La batosta elettorale dei repubblicani e la defenestrazione di Donald Rumsfeld hanno rotto anche gli ultimi indugi.
Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema può ora ufficializzare ciò a cui la Farnesina lavora da tempo: il governo italiano si farà promotore, negli organismi internazionali, di un’iniziativa diplomatica che vada oltre la presenza puramente militare a Kabul e dintorni. Non è una «svolta» a sinistra, non ancora. E’ piuttosto un impulso forte e autorevole a un riorientamento e a una presa di contatto con la realtà che si fa strada anche nella Nato e in altri paesi europei: la guerra a Kabul non ha risolto la questione afghana, i talebani guerreggiano ancora e la popolazione non vive meglio di cinque anni fa. Anzi.
Il ministro degli Esteri sabato sarà a Kabul prima di volare in Cina e conferma i nuovi orientamenti del governo: a un sempre più in difficoltà Hamid Karzai dirà che «bisogna ripensare le linee d’azione» della missione Isaf, dal momento che «l’aggravarsi quotidiano della situazione nel paese dimostra che sul piano meramente militare è difficile trovare una soluzione a quella crisi».
Ciò detto l’Italia può andarsene da Kabul? «In Afghanistan non c’è l’Italia da sola, ci sono l’Ue, ci sono le Nazioni Unite e c’è la Nato, certo guardiamo con preoccupazione l’evoluzione della situazione e la crescita dell’insicurezza. Per cui – conferma il ministro – la mia visita a Kabul sarà l’occasione per esaminare la situazione assieme alle autorità afghane».
Se non c’è alcuna «exit strategy» la «svolta» politica c’è e già si intravede. L’Italia infatti vorrebbe organizzare (forse a febbraio) una conferenza internazionale aperta ai paesi dell’area (Iran e Pakistan in primis), ai paesi donatori, alla Nato, all’Onu e all’Unione europea. Sedersi tutti attorno a un tavolo e, dice D’Alema, «mettere a punto una strategia più efficace per pacificare il paese e rafforzare le istituzioni democratiche». Il «rafforzamento» in questione però – a differenza di sei mesi fa, quando il governo confermò la missione Isaf in uno scontro durissimo con la sinistra pacifista – sorvola del tutto sui soldati sul terreno e si concentra a chiare lettere solo sul «potenziamento degli aspetti politici, economici e umanitari della nostra presenza in quel paese».
Uscire dal pantano afghano non è affatto scontato. L’Italia però avrà qualche carta da giocare: da gennaio infatti inizierà il suo mandato biennale nel consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Certo, nonostante il «terremoto elettorale – avverte D’Alema – dovremo lavorare con questa amministrazione americana per altri due anni ma per convincerla a cambiare strada l’unica strada percorribile è quella del multilateralismo».
La partita, dunque, si giocherà più negli organismi internazionali che nelle aule parlamentari.
Tuttavia la sinistra pacifista (dal correntone Ds al Prc con Berlusconi hanno sempre votato contro la missione a Kabul come sull’Iraq) concede una vera apertura di credito al ministro degli Esteri. «D’Alema si sta muovendo lungo le linee da noi indicate nella mozione approvata con il rifinanziamento della missione in Afghanistan», dicono Giovanni Russo Spena e Francesco Martone del Prc. Sulla stessa lunghezza d’onda il capogruppo dei comunisti italiani a Montecitorio Pino Sgobio secondo cui le «incoraggianti» parole di D’Alema devono «dare il via a una svolta reale che va portata avanti fino al ritiro delle truppe». Apre anche il capogruppo dei Verdi alla camera Angelo Bonelli, convinto sostenitore della conferenza di pace: «Un ripensamento era inevitabile, ora si porti presso gli organismi internazionali la richiesta del ritiro delle truppe italiane dal 2007».
E’ ormai sempre più chiaro che il rifinanziamento puro e semplice difficilmente sarà votato dalle sinistre.
Ma le ultime notizie, sempre più drammatiche, in arrivo dalla Palestina hanno infine consentito al vicepremier di aprire a una «forte iniziativa internazionale» anche sul fronte medio-orientale: «Non si può più continuare ad assistere a quanto accade nei Territori palestinesi». D’Alema dunque chiede una risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu che imponga la tregua, rispolveri la «road map» e la soluzione «due popoli, due stati» e soprattutto consenta di «inviare nella regione un congruo numero di osservatori internazionali». Il lavoro è appena iniziato.