«A cosa serve il sindacato», l’ultimo libro di Pietro Ichino

Ma davvero le proposte recentemente avanzate da Pietro Ichino sulla struttura dei contratti collettivi di lavoro e, più in generale, sul ruolo del sindacato nell’attuale fase storico-politica, avrebbero l’obiettivo di «dissolvere la sinistra», come ha scritto Eugenio Scalfari su «Repubblica» del 18 gennaio scorso? E davvero il giuslavorista milanese – nato e cresciuto nella Fiom e nel Pci – sarebbe diventato la punta di lancia di un progetto di «restaurazione neocentrista», che costituirebbe l’asse portante della linea editoriale del Corriere della sera? Recentemente questo giornale ha reputato «convincente» l’analisi scalfariana. Vanno tuttavia esplicitati i non pochi dubbi sulla valutazione di fondo che Scalfari dà della elaborazione che da anni sta portando avanti Pietro Ichino. Non solo perché è poco convincente l’accostamento tra Ichino e Angelo Panebianco, tra i quali la distanza è siderale, ma soprattutto perché, avendo da poco letto il libro che Ichino ha dedicato a questi temi (A che cosa serve il sindacato?, Mondadori, pp. 287, € 17,50), non riesco a non collocare in quella più ampia cornice ciò che egli scrive nei suoi interventi sul Corriere della sera.

So bene che il significato politico di un’analisi o di una proposta emerge primariamente dal contesto e s’impone con la sua oggettività anche al di là delle intenzioni soggettive di chi la compie. Ciononostante, mi pare egualmente opportuno allargare lo sguardo, perché nel discorso di Ichino l’analisi e la proposta sono ben più complesse e articolate della sintesi, invero un po’ caricaturale, che ne ha fatto Scalfari e pongono rilevanti problemi anche a quanti (e chi scrive è tra questi) si collocano mille miglia lontano dalla linea editoriale del Corriere della sera.

Prototipi contrapposti

Sotto questo profilo, anzi, è perfino riduttivo discutere del libro di Ichino nel quadro della polemica giornalistica di cui s’è detto, visto che il suo è uno dei pochi sforzi analitici rivolti a scandagliare il buco nero della crisi che le forme classiche del sindacalismo novecentesco stanno attraversando in conseguenza di quella «personalizzazione» dei rapporti fra capitale e lavoro (e tra lavoro e spesa pubblica) che si è innescata dopo il tornante degli anni Settanta.

Ma se è vero che habent sua fata libelli, non è detto che non si possa trarre qualche implicazione di carattere generale dal fatto che la (polemica) attenzione dei commentatori sia stata richiamata da certe sue tesi piuttosto che da certe altre.

Un dato difficilmente discutibile dal quale possiamo prendere le mosse è costituito dal dualismo del nostro mercato del lavoro. Chiunque voglia parlare del futuro delle nostre relazioni industriali non può infatti esimersi dal constatare che, attualmente, leggi e contratti collettivi valgono per meno della metà della forza lavoro occupata: 9,3 milioni di lavoratrici e lavoratori, di cui poco meno di sei milioni alle dipendenze di imprese con oltre quindici dipendenti e circa tre milioni e mezzo alle dipendenze di amministrazioni pubbliche. Per i tre milioni di persone che lavorano in un’impresa con meno di sedici dipendenti, per le altrettante che lavorano in nero e per gli uno-due milioni di veri o falsi co.co.co. (oltre che, naturalmente, per il milione e passa di disoccupati), il contratto collettivo nazionale è un puro flatus vocis, che può servire tutt’al più a intentare una causa quando il rapporto di lavoro è cessato – e sempre ammesso, beninteso, che si trovi il compagno di lavoro che viene a testimoniare, che l’impresa condannata abbia di che pagare e non fallisca prima e che il lavoratore o la lavoratrice vogliano correre il rischio di essere etichettati come «piantagrane», con quel che ne consegue circa le chances di trovare lavoro altrove.

Tenendo questo dato ben saldo sullo sfondo, Ichino ricostruisce le drammatiche vicende che hanno segnato la fine dello stabilimento dell’Alfa di Arese e le pone a confronto con quelle che hanno fatto seguito all’insediamento della Nissan a Sunderland, in Gran Bretagna, e della Saturn a Spring Hill, negli Stati Uniti. Scopo della sua analisi è la costruzione di una griglia per lo studio combinato delle relazioni industriali e dei rapporti di lavoro, dalla quale emerge un gradiente per cui, ad un estremo, relazioni industriali fortemente centralizzate si combinano con un contratto di lavoro ad elevato contenuto assicurativo mentre, all’estremo opposto, un rapporto di lavoro a contenuto assicurativo ridotto è associato a relazioni industriali fortemente decentrate. Fra i due prototipi contrapposti si estende la gamma dei modelli possibili, che cioè combinano in vario grado centralizzazione/decentramento delle relazioni industriali e alto/basso contenuto assicurativo dei rapporti di lavoro.

