Opzioni politiche e scientifiche nella biologia evoluzionistica

di Vittorio Pesce Delfino antropologo, membro del Comitato scientifico di Marx XXI

evoluzione-della-specieNon è una novità che argomentazioni sull’evoluzione spesso producano risultati che possono essere facilmente equivocati, anche quando trattati con le cautele tipiche dei ricercatori i quali però frequentemente finiscono col ripiegare su formule soggettive dall’effetto magari sbalorditivo e accattivante ma che finiscono col produrre gravi danni o equivoci a motivo della loro impostazione analogica.

L’individuazione di un nuovo paradigma sintetico in biologia evoluzionistica è una necessità che si è sentita con forza negli ultimi anni in molti settori di ricerca specializzata e che ha importanti, per quanto contraddittori, equivalenti in diversi ambiti scientifici e, più in generale, nella società nella sua interezza.

In realtà il dibattito sulla biologia evoluzionistica, si è sviluppato dagli inizi degli anni ’70 del secolo scorso secondo tre principali direttrici:

  1. Individuazione degli eventi storici che hanno determinato la situazione attuale

  2. i temi di frontiera della ricerca attuale che è necessario affrontare per tentare di proporre una teoria generale in biologia, in particolare il completamento del capitolo della morfogenesi, ossia del complesso di conoscenze in grado di dar conto e spiegazione della varietà dei fenotipi che sono il livello biologico su cui esclusivamente agisce la selezione naturale. L’ormai raggiunta conoscenza della mappa del genoma umano ha dimostrato, a questo proposito, che, risultando il numero di geni molto inferiore a quello atteso in rapporto ai caratteri fenotipici descrivibili, è necessaria la comprensione di meccanismi morfogenetici di diversa natura quali la biologia evoluzionistica ha da tempo proposto, individuando la compartimentazione in spazi tipici dei meccanismi genetici, ambientali con valenze selettive, ambientali con valenze epigenetiche che hanno introdotto i concetti di fenocopie naturali (fisiche) individuate da Conrad Hal Waddington e di fenocopie artificiali (culturali) individuate da Jean Piaget;

  3. la ineliminabile responsabilità che le attuali conoscenze tecnico scientifiche nel loro insieme hanno nei confronti di rilevanti e specializzate aree di studi ambientali.

La costante ricorrenza di responsabilità che l’attuale conoscenza tecnico-scientifica ha manifestato nei confronti di molto rilevanti e specialistiche aree di studi ambientali

Spostando per un momento la nostra attenzione da specifici contenuti tecnico – scientifici al contesto delle scienze biologiche contemporanee, e poi al più ampio orizzonte della cultura scientifica, e infine alla cultura tout court, ci rendiamo consapevoli del fatto che il dibattito sull’evoluzione sin dagli inizi degli anni ’70 e le prospettive della biologia dagli anni ’90 in poi devono, come già accennato, fare i conti con tre aspetti fondamentali.

Nel 1900, le controversie religiose e ideologiche quali si manifestarono dopo la pubblicazione dell’opera fondamentale di Charles Darwin si sono attenuate, ma permanendo solo in gruppi religiosi fondamentalisti attivi nelle aree più arretrate degli Stati Uniti o di altrettanto arretrati circoli europei che, ignorando le nuove conoscenze che si andavano accumulando, non riuscivano a superare l’impostazione neo darwinista della teoria sintetica, in sospetto odore malthusiano. Ma in realtà gli argomenti di Darwin erano già stata causa di profonde contraddizioni non solo tra il mondo scientifico e il resto della società ma anche all’interno della stessa comunità scientifica.

Nei primi due decenni del XX secolo sembrava che fosse stato raggiunto un accettabile compromesso tra scuole di pensiero indubbiamente contrastanti che sembrava rendere possibile l’espressione di diverse posizioni scientifiche in un clima di parità di condizioni e di opportunità. Inizialmente, all’interno della comunità scientifica, si era registrato un conflitto tra mature e consolidate impostazioni di ricerca basate sulle classificazioni e sulla sistematica, che offrivano tranquillità ai ricercatori garantendo la correttezza metodologica di un ordinato percorso basato su un assolutamente controllabile sperimentalismo derivato da quello della fisica contemporanea assieme a un rigorosamente quantificabile riduzionismo che rappresentava l’eredità della chimica; d’altra parte serpeggiava una idea guida che contestava non la sistematica in sé, bensì il suo valore euristico e che aveva sostituito la fissità della realtà con paesaggi continuamente mutevoli proponendo regole per i fenomeni naturali che richiedevano un ben più articolato e adattabile concetto di scienza, pertanto riducendo la validità di regole applicabili appunto a un concetto statico della realtà.

