A lezione di educazione civica fra le pagine di Simon Wiesenthal

Quando ho visto Priebke, in tv, passeggiare e ossigenarsi sotto scorta per i prati di Villa Borghese, mi è subito venuto in mente un uomo di cui in realtà non so nulla e nemmeno conosco la fotografia: Beniamino Raffaeli, nato a Castelplanio di Ancona nel 1904, carpentiere, membro del Partito comunista clandestino, detenuto in via Tasso e poi eliminato alle Fosse Ardeatine.
Era un cugino di mio nonno, calzolaio laconico, comunista anche lui, il quale, con la sua terza elementare, mi donò alcuni libri (il primo, indimenticabile, fu il Diario di Anna Frank) fra cui quello autobiografico di Simon Wiesenthal, l’uomo scampato a una dozzina di campi di sterminio, il leggendario cacciatore di criminali nazisti, insomma l’autore di Gli assassini sono tra noi edito in Italia da Garzanti nel ’67, nella traduzione di Giorgio Brunacci, e ristampato in economica dal medesimo editore nel ’69 con un fotomontaggio in copertina, a firma di Wiesenthal stesso, dove si vede un Hitler in divisa da SS che si toglie la maschera, vale a dire il suo ceffo patibolare, e sotto gli rimane solo un teschio ghignante.
Sono dunque poco meno di quarant’anni che il volume manca dalle librerie, ormai introvabile anche sulle bancarelle: persino il maggiore sito Internet relativo all’usato lo dà disponibile solamente in tedesco e in inglese. Si tratta di un memoriale diviso in venticinque capitoli, di stile sobrio ed essenziale, un referto senza pretese letterarie che non siano la nuda testimonianza personale e l’ossessivo stillicidio di prove e documenti residuati dalla Shoah. A Wiesenthal non interessa infatti il passato come tale; semmai gli preme interrogarlo, inseguirlo sulle fisiche tracce dei criminali in fuga, sempre e solo in funzione del presente: per lui la memoria, anzi l’eredità dei ricordi recepiti da una selva di testimoni e sopravvissuti, o si traduce in un atto concreto di giustizia oppure si annienta nell’ipocrisia e nella doppiezza, diremmo oggi nelle relativizzazioni e nelle ambigue distinzioni, spesso dei veri e propri alibi, che vanno sotto il nome di revisionismo.
Il capitolo centrale, dedicato alla cattura di Eichmann, che fu il capolavoro investigativo di Simon Wiesenthal, comincia in questo modo, consonando in tutto con il grande libro della Arendt: «Vidi per la prima volta Adolf Eichmann in un’aula del tribunale di Gerusalemme nel giorno in cui cominciò il suo processo. Per circa sedici anni non avevo fatto che pensare a lui giorno e notte. Nella mia mente mi ero costruito l’immagine di un diabolico superuomo. E invece, nella gabbia di vetro, fra due poliziotti israeliani, vidi solo un ometto anonimo, squallido». Da questo stesso capitolo, alla fine degli anni sessanta la Rai (sì, quella Rai che sgronda adesso di camicie nere e martiri della cosiddetta «zona grigia») trasmise uno sceneggiato sulla cattura di Eichmann in Argentina: non è questione di essere nostalgici o meno, ma durante la sequenza decisiva (quando per strada, dopo anni di pedinamento, finalmente l’uomo del Mossad per incastrarlo gli chiede d’accendere una sigaretta: ?tiene fuego, usted…) è vero che noi godevamo spiritualmente, fisicamente.
Ci sembrava un giallo appassionante ma in effetti era una lezione di educazione civica. Mi sarebbe piaciuto donare una copia di Gli assassini sono tra noi a mia figlia che compie diciott’anni: visto che non è possibile, avrà la mia.