«A processo la mente di Bush»

Un grosso sussulto, ieri, nello scontro più duro che si sta verificando fra l’amministrazione Bush e il Congresso da quando questo presidente è entrato alla Casa bianca. La Camera ha formalmente approvato il mandato di comparizione per Karl Rove, noto come «il cervello di Bush», affinché vada a deporre – sotto giuramento – sulla faccenda dei procuratori licenziati perché non abbastanza «leali» a Bush. Che cosa vuole, esattamente, il Congresso? «Sapere chi ha fatto cosa, come e quando», ha sintetizzato Harry Reid, il capo dei senatori democratici. Approvare il mandato di comparizione non vuol dire emetterlo e quindi questa mossa della Camera costituisce ancora un altro elemento, particolarmente pesante, dello scontro in corso, ma non ancora il via libera alla possibile battaglia costituzionale che già viene considerata paragonabile a quella dei tempi del Watergate, conclusasi con le dimissioni di Richard Nixon.
L’altro ieri la Casa bianca aveva tentato di evitarla, questa battaglia, offrendo un compromesso. Vi consentiamo di convocare Rove – era andato a dire al Congresso Fred Fielding, il consigliere legale di Bush – ma solo per «un’intervista privata», che deve avvenire senza giuramento e senza essere verbalizzata. Poi, forse rendendosi conto che la sua offerta era a dir poco insultante, Fielding aveva «lisciato» il Congresso dicendo che avrebbe potuto intervistare anche altre persone coinvolte: il suo vice William Kelly; Harriett Myers che era al posto di Fielding quando i fatti si svolsero, alla fine del 2006, e Scott Jennings, uno dei vice di Rove. In contemporanea con la visita di Fielding al Congresso Bush aveva tenuto una conferenza stampa per sostenere che si trattava di una «proposta ragionevole», per dichiarare la sua assoluta fiducia in Alberto Gonzales, il ministro della Giustizia che in questa faccenda è il più esposto (visto che anche molti repubblicani ora chiedono le sue dimissioni) e per tuonare contro il Congresso che voleva fare di questa storia uno «spettacolo» rendendo pubblica la deposizione di Rove attraverso le telecamere. Il tutto – siccome Bush è sempre Bush – in nome del fatto che «il popolo deve sapere la verità».
Essendo in corso un’offerta di compromesso, Bush aveva evitato di invocare il «privilegio dell’esecutivo» per tenere Rove fuori dalla portata della deposizione giurata, ma quando un giornalista gli ha chiesto se intende farlo nel caso che il Congresso insista per la deposizione giurata la sua risposta è stata: «Certamente». Se dunque la battaglia costituzionale non è ancora cominciata, gli ultimi sviluppi sembrano renderla pressoché inevitabile e i democratici ieri erano impegnati a valutare i pro e i contro prima di imbarcarvisi. Il paragone con il Watergate, infatti, non è a loro favore. Allora, quando Nixon cercò di cacciare il procuratore Archibald Fox prima che la sua inchiesta lo raggiungesse, la Corte Suprema gli diede torto con un voto unanime non perché fosse «un covo di liberal» ma perché quella era un’altra America, ancora capace di scandalizzarsi per le malefatte di un presidente.
Ora invece la situazione è quella in cui si può fare una guerra basata sulle bugie, si possono ascoltare le telefonate della gente senza autorizzazione giudiziaria, si può sbattere gente in galera per anni senza neanche formulare un’accusa, decretare per legge l’uso della tortura, rinnegare apertamente la Convenzione di Ginevra e la Corte Suprema è quella che nel Duemila ha dato «in dono» la Casa bianca a Bush, che ha già avuto modo di dare ragione a Dick Cheney quando si è rifiutato di fare i nomi dei baroni del petrolio assieme ai quali aveva delineato la nuova legge sull’energia e che dopo il suo ultimo guizzo – la bocciatura delle «commissioni militari» che dovevano decidere il destino dei detenuti di Guantanamo – ha perduto proprio l’elemento che in quel guizzo giocò il ruolo essenziale: Sandra Day O’Connors. Tutto ciò, unito al fatto che il concetto di «privilegio dell’esecutivo» non è costituzionalmente molto chiaro e quindi aperto a una battaglia interminabile, rende i democratici molto prudenti. Loro hanno sicuramente ragione, perché l’idea di valutare i giudici col metro della «lealtà» al presidente è semplicemente ripugnante, ma i mezzi legali per vincere la battaglia non sono così sicuri. Stringi stringi – dicono i costituzionalisti interpellati dai media americani – le armi a disposizione del Congresso si riducono alla pessima figura che la Casa bianca farebbe ricorrendo al «privilegio dell’esecutivo» per nascondere le sue malefatte. Un po’ poco, con una presidenza come questa.