Negli ultimi giorni hai denunciato l’esistenza, all’interno del governo della città, di un nucleo forte (una piccola oligarchia, composta da Veltroni, Bettini e Andrea Mondello) che fa il bello e il cattivo tempo e cioè assume decisioni in assoluta autonomia.
A questo proposito ti faccio due domande: cosa produce questa situazione sul piano del metodo democratico e sul piano delle scelte di merito della Giunta?
In secondo luogo: che prospettive ha questo conflitto? Che evoluzioni pensi che abbia?
Penso di aver espresso un’idea che a Roma condividono in molti: in questi anni si è costituito un canale decisionale privilegiato che comprende alcuni apparati politici e i rappresentanti dei poteri forti della città. Le ripercussioni sul piano del metodo sono evidenti: siamo in una condizione in cui il Consiglio rischia di essere svuotato della propria azione, così come la stessa Giunta, sovrastata da una super-Giunta che gestisce autonomamente, per esempio, i fondi per l’urbanistica. Questa tendenza va denunciata in primo luogo dal punto di vista della tenuta democratica della città perché rischia di paralizzare l’istituto della rappresentanza, producendone l’asfissia. Le decisioni importanti sono oggi assunte da pochi: dobbiamo ridare, invertendo la rotta, funzione e dignità al Consiglio comunale e agli altri istituti democratici e allargare la partecipazione.
Hai scritto recentemente due articoli su Liberazione per difendere il compagno Sante Moretti che, sebbene mai indagato per la morte di Francesco Cecchin né per altre vicende di violenza, vive sotto la costante minaccia dei neo e dei post fascisti. Io penso che il tema che sta al fondo di questa vicenda sia il rapporto che Rifondazione Comunista deve avere nei confronti di quel mondo. La vicepresidente della Camera Meloni, leader di Azione Giovani, sembra ipotizzare la possibilità di una pacificazione, di un reciproco ascolto…
Va fatta una distinzione importante. Non penso che in Italia ci sia il pericolo che il fascismo torni al potere. Tuttavia è sotto gli occhi di tutti che in alcune città del nostro Paese, e Roma è tra queste, gruppi di fascisti, anche numerosi, sopravvivono e mantengono (a volte guadagnano) una propria agibilità politica. Agibilità politica che si traduce in pratiche squadristiche e violente. Rispetto a questi gruppi – da Forza Nuova alla Fiamma Tricolore al Blocco Studentesco – penso siano sufficienti le parole di Pajetta: con loro abbiamo finito di discutere il 25 aprile del 1945. Non c’è il minimo terreno di confronto. Per Alleanza Nazionale vale forse un discorso differente. Vale il percorso storico che il suo gruppo dirigente ha intrapreso, la de-fascistizzazione, la dichiarazione di Fini del fascismo come “male assoluto”. Certo è che tutto ciò (questa opera di istituzionalizzazione del vecchio Msi) viene clamorosamente contraddetto da altri elementi: permangono, dentro An e soprattutto dentro Azione Giovani, atteggiamenti molto simili al neofascismo movimentista degli anni Settanta. Rilevo quindi questa contraddizione: invocano la pacificazione e poi con le celtiche e la violenza perseguitano un nostro compagno, innocente, a trent’anni da quei fatti drammatici. Il punto rimane questo: dobbiamo inchiodarli a questa loro doppia verità, a questa loro doppia identità.
Sul Corriere della Sera hai definito il Prc “acrobata tra governo e criticità”. Questa metafora è pertinente anche sul piano nazionale?
Penso di sì. Il partito è acrobata tra la governabilità e la radicalità e ciò è il prodotto di una linea complessa, articolata. Ritegno che oggi sarebbe un errore fare un passo indietro ma anche farne uno in avanti, nella ricerca della purezza identitaria, una tentazione oggettivamente presente nel nostro partito, e quindi metterci fuori da questo governo. Non possiamo riconsegnare il Paese alle destre per i disastri che ciò produrrebbe sul piano materiale ma anche perché Rifondazione Comunista sarebbe messa chissà per quanti anni all’angolo. Questo però non ci deve esimere dal sottolineare con la penna rossa tutti i passaggi che, nell’azione di questo governo, consideriamo negativi e che non vanno nella direzione che noi riteniamo co-essenziale rispetto alla nostra presenza al governo.
Né un passo indietro né un passo avanti rispetto a questa collocazione di confine. Ci muoviamo ovviamente su di un filo molto sottile.
Ci avviciniamo alla Conferenza di Organizzazione. Uno dei temi oggetto della discussione è lo stato del partito e le forme del suo radicamento. Qual è il tuo giudizio sui circoli territoriali e quale il tuo giudizio sui circoli tematici?
Considero tuttora l’organizzazione come la scienza della composizione di classe. Noi dovremmo capire a cosa servono le forme organizzate della politica: io penso che non servano ad autoalimentare liturgie interne di partito ma ad intercettare il consenso di ciò che socialmente intendiamo rappresentare. Penso in primo luogo alla precarietà: le nostre forme politiche, da questo punto di vista, non sono nemmeno novecentesche ma ottocentesche e quindi faticano ad interpretare tempi ed orari dei lavoratori di oggi, addirittura la modalità di vita delle forme metropolitane. Sono quindi d’accordo con lo sperimentare forme più flessibili di organizzazione, più adeguate alla società che dovremmo interpretare ed intercettare. Rimane però un punto importante: come riusciamo a potenziare nei paesi di provincia, oppure nelle circoscrizioni delle grandi città, l’azione del Partito? Bene quindi la sperimentazione, peraltro già prevista dallo statuto, dei circoli tematici ma sarebbe importante rafforzare il meccanismo del coordinamento territoriale, inserirlo in termini chiari nello Statuto. Altrimenti, ripeto, rischiamo che ognuno interpreti a proprio modo il simbolo e le forme di Rifondazione Comunista.