Problemi di rappresentanza

L’esercizio analitico, ovviamente, non è fine a se stesso, ma è volto ad enunciare la tesi di fondo del libro. Ichino, infatti, sostiene che la cultura giuslavoristica e la legislazione ordinaria stratificatesi nell’ultimo mezzo secolo in Italia hanno prodotto una situazione in cui il modello che combina relazioni sindacali centralizzate con rapporti di lavoro ad alto contenuto assicurativo, per quanto oggettivamente in crisi e incapace di rimediare all’esclusione di metà della forza lavoro occupata, non solo è ancora dominante, ma è anche difficilmente sostituibile, a causa del persistente disaccordo fra Cgil e Cisl su quale debba essere il baricentro della contrattazione collettiva e su come si debba misurare la rappresentatività del sindacato. Di qui la proposta del giuslavorista milanese: «la Cisl accetta la regola che attribuisce la prerogativa della contrattazione collettiva con pieni poteri alla sola coalizione maggioritaria, la Cgil accetta che la coalizione maggioritaria al livello aziendale, zonale o regionale possa contrattare, a quel livello, anche in deroga al contratto collettivo nazionale».

Contrattare «in deroga» non significa necessariamente in senso peggiorativo: può significare anche fissare un diverso sistema di inquadramento professionale, una disciplina diversa dell’orario di lavoro o una riduzione della parte fissa della retribuzione compensata da un aumento della sua parte variabile (Ichino ricorda che, a seguito dell’adozione di un sistema del genere, i metalmeccanici addetti alla Nissan e alla Saturn guadagnano in media più del doppio dei loro colleghi italiani). Il contratto collettivo nazionale, invece, «conserverebbe il suo ruolo essenziale di rete di protezione universale, assumendo però il carattere di disciplina “di default”, cioè di regolamento applicabile soltanto dove non ne sia stato pattuito uno diverso da una singola organizzazione o coalizione sindacale di livello inferiore, dotata della necessaria rappresentatività nella zona o azienda cui il contratto si riferisce».

Benché nel libro (e ancor più negli articoli sul Corriere della sera) emerga una certa preferenza per il modello decentrato, Ichino si guarda bene dal difenderlo a spada tratta: la «questione cruciale», a suo avviso, è un’altra, e precisamente «se e come a lavoratori e imprese sia data la possibilità effettiva di scegliere tra di essi». Anche perché, egli dice a chiare lettere, il successo del modello non richiede soltanto un management aziendale «altrettanto lungimirante e credibile» della sua controparte sindacale (ed è qualcosa che «manca, o è mancato per troppo tempo»), ma soprattutto necessita di «una rete universale di sicurezza costituita da un sistema di servizi scolastici, di formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente possibili, di informazione e orientamento professionale, di assistenza alla mobilità geografica, di ricerca intensiva e personalizzata della nuova occupazione, oltre che di sostegno del reddito per la durata del periodo di disoccupazione»: tutte cose che debbono essere assicurate «anche al costo di un ingente prelievo dal prodotto nazionale lordo», secondo un «modello sperimentato con notevole successo […] nei Paesi nord-europei e in quelli scandinavi in particolare: i Paesi dove gli ultimi della fila stanno meglio, rispetto a qualsiasi altro Paese al mondo».

Se queste sono le (vere) tesi di Ichino, mi riesce difficile capire perché mai dovrebbero implicare «marginalizzazione dei deboli e predominio dei forti», come sostenuto da Scalfari. Contrariamente a quanto sembra pensare il fondatore di Repubblica, ad attribuire «allo Stato il compito “supplente” di raccogliere gli sconfitti lasciati ai bordi della strada» è stata la stagione della concertazione 1993-2001, col suo diabolico intreccio di incapsulamento della contrattazione collettiva, drastica flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, distruzione delle leve di politica industriale e massicci avanzi del bilancio pubblico. E non le proposte di Ichino, ma le scelte politiche operate in quel torno di tempo dagli eredi del Pci e della sinistra Dc (che, sempre secondo Scalfari, sarebbero i soli a poter dar vita «ad un forte partito riformista») hanno consentito che a presidio dei più deboli restassero «pensioni sociali», «assistenza sanitaria sociale» e «scuola pubblica sociale, dove l’aggettivo “sociale” sta per rete di protezione minima in un sistema ispirato alla massima libertà individuale con l’effetto di accrescere ulteriormente le già intollerabili disuguaglianze prodotte dal sistema». O Scalfari ha dimenticato le stime dell’Istat sulla variazione della distribuzione del reddito nella felice stagione della politica dei redditi a senso unico? E che a cantare le lodi di Bill Clinton e Toni Blair, figli naturali di Mrs Thatcher, erano Veltroni e D’Alema?

I capitano coraggiosi

Ancor più incomprensibile mi sembra l’accusa di collateralismo rispetto agli «interessi e alla cultura della borghesia imprenditoriale padana». Si può certamente rilevare che, nel modello proposto da Ichino, il sindacato deve lasciare al padrone la scelta se la fabbrica o una sua parte deve vivere o chiudere, ma questa non è che una conseguenza dello smantellamento degli strumenti programmatori che si è accompagnato alla svendita delle partecipazioni statali nell’industria: scelte anch’esse largamente imputabili ai sullodati «riformisti» (ricorderete tutti l’apologia degli «imprenditori coraggiosi») e contro le quali non ricordiamo che si sia levata alta la voce di Scalfari.

