Ennesimo attacco a Gramsci e alla storia del PCI

L’ENNESIMA CAMPAGNA CONTRO GRAMSCI E LA STORIA DEL PCI
di Alexander Höbel, Coordinatore del Comitato scientifico di Marx XXI

gramsci guttusoCon una cadenza quasi regolare, ormai da anni, la pubblicistica italiana, col concorso attivo di settori del mondo accademico, propone violente campagne ideologiche, che hanno il loro bersaglio preferito nel “comunismo” tout court, con particolare attenzione alla storia del Partito comunista italiano e alle figure di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. Su questo secondo versante gli attacchi si sono intensificati negli ultimi tempi, probabilmente a causa del fatto che Gramsci è uno degli autori italiani più letti e studiati nel mondo, e la sua complessa elaborazione non cessa di influenzare movimenti politici rilevanti in diverse zone del pianeta, a partire da quell’America Latina che negli ultimi anni, mentre nella vecchia Europa i diritti sociali e politici regredivano, ha visto avviarsi significativi percorsi di emancipazione e nuovi tentativi di transizione.

Il fatto che Gramsci, e con lui Marx e i migliori teorici del marxismo novecentesco, siano tutt’altro che “cani morti”, e che del contributo di un partito come il PCI si senta sempre di più la mancanza nel nostro dissestato paese, evidentemente dà fastidio. Ecco allora le ripetute campagne anticomuniste, sebbene il comunismo fosse stato dato per morto con grande giubilo, da “Repubblica” & soci, già nel 1989-91.

L’ultima campagna in ordine di tempo è quella di queste settimane. Essa ha per protagonisti autori di diverso peso e qualità scientifica, mossi probabilmente da diverse intenzioni, ma delinea una sorta di attacco concentrico alla figura di Gramsci e alla storia del PCI. Cerchiamo quindi di descrivere brevemente i vari “punti d’attacco”.

L’incipit è stato fornito dall’ultimo libro di Franco Lo Piparo, docente di Filosofia del linguaggio all’Università di Palermo e autore che già in passato si era misurato con l’elaborazione di Gramsci da un punto di vista filologico. Il volume, edito da Donzelli e dal titolo I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista, riprende e sviluppa l’annosa polemica sulla presunta rottura tra Gramsci e il PCd’I durante la detenzione del rivoluzionario sardo, sostenendo che accanto al carcere fascista egli avrebbe dovuto subire una seconda prigionia, quella costruitagli attorno dal suo partito, e dal comunismo stesso come armatura ideologica da cui infine Gramsci si sarebbe liberato. Di qui l’ipotesi di un quaderno “fantasma”, non ritrovato né pubblicato, ma alla cui esistenza farebbero pensare alcuni riferimenti e allusioni del prigioniero e dello stesso Togliatti. Inutile dire che a far sparire il quaderno sarebbe stato proprio il Migliore… Naturalmente nel lavoro storiografico formulare ipotesi è più che lecito, ma occorrerebbe suffragarle con elementi di una certa consistenza. Al contrario in questo caso non c’è alcun riscontro oggettivo. Tuttavia, ripresa da studiosi e giornalisti, l’ipotesi diventa certezza, ed ecco Nello Ajello su “la Repubblica” (28 gennaio) discettare sull’“altro carcere di Gramsci”; ecco che il lavoro di cura redazionale che Togliatti giustamente ritenne necessario per la pubblicazione dei Quaderni gramsciani diventa – cito testualmente – “un promemoria della perfidia di Togliatti” (sic!). “Dopo non essersi troppo adoperato per liberare il suo ex-segretario dalle carceri fasciste (sic!), il Pci decise in ritardo (sic!) di ricordarsi di lui onorandone la memoria”. Il fatto che la corrispondenza tra Giulio Einaudi e Togliatti per la pubblicazione dei Quaderni del carcere cominci pochi giorni dopo la Liberazione, e che già durante la guerra, mentre si trovava in URSS, Ercoli avesse posto le basi di questo lavoro, per Ajello non conta, così come non contano i numerosi, ripetuti tentativi del PCd’I di ottenere la liberazione del suo leader.

Il libro di Lo Piparo è recensito anche sul domenicale del “Sole 24 Ore” (12 febbraio) da Sergio Luzzatto, che ci spiega “come, quando Gramsci parlava della moglie Julca, egli si riferiva soprattutto – in cifra – all’universo comunista. Sicché la sua separazione da Julca andava intesa come una separazione dal partito”. Logico, no? È evidente che procedendo così, di assioma in assioma, di sillogismo in sillogismo, senza mai il beneficio di un documento, di un riscontro oggettivo, si può sostenere qualsiasi cosa. Ma questo, a quanto pare, non turba lo studioso

