Hai voglia a parlare di autonomia del movimento rispetto al governo, ma quando in un’assemblea pacifista a intervenire per buona parte sono esponenti istituzionali capisci che il problema è tutto lì ed è inutile girarci attorno. La galassia pacifista si è in parte fatta governo, Rifondazione comunista nel ruolo del leone, e il nodo da sciogliere è come conciliare tutto questo con le posizioni intransigenti del movimento. E come ottenere una svolta significativa nella politica estera senza rischiare di far cadere il «governo amico». Dunque, no alla missione in Afghanistan «senza se e senza ma» o «senza se con qualche ma»? Lunedì si vota al Senato e ieri a Genova una vasta fetta del movimento ha tentato di prendere il toro per le corna e riallacciare un dialogo tra «governisti» e «movimentisti» che finora ha spaccato in due i pacifisti.
Risultato? Platea nettamente a favore del ritiro da Kabul nonostante le aree più radicali si siano tenute ben lontane dall’appuntamento, grandi applausi per Paolo Cacciari e per il senatore «dissidente» Franco Turigliatto che si difende dall’accusa di anacronismo lanciatagli dal presidente Napolitano. E un documento finale che ricalca quello dell’assemblea degli «autoconvocati» una settimana fa a Roma, lanciando una campagna nazionale per il ritiro dall’Afghanistan a partire da settembre, con un grande appuntamento di discussione, forse a Firenze, per tentare di ritrovare l’unità dei no war, fino ad arrivare a una grande manifestazione. Non si è parlato di date, anche se un pezzo del movimento, che ieri non era presente, pensa al 30 settembre, data partorita al Forum sociale europeo di Atene.
L’impressione è che, se pure anche al Senato il decreto sulle missioni militari alla fine passerà, la grana vera sarà invece tra sei mesi, quando difficilmente, se la nostra politica estera non dovesse essere cambiata, si potrà parlare di «riduzione del danno» rispetto al mantenimento del contingente italiano in Afghanistan. «Il nostro obiettivo è arrivare al ritiro delle truppe tra sei mesi», quando si dovrà votare il rifinanziamento, spiega Vittorio Agnoletto, europarlamentare Prc. Per ora il confronto è aperto e le distanze rimangono immutate: Cacciari si fa applaudire quando dice che «dobbiamo incalzare l’Unione», parla di «peacekeeping» e «corpi di pace» e propone una «camera di consultazione» tra movimento e governo; Sabina Siniscalchi, che, al contrario del suo compagno di partito, alla Camera ha votato sì al decreto perché convinta che, con la politica dei «piccoli passi», qualcosa si possa cambiare; Claudio Grassi, senatore «dissidente» del Prc, che ricorda come «se non ci fossimo stati noi ci sarebbero state solo luci verdi di consenso su un’intesa insufficiente che è stata un errore votare senza far pesare le nostre ragioni»; Luciano Muhlbauer, consigliere regionale lombardo di Rifondazione, che pensa a un’«agenda di mobilitazioni per l’autunno», pena «il suicidio politico del movimento»; e Josè Luiz del Rojo (deputato Prc) che invita invece a non fossilizzarsi sul «dettaglio» Afghanistan rispetto alla battaglia globale contro il neoliberismo di cui Kabul è pure un tassello. Tutti con un passato recente nei movimenti sociali e oggi di fronte alla sfida di governo.
«Non ho mai pensato che un governo che va da Mastella a Bertinotti potesse esprimere le istanze del movimento pacifista, che oggi non ha rappresentanza politica» ed è in crisi «e non da ora», con «gran parte dei settori cattolici sempre meno presenti», dice invece il segretario Fiom Gianni Rinaldini. Dunque meglio tenere la barra sulle proprie posizioni e dotarsi di un’autonoma agenda di iniziative. Ma un’assemblea no war non può non discutere anche di Israele e Libano. Con preoccupazione e qualche allarme per le proposte arrivate anche dal governo italiano. «Non dobbiamo scambiare l’umanitarismo con il diritto internazionale, altrimenti rischiamo un altro Kosovo», mette in guardia Raffaele Salinari di Terre des Hommes. Un altro fronte per un movimento pacifista che tenta di sfuggire alla sindrome da governo amico.