Ventinove giovani, ventinove persone a cui la Costituzione della Repubblica deve dei diritti e assegna dei doveri. Cittadini come tutti, e come tanti coinvolti in qualcosa più grande di loro, in una sorta di riedizione di quel vizio che viene chiamato “teorema”, la faccia impresentabile, il deturpamento del diritto e delle procedure di giustizia.
I giovani di corso Buenos Aires, che manifestarono a Milano contro il corteo dei neofascisti della Fiamma tricolore, hanno visto terminare la loro disavventura pochi giorni fa: nove sono stati assolti, due hanno patteggiato e gli altri sono stati condannati a pene da scontare agli arresti domiciliari.
Una sentenza che sembrava essere in qualche modo già scritta, evidente nelle richieste così perentorie del pubblico ministero, di una accusa che sembra brandire il codice penale come una clava. Piovono pietre ancora una volta, piovono sulla verità di quel giorno, sugli incidenti che si sono verificati nel corso della manifestazione antifascista. E ancora una volta la verità è intermittente: nelle foto di quel giorno non si vedono tutti e ventinove i giovani in questione, se ne vedono alcuni. E non certo in procinto di devastare Milano, ma sfilare, agitarsi e urlare contro il micropartito neofascista.
Una sufficienza di prove che basta comunque per tenerli in prigione per quattro mesi. Chi ripagherà questi ragazzi della libertà che è stata loro tolta? Chi riconsegnerà a questi giovani una degna immagine della Legge, delle garanzie giuridiche? Che ruolo ha in questo frangente proprio la massima espressione della comunità sociale e civile? Repressione, attacco indiscriminato, uso della legislazione senza una minima interpretazione delle contingenze che si sono create, quindi applicazione cieca, imprescindibile, totale, assoluta del codice.
Sotto accusa sono finiti dei giovani antifascisti, indubbiamente, ma sono finiti sotto accusa anche il diritto a manifestare liberamente ancora una volta in questo Paese e quello di libertà di riunione. Principi garantiti dalla Carta del ’48 e che non sono mai stati derubricati. In qualche modo si vuole insegnare a tutti che è pericoloso scendere nelle piazze, che lo è ancor di più se lo si fa con uno scopo preciso.
Siamo alle soglie di un diritto applicato come se si fosse in presenza di una legge di Pratile, dove chi è accusato deve dimostrare la propria innocenza e non viceversa. Può apparire un paradosso, può sembrare un’esagerazione, ma di questo ci parla la vicenda di Milano.
Da almeno sei anni a questa parte la gestione dell’ordine pubblico nelle piazze e nelle vie del Paese è stata a dir poco stigmatizzabile: in questi giorni ci viene alla mente Genova, la mattanza della Diaz, la trasformazione della caserma di Bolzaneto in un avamposto di prigione e di tortura. Atteggiamenti cileni, in completo disprezzo a regole che da oltre sessant’anni si sono dimostrate efficaci nel permettere a noi tutti di possedere un piccolo orto di libertà, di riappropriarci proprio degli spazi di vita e di socialità negati dal fascismo in oltre vent’anni di dittatura e che i poteri oscuri, con un centro gravitazionale nella loggia P2, avrebbero voluto ridimensionare considerevolmente. Basta leggere il “Piano di rinascita nazionale” di Gelli per comprendere quali rischi la democrazia italiana abbia subìto e come sia stata preservata proprio grazie alla presenza di una grande rete di solidarietà democratica gestita non solo dai comunisti.
Se il diritto alla libertà diviene così sottile, labile e privo di valore, chi può essere al sicuro veramente? Chi può dire di avere nella Costituzione un chiaro elemento di separazione tra la giustizia sommaria e la garanzia del diritto?
La discontinuità va segnata anche in questo frangente, disponendo un rigoroso rispetto della libertà personale, di quella di associazione, di manifestazione del proprio pensiero in qualunque sede e luogo. Ciò non significa certamente che siano possibili saccheggi, devastazioni e violenze. Nulla di tutto questo sta scritto nella nostra storia di comunisti, né in quella del movimento operaio. La azioni violente e terroristiche hanno sempre generato situazioni di debolezza strutturale per i lavoratori e per chi si pone in contrapposizione con quello che potremmo definire il “sistema”.
Ma proprio perché la nostra radice storica risiede nel conflitto e nella lotta, ci è difficile, anzi ci è proprio impossibile immaginare ed assistere alla criminalizzazione del dissenso, della protesta, della dimostrazione evidente di un disagio sociale che si concretizza nelle piazze.
E’ un crinale molto pericoloso, conduce per l’appunto alla limitazione esponenziale dei diritti costituzionali, da sempre patrimonio degli avversari dei lavoratori ed oggi anche del moderno proletariato giovanile. Nel Parlamento e nel Paese si può vincere questa battaglia di civiltà, di restituzione ai cittadini di ciò che è loro, e di equipollente restituzione alla Costituzione del suo grande ruolo di determinazione del vivere civile.