Il secondo punto di attacco è costituito da un saggio dello storico Dario Biocca, e riguarda la richiesta di libertà condizionale avanzata da Gramsci nel 1934 a fronte dell’aggravamento del suo stato di salute, e dunque al fine di poter essere ricoverato – sia pure da detenuto – in clinica, come poi avvenne. In attesa che il saggio di Biocca esca su “Nuova storia contemporanea” (rivista che in questi anni è stata veicolo di ricerche interessanti, ma anche e soprattutto di un certo tipo di revisionismo storico), “la Repubblica” dà grande risalto allo “scoop”: per chiedere la libertà condizionale Gramsci dové “fornire prova di ‘sottomissione’” e di “ravvedimento”. Si può quindi sparare un bel titolone sul “ravvedimento di Gramsci” – a proposito: quello preteso dal fascismo o quello desiderato da “Repubblica”? –; peccato che, come ha osservato Bruno Gravagnuolo sull’“Unità” del 29 febbraio, nel Codice Rocco allora in vigore la libertà condizionale era legata alla buona condotta del prigioniero, e il “ravvedimento” di quest’ultimo era oggetto solo della valutazione del giudice, e non certo di un’affermazione del detenuto. Gramsci, insomma, dispiace per “la Repubblica”, non si ravvide affatto: continuò a essere un comunista non pentito.

Dulcis in fundo, il terzo punto d’attacco è fornito dalla coppia Orsini-Saviano. Alessandro Orsini si era già fatto conoscere per un volume in cui cercava di sostenere la tesi di una filiazione diretta delle Brigate Rosse dalla cultura del comunismo italiano; tesi che comporta appena qualche piccola forzatura… Non pago di questa operazione, Orsini pubblica ora un libro su Gramsci e Turati. Le due sinistre, tipico esempio di quella concezione manichea che questi stessi autori imputano ai comunisti. In sostanza, la tesi è questa: in Italia vi sono sempre state due sinistre; la prima, riformista e pragmatica, del buon Turati, che per qualche oscuro motivo non sarebbe riuscita a prevalere né a dimostrare tutto ciò di cui era capace, e la seconda, quella comunista, dogmatica e intollerante per natura. Anche qui “la Repubblica” vede e provvede. Chiede quindi a Roberto Saviano di commentare il libro. E Saviano ne fa un breve riassunto, accogliendone le tesi di fondo in modo del tutto acritico, senza se e senza ma. “L’idea da cui parte Alessandro Orsini – scrive – è semplice. I comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli”. E qui alcune citazioni di Gramsci, completamente slegate dal contesto di un confronto politico asperrimo da entrambe le parti come quello che divise riformisti e comunisti negli anni Venti, che secondo Orsini e Saviano dovrebbero corroborare il loro assioma. Dopodiché Saviano si lancia a testa bassa contro quella “certa sinistra”, per fortuna “fuori dal Parlamento”, “che vive di dogmi. Sono i sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica tra le mani”; e di seguito ripropone tutto il repertorio anti-cubano e anti-palestinese a cui ci ha ormai abituato. Ma qui, in teoria, Saviano stava parlando di un libro di storia… Al contrario, è proprio la storia – la storia concreta, effettiva, di quello che è stato ad esempio il PCI nella società italiana, del suo contributo determinante a quelle poche, serie riforme che si sono fatte in questo paese – che in questo tipo di articoli e di libri scompare; così come scompaiono la ricchezza e la complessità di un pensatore e di un rivoluzionario come Antonio Gramsci.

Basterebbe questo solo dato per dimostrare che quella qui brevemente descritta è innanzitutto un’operazione politica, o se si vuole di politica culturale, volta a continuare a plasmare il senso comune di massa – soprattutto quello del “popolo di sinistra” – sulla base di un anticomunismo rozzo e schematico, che nega, deforma o ignora un patrimonio storico e teorico di enorme portata, col quale tutti – a partire dai suoi critici – dovrebbero confrontarsi in modo onesto e rigoroso, come a suo tempo fece Marx nel momento in cui avviò la sua critica dell’economia politica e dell’ideologia borghese. Ma è evidente che un paragone del genere non regge, e che una simile richiesta potrebbe essere accolta solo da un altro tipo di interlocutori.

Tuttavia a tale produzione ideologica, creatrice di falsa coscienza, occorre replicare; e occorre farlo, appunto, in modo rigoroso, entrando nel merito delle questioni. È questo che cercheremo di fare sul sito di Marx XXI, con l’ausilio di una serie di studiosi interni ed esterni alla nostra associazione.

Iniziamo quindi con i contributi di due studiosi che fanno entrambi parte del Comitato scientifico di Marx XXI, e cioè con un saggio di Gianni Fresu (autore de Il Diavolo nell’ampolla. Antonio Gramsci gli intellettuali e il partito, La Città del Sole, 2005) e un corsivo di Guido Liguori (presidente della sezione italiana della International Gramsci Society, autore di numerosi volumi su Gramsci e curatore con Pasquale Voza del Dizionario gramsciano 1926-1937, Carocci 2009) che “il manifesto” ha deciso di non pubblicare; una scelta, quest’ultima, su cui ogni commento sarebbe superfluo.