A Ginevra il Wto fallisce ancora

L’Organizzazione per il Commercio in totale paralisi. Ultimo tentativo a settembre

Ora rischia di estinguersi

Chissà come, chissà perché, all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto per amici e nemici) gli accordi riescono soltanto quando il mondo guarda dall’altra parte. Che siano le rarefatte “stanze verdi”, dove i paesi ricchi dettano le condizioni alle rispettive ex-colonie, che siano i corridoi della sede di Ginevra dove, nel luglio scorso, sono stati firmati patti decisivi, il Wto richiede sussurri in penombra e, come i vampiri, si dissolve alla luce del sole. «La Wto ha fallito gli obiettivi che si era prefissa, senza sfiorare nemmeno uno dei temi relativi alla povertà, allo sviluppo e alla salvaguardia delle aree più povere del pianeta» dichiara Monica Di Sisto di Roba dell’Altro Mondo/Fair, una delle organizzazioni italiane presenti a Ginevra per il Consiglio Generale dei Popoli, aggiungendo che «è questa la realtà che si nasconde dietro la retorica pomposa sul ruolo positivo del commercio rispetto allo sviluppo che abbiamo sentito nei giorni del G8 di Gleneagles».
Epilogo che, secondo Andrea Baranes della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, dimostra che «i negoziati commerciali multilaterali sono in profonda crisi, come ammesso pubblicamente nella conferenza stampa finale anche dal direttore generale Supachai» sostanzialmente per colpa del «fuoco incrociato degli interessi rappresentati dai poteri forti, come Stati Uniti ed Unione Europea, ma anche dai poteri emergenti come Cina, India e Brasile, che difendono le proprie esportazioni agricole e le proprie imprese a spese dei diritti innanzitutto dei propri cittadini».
Eccoci quindi, esattamente come a Seattle nel 1999, arenati sull’agricoltura – o per meglio dire, giunti al capolinea dove ci ha condotti la paradossale formulazione del liberismo del nuovo millennio: apri i mercati tuoi che io tengo chiusi i miei. Secondo alcuni esponenti della Commissione Europea le trattative sull’agricoltura sono bloccate in tutte e tre le questioni in discussione: l’accesso al mercato, il sostegno interno e il sostegno all’esportazione. I paesi del sud del mondo chiedono da anni la fine dei sussidi all’esportazione che strangolano le produzioni agricole locali – in primo luogo il cotone – rovinate dall’invasione dei supersovvenzionati prodotti europei e statunitensi. La Commissione Europea si è detta pronta a negoziare una data per l’eliminazione dei sussidi all’export, ma chiede in cambio la fine dei finti aiuti alimentari e dei crediti all’esportazione americani, che hanno esattamente lo stesso effetto dei sussidi europei. Così, dopo un decennio di liberalizzazioni forzate che hanno reso i paesi poveri sempre più poveri e quelli ricchi sempre più ricchi, il braccio di ferro fra Usa e Ue blocca ogni possibilità di imporre il rispetto delle regole del commercio a quelli che le hanno inventate – e imposte – al mondo intero.

Davanti al rimpallo delle due grandi potenze, i paesi in via di sviluppo, emergenti o meno, legittimamente rifiutano di procedere oltre con il ciclo di liberalizzazioni – che secondo la tabella di marcia, dovrebbero estendersi ai delicati settori dei servizi, dei prodotti industriali, dei brevetti e degli investimenti – prima che vengano corrette le «distorsioni del mercato agricolo» che penalizzano i paesi poveri. Alla sensata richiesta i rappresentanti delle grandi potenze continuano a rispondere con arroganza e sufficienza, invitando ad «andare avanti su tutti i tavoli senza preclusioni» come fa l’europeo Peter Mandelson, utilizzando esattamente le stesse parole del suo predecessore Pascal Lamy che, nel 2003 portarono al collasso del vertice di Cancun.

A questo punto qual è il futuro del Wto? O meglio, il Wto ha un futuro? Visto che è ormai appurato che i raggruppamenti dei paesi in via di sviluppo (il G20 a guida brasiliana, il G33 a guida indonesiana e poi il Gruppo africano, il Gruppo dei paesi meno industrializzati e il Gruppo delle ex colonie europee o ACP) hanno la forza per bloccare ulteriori negoziati, nella palla di vetro s’intravedono due scenari. Nel primo l’Organizzazione viene abbandonata a tutto vantaggio di accordi regionali come il Cafta appena approvato, se pure con un’esigua maggioranza, dal congresso statunitense. Il Wto, con tutta la sua retorica sulle regole globali del commercio, ha assolto la sua funzione di cavallo di Troia neo-coloniale: i mercati della maggior parte dei paesi sono stati aperti e le svariate forme di protezione con cui i governi sostenevano le economie locali sono state abbattute, il tutto nella prospettiva di una reciprocità che non è arrivata, e non arriverà mai. Accordi regionali come il Nafta e il Cafta – a guida americana – come gli Epa, gli accordi di libero commercio che l’Ue sta negoziando con i paesi ACP oppure quelli a cui sta lavorando la Cina nella propria area d’influenza, in questa fase sono molto più convenienti perché consentono alle potenze globali o regionali di continuare a dettare le condizioni agli stati più deboli senza cambiare di una virgola le proprie politiche protezioniste. Da questo punto di vista la nomina a direttore generale di Pascal Lamy, noto per l’intransigenza, sembra fatta apposta per proiettare il Wto verso l’ennesimo e probabilmente ultimo collasso in una «maratona a tappe forzate», come ha annunciato ieri durante la conferenza stampa in cui presentava la squadra che s’insedierà insieme a lui il primo settembre.

Nel secondo scenario si intravede un Wto riformato, ma non nel senso desiderato dalla parte più moderata del movimento dei movimenti che sperava di addomesticare l’Organizzazione con l’introduzione di un nuovo sistema di regole – le clausole sociali, per il lavoro, quelle ambientali o quelle sanitarie, per risolvere l’annosa questione dei brevetti sui farmaci. La riforma in questione – della quale si è cominciato a parlare già dopo il fallimento di Cancun – riguarderebbe in sostanza un drastico cambiamento delle modalità del consenso per disaggregare le alleanze e, in sostanza, togliere ai paesi in via di sviluppo ogni possibilità far sentire la propria voce. Fanno pendere per questa ipotesi le raccomandazioni finali del direttore generale uscente, il thailandese Supachai, che chiede ai paesi membri «un approccio più flessibile e pragmatico al processo negoziale». Secondo fonti autorevoli una delle “modalità flessibili” consiste nel moltiplicare i tavoli tematici – servizi, brevetti o quant’altro – dove dialogare con le imprese di settore al riparo dal controllo dei propri parlamenti e dal confronto con i movimenti e la società civile. E’ stato così che, nel luglio scorso, il Consiglio generale è riuscito a strappare delle firme che non avrebbe mai ottenuto alla luce del sole. In questo secondo scenario il Wto continuerebbe a funzionare come una sorta di camera di commercio internazionale, dove i vari potentati hanno la possibilità di dettare condizioni e firmare contratti, al prezzo però di sacrificare la legittimità che la retorica liberista aveva assegnato all’Organizzazione insieme al ruolo salvifico che i sacerdoti del dogma economico avevano assegnato al libero commercio.