Una delle zone rimaste in ombra della Resistenza italiana è il mezzogiorno d’Italia, citato tutt’al più quale terra d’origine di valorosi combattenti come Colajanni e Li Causi, comunisti siciliani e comandanti partigiani in Piemonte. Pochi ricordano la forte e diffusa guerra partigiana in Abruzzo, le vittoriose insurrezioni di Napoli e di Matera, la disperata resistenza di Barletta, che vide uniti, nel combattimento e nella morte, militari e cittadini, ma chi conosce la strage di Fondo Maranese, dove avevano trovato asilo soldati fuggiti l’8 settembre, la rivolta di Scafati, il sabotaggio di ponti e ferrovie d’interesse bellico dei partigiani di Rionero in Vulture?
La ricostruzione di questa memoria ignorata è l’obbiettivo dell’opera della ricercatrice napoletana Gloria Chianese – “Quando uscimmo dai rifugi. Il Mezzogiorno fra guerra e dopoguerra” Carocci editore, pp. 261, Euro 19,30 – che abbraccia tutto il tempestoso periodo che va dall’estate del 1940 (primi bombardamenti anglo americani su Napoli, Taranto, Palermo) al 2 giugno 1946 (referendum monarchia-repubblica). Una transizione lunga e difficile nella quale si evidenziano le contraddizioni che si trascineranno, irrisolte, fino ai nostri giorni e nella quale Chianese riserva particolare attenzione al ruolo delle donne, rimaste sole a procurare cibo e sicurezza a vecchi e bambini in una situazione di miseria resa intollerabile dal tesseramento di generi alimentari e dal fiorente e costosissimo mercato nero che coinvolgeva in primo luogo i grandi produttori di grano della Sicilia e della Puglia.
Già nel 1941 si segnalano attacchi ai depositi alimentari e ai magazzini dei borsari neri da parte di folle femminili esasperate mentre nelle campagne si rinnovano i fasti dei moti che negli anni ’30 avevano violentemente contestato le nuove tasse imposte da Mussolini. Nel ’43 furono le donne a nascondere, curare, difendere i militari sbandati, a opporsi al furto di bestiame e masserizie praticato dai tedeschi in fuga e fu il tentativo di centinaia di ragazze e donne di bloccare i camion che trasportavano gli uomini rastrellati per il lavoro coatto in Germania il primo atto delle gloriose quattro giornate napoletane.
La Resistenza armata e organizzata meridionale fu principalmente opera di soldati e ufficiali di fede monarchica che decisero di schierarsi a fianco del re contro Mussolini, ma non mancarono gruppi, anche consistenti, di partigiani anziani e giovani, portatori di idee diverse, alcuni dei quali dettero vita, nell’immediato dopoguerra, all’esperienza delle Repubbliche contadine, la più nota delle quali fu quella calabrese di Caulonia, di ispirazione socialista. Dal tradizionale ribellismo in difesa dei propri beni e delle proprie tradizioni, contro uno Stato presente solo con la cartella delle tasse e la “cartolina rosa” del richiamo alle armi, nasce una autentica e diffusa coscienza antifascista che darà luogo a vere e proprie sommosse quando il comando alleato, per ignoranza e per radicata diffidenza nei confronti di masse contadine e bracciantili potenzialmente comuniste, metterà a capo di città e province appena liberate vecchi fascisti riciclati con sospetta premura. Una Resistenza senza grandi figure segnata più da stragi nazifasciste che da vittorie partigiane, la cui memoria si disperderà l’indomani della Liberazione nei mille espedienti di sopravvivenza e nelle diatribe degli intellettuali antifascisti, ma sarà la base ideale di quelle occupazioni di terre incolte che trasformarono l’antica jacquerie in rivendicazione consapevole, alzando le bandiere rosse al posto dello stendardo del santo patrono. Fu la risposta alta del proletariato meridionale ancora una volta tradito e deluso, come da Garibaldi nel 1860 e dal “re soldato” nel 1918, dalla democrazia repubblicana dalla quale aspettava terra, lavoro, dignità di cittadinanza ed ebbe antichi e nuovi padroni, campieri, mafiosi e uno Stato pronto a reprimere ogni aspirazione a una vita migliore.