Sarebbe poi gravemente erroneo pensare che all’analisi e alla proposta di Ichino si possa contrapporre il puro e semplice mantenimento dello status quo, magari (come sembra suggerire Alfonso Gianni su Liberazione del 21 gennaio) con l’aggiunta di una legge sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro. Benché Ichino ricordi che, dal punto di vista dell’efficienza del sistema economico, sistemi di relazioni industriali fortemente centralizzati sono assolutamente equivalenti a sistemi completamente decentrati, la comparabilità vale solo se il contratto nazionale è uniformemente applicato. Se invece – come ad esempio accade nel Mezzogiorno – si consente alle imprese di «derogarvi» nelle forme becere del sommerso (nel senso che tanto i sindacati quanto i pubblici poteri fanno finta di non accorgersene perché sanno che un intervento d’autorità porterebbe inevitabilmente alla chiusura delle aziende, al licenziamento degli occupati e alla rivolta sociale), allora l’equivalenza non vale più. Qui davvero Ichino ha ragione: «l’assetto tradizionale favorisce il formarsi di posizioni sperequate – sia verso l’alto, sia verso il basso – al di fuori dell’area protetta».

Detto ciò, va aggiunto che la proposta di Ichino non persuade e, d’altronde, difficilmente avrà il consenso del padronato, prima ancora che dei sindacati. Non trovo convincente, infatti, l’argomento secondo cui l’attuale divieto di derogare rispetto al contratto nazionale si fonderebbe «sull’idea che la valutazione data dai sindacati nazionali […] sia in ogni caso più affidabile rispetto alla valutazione che ne danno i lavoratori stessi nel caso concreto»: quel divieto origina piuttosto dal ruolo che, nel secondo dopoguerra, il sindacato ha giocato nella concertazione delle politiche monetarie e distributive. Il fatto che la politica monetaria sia stata adesso accentrata a Francoforte e che la presenza di rilevanti differenziali salariali fra gli stati membri dell’Unione europea obblighi la Bce ad una politica monetaria alquanto rigida può aver senz’altro reso obsoleto il contratto collettivo nazionale (per gli imprenditori, in effetti, è solo un impaccio, che li obbliga a negoziare due volte sulla distribuzione dei redditi senza averne alcuna contropartita in termini di bassi tassi d’interesse), ma di qui a passare ad un modello compiutamente «aziendalista» ne corre.

Decentramento europeo

Un sindacato aziendalista, infatti, non è incline a farsi carico del perseguimento di obiettivi di carattere generale, come ad esempio una distribuzione del reddito non inflazionistica, e in un contesto in cui tutti gli attori del sistema delle relazioni industriali sono troppo «piccoli» rispetto all’autorità monetaria questa tendenza può generalizzarsi, nel senso che nessun sindacato si preoccuperà del fatto che le sue richieste salariali, traducendosi in un innalzamento dei prezzi delle merci finite, comportino l’innesco di spirali «salari-salari» e «salari-prezzi», specie considerando che per molti settori della nostra economia (servizi bancari, bancoposta, Rc auto, alberghi, ristoranti, pubblici esercizi, tariffe dei servizi pubblici, tariffe professionali: in genere, il terziario) non vale il vincolo della concorrenza di prezzo.

Un’eventualità del genere, però, è seriamente preoccupante per il nostro padronato, che ha già compreso cosa vuol dire il rigore nella conduzione della politica monetaria e sa che ci vuol poco perché la Bce rilevi pericoli d’inflazione e rialzi i tassi, frustrando le sue aspettative di profitto a vantaggio della rendita. Ecco perché, fin qui, un modello decentrato non è prevalso e – nella forma auspicata da Ichino – è difficile che s’imponga: sarebbero gli imprenditori esposti alla concorrenza i primi ad esserne potenzialmente penalizzati. Non è un caso che Ichino abbia dovuto mutuare i suoi esempi da realtà esterne all’«euroarea», unica zona del mondo in cui una banca centrale non ha di fronte a sé un potere politico al quale rendere conto del suo operato!

Il vero problema, però, è un altro, ed è che il modello decentrato di relazioni industriali è strutturalmente incapace di assicurare l’uniforme diffusione dei benefici del progresso tecnologico. Non se ne può dir qui ex professo; si può solo aggiungere che nell’aver completamente ignorato questo aspetto della proposta di Ichino (e nel non aver compreso che nella sopravvenuta incapacità del sistema vigente di provvedervi sta l’autentica ragione dell’impasse in cui ci troviamo) si può cogliere quell’implicazione ricordata all’inizio, e che si può sintetizzare dicendo che nessuna delle parti in contesa dispone, al momento, di una risposta plausibile alla domanda «a che cosa serve il sindacato». Non sarà perché nessuno sa più a che cosa serve la politica economica?