Dopo una settimana di negoziati accesi e aperti fino all’ultimo ad Hong Kong, i poteri forti che guidano l’Organizzazione mondiale del commercio hanno raggiunto un accordo per fare andare avanti la baracca, entrata apertamente in crisi con il fallimento di due anni fa a Cancun. Ben lontani dallo storico scontro Nord-Sud avvenuto in Messico, Stati Uniti ed Europa sono riusciti questa volta a riavvicinarsi e a convincere Brasile e India ad accettare un accordo modesto, ma che permette a tutti di dire che il ciclo negoziale di Doha ha finalmente superato il giro di boa e che si può avviare verso una conclusione, presumibilmente entro la fine del prossimo anno. Tranne gli Usa, che non hanno ceduto su nulla, ognuno del quartetto che guida il negoziato può avere qualcosa da recriminare, ma ha prevalso la real politik di un qualche accordo su ulteriori liberalizzazioni da raggiungere in casa cinese. I padroni di casa – temuti commercialmente dall’intero mondo – sono rimasti a guardare per l’intero negoziato, pretendendo solamente che la vetrina mondiale del vertice non si chiudesse con un fallimento. I veri sconfitti, ormai in maniera definitiva, sono i paesi più poveri del fronte del Sud, ossia la maggioranza dei membri del Wto. L’anno 2005, costellato da una inconcludente retorica sullo sviluppo da parte del G8 e delle istituzioni internazionali, si è chiuso per le realtà povere del pianeta con la condanna senza appello ad essere tagliate fuori dai mercati globali e ad avere un ruolo subalterno nell’economia globale.
Le poche ed affrettate conferenze stampa al termine del vertice confermano lo strascico di tensioni del duro negoziato, che ha finalmente smascherato l’agenda «dello sviluppo» di Doha. Non si va oltre la solita promessa di aiuti che mai compenseranno i danni delle liberalizzazioni per i più poveri e a una riduzione delle tariffe per le importazioni dai paesi poverissimi. Sul dramma del cotone dei Paesi dell’Africa occidentale gli Stati Uniti promettono che negozieranno ancora il prossimo anno, nulla più.
Allo stesso tempo, contro l’opposizione del gruppo dei 90 Paesi poveri del Sud passano le nuove modalità più vincolanti per il negoziato sui servizi, il tutto con l’assenso delle economie emergenti. Infine, si prepara il grande scambio agricoltura-prodotti industriali, secondo una logica che vedrà un’apertura profonda dei mercati del Sud del mondo ai prodotti industriali in cambio di una eliminazione (solo nel 2013) dei sussidi all’export agricolo dell’Ue, e forse in parte degli Usa.
Nulla di serio riguardo ai meccanismi di difesa dei prodotti sensibili per i paesi poveri, così come sul riconoscimento delle «indicazioni geografiche» tanto agognate dal mondo agricolo italiano. Tutta la partita lanciata a Doha nel 2001 sarà rifinita nei prossimi mesi a Ginevra, lontano dall’attenzione dell’opinione pubblica e dei media, per poi sancire i numeri delle riduzioni delle tariffe, per tutti i paesi, entro la fine del 2006.
E veniamo al fronte politico: nonostante Pascal Lamy, direttore generale del Wto, venda alla stampa l’accordo come un passo in avanti di «solo il 5 per cento nella giusta direzione», con quasi metà della strada ancora da fare, in realtà il ciclo negoziale di Doha è stato ridotto a un classico negoziato per aumentare le liberalizzazioni in favore dei grandi gruppi economici. I poteri forti sono disposti a convergere pur di chiudere entro il prossimo anno, piuttosto che migliorare il risultato di Hong Kong. Così non saranno più obbligati ai negoziati multilaterali.
Di fatto il round del millennio potrebbe essere l’ultimo dell’era Wto, dal momento che sia gli Usa che le economie emergenti puntano ormai ai negoziati in via bilaterale o regionale. Il perdente di questa logica è l’Unione Europea. Il Wto, sia per i liberisti sia per coloro che contestano l’ortodossia del libero mercato, rappresenta di fatto una promessa mancata di multilateralismo funzionante. Troppa democrazia lo porta a collassare e le decisioni per essere prese richiedono la presenza solo di pochi ed influenti membri. In futuro il Wto potrebbe diventare solamente un organo di risoluzione delle dispute, sulla base dello zoccolo duro del diritto commerciale internazionale che custodisce. In questo contesto è cruciale per il futuro dell’istituzione il suo allineamento con la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, anch’essi in crisi di legittimità.
Allo stesso tempo, l’alleanza del Sud del mondo in un fronte unico non tiene. L’accordo di Hong Kong si inserisce in una logica di negoziato politico complessivo tra le nuove e vecchie potenze del pianeta. L’obiettivo è definire una nuova «Yalta economica» nei prossimi due o tre anni al massimo, sia in termini di compiti di produzione nell’economia globale sia in termini di aree di influenza e peso politico. Brasile e India vogliono un posto nel consiglio di sicurezza dell’Onu, così come più quote nella Banca mondiale e nell’Fmi. La Cina ha già parte di questo riconoscimento istituzionale, e con o senza il Wto emerge già oggi come l’unico competitor globale della superpotenza a stelle e strisce.
Infine, il ruolo della società civile globale, che perde un riferimento di confronto politico. Di fronte all’impossibilità ad opporsi per i paesi più poveri, alla società civile non resta che ritrovare la forza di far sentire la sua voce