubblici e relazioni al parlamento. Anche in Italia. Ieri infatti Massimo D’Alema ha riesumato una locuzione che sembrava ormai scomparsa dal vocabolario diplomatico: «conferenza di pace» che resta, ha detto, «obiettivo strategico» del governo italiano. La vera battaglia da vincere – ha aggiunto – è quella del consenso popolare accompagnato dalla costruzione di uno Stato di diritto, presupposto «per la stabilizzazione del paese». D’Alema ha anche ribadito che è «inaccettabile sul piano morale» continuare a causare vittime civili in Afghanistan nell’ambito di operazioni contro il terrorismo, «necessarie» ai fini della sicurezza ma che rischiano di «compromettere l’immagine della presenza internazionale e del governo afgano». Ma alle parole del viceministro ha fatto eco anche ieri l’ennesima salva di numeri sulle uccisioni di talebani.
Secondo la coalizione a guida americana (quel che resta di Enduring Freedom) le truppe internazionali e quelle afgane avrebbero ucciso almeno un’ottantina di talebani in un’operazione la cui ricostruzione è, come sempre, nebulosa e che è stata condotta lunedi nel Sud del paese. Stando al comunicato diffuso, un numero imprecisato di talebani ha attaccato un convoglio di militari afgani e della coalizione a guida Usa aprendo il fuoco nei pressi del villaggio di Gorazon, nella provincia di Helmand. In reazione, dice ancora il comunicato, è stata ordinata un’incursione aerea durante la quale sono state sganciate tre bombe che avrebbero ucciso diverse decine di talebani mentre in un altro episodio soldati afgani avrebbero eliminato diverse decine di miliziani nella provincia di Kandahar. La Bbc parla complessivamente di almeno un’ottantina di morti. Sul fronte Nato invece, il comando Isaf ha fatto sapere che quattro degli ultimi sei militari internazionali morti sono stati uccisi da un attentato dinamitardo.
Un altro sviluppo riguarda invece le vicende degli ostaggi: i negoziati per il rilascio dei 23 sudcoreani in mano talebana continuano nonostante sia scaduto ieri pomeriggio (ora italiana) anche il terzo ultimatum. Il capo della delegazione governativa afgana alle trattative ha detto che i talebani hanno proposto di rilasciare otto dei 23 ostaggi in cambio della liberazione di altrettanti guerriglieri. Quanto all’ingegnere tedesco sempre sequestrato dai talebani, sta male per il diabete e non ha possibilità di avere medicine. Sono stai gli stessi talebani a farlo sapere.