Il problema risultò traumatico e le vecchie regole vennero percepite effettivamente come obiettivo di una critica radicale perché sempre più la quota intuitiva della conoscenza veniva ora a integrarsi con la esplicita e organica dimostrazione della natura dinamica dei fenomeni biologici; appariva quindi che proprio su questa situazione la moderna biologia fosse destinata a essere rifondata, con una enorme quantità di implicazioni pratiche, in particolare per la medicina, ma anche per il controllo ambientale, dove erano previsti, e progressivamente raggiunti, risultati di grande portata in un processo che è ben lungi dall’essere concluso.

La biologia appariva dunque basata su regole genuinamente sistemiche ma nel contempo capace di utilizzare impostazioni tipicamente sperimentali e riduzioniste.

Le vicende evoluzionistiche dell’umanità apparvero subito come l’indiscutibile oggetto primario di questa impostazione.

Ma nel contempo questo approccio, mentre risultava non immediatamente confutabile, manifestava il profondo inconveniente di non essere particolarmente capace di produrre immediati risultati pratici.

Il compromesso fu possibile, grazie allo spirito laico e tollerante che permeava la cultura europea all’inizio del ‘900, anche se in qualche maniera sbilanciato in favore della biologia riduzionista in virtù della capacità di quest’ultima appunto di produrre risultati da un punto di vista pratico ed economico.

Questa situazione provocò accesi dibattiti che però furono caratterizzati da grande disponibilità e rispetto reciproco.

Gli evoluzionisti ebbero la possibilità di continuare i loro studi sui rapporti tra l’ambiente e l’uomo, sull’evoluzione del suo cervello e della sua cultura, magari senza poter disporre di grandissime risorse, ma certamente in un clima tranquillo; i loro antagonisti con più rosee prospettive di immediati interessi “economici”, continuarono a fornire alla società strumenti efficaci per intervenire sull’ambiente e per controllarlo, sia pure con effetti pratici ad alto rischio.

Ma questo compromesso era destinato a finire in tempi brevi.

L’ideologia nazista dette spazio esclusivo a un mondo concepito con regole di conservazione e di fissità. Fu questa la causa della grande tragedia culturale, politica e sociale dell’Europa che, per quanto riguarda le conoscenze scientifiche, coinvolse la moderna biologia.

Molti ricercatori pensarono che quanto andava accadendo in Germania null’altro fosse che la verifica ideologica e politica delle loro personali convinzioni, e quindi si dichiararono d’accordo, senza rendersi conto subito di quale sinistro errore ciò fosse; altri quietamente pensarono solo che si trattasse di una delle tante situazioni che il mondo potesse prevedere e che quindi si dovesse sopportare; altri ancora riconobbero la trappola che stava scattando e cercarono di fuggire ma realisticamente poterono tentare solo di salvaguardare il proprio personale patrimonio fisico e culturale (cosa certamente di non poco conto), ma non certo quello dell’intero pensiero europeo. Di questi ultimi la maggior parte era rappresentata da eccellenti e scrupolosi ricercatori aderenti al riduzionismo sperimentale.

Ma il dramma era destinato ad avere anche un secondo scenario.

L’Unione Sovietica era obbligata ad assumere atteggiamenti di segno opposto a quelli della Germania nazista; ciò avvenne anche per la biologia ma certamente non fu in grado di recuperare il grande compromesso tra gli scienziati europei. L’Unione Sovietica dovette scegliere tra un evoluzionismo al quale era ideologicamente più vicina e un riduzionismo che risultava più immediatamente utile per esigenze concrete quali anche gli eventi bellici richiedevano. La situazione si rese rapidamente confusa e il cosiddetto “affare Lissenko” fu la estrema manifestazione di questa confusione nella quale si tentò di essere sistemici ed evoluzionisti nelle dichiarazioni e riduzionisti nei fatti. Gli anni passarono, milioni di persone morirono e quando la seconda guerra mondiale finì il panorama era radicalmente cambiato.

Il periodo post bellico fu dominato dal tentativo di acquisire la supremazia scientifica e tecnologica. Le due vecchie posizioni riemersero ma non vi era più alcuno spazio per ricostituire un compromesso culturale. Nella aree del mondo sotto l’influenza degli Stati Uniti la logica della produzione segnò le scelte che furono esclusivamente orientate allo sperimentalismo riduzionista lasciando libero, anzi invitando esplicitamente, il capitale privato a enormi investimenti per realizzazioni del tutto incuranti del rischio di disastri ecologici che avrebbero ben potuto essere previsti come rapidi, ineluttabili e gravissimi dall’impostazione sistemica ed evoluzionista.

La situazione era ben chiara ai ricercatori che aderirono al cosiddetto “Club di Roma” e Jay W. Forrester nel suo “Dinamiche mondiali” incomincia a delineare i meccanismi della globalizzazione nel contempo richiamando l’attenzione sull’ inevitabilità e prevedibilità di “limiti dello sviluppo”. Oggi la trattazione di Forrester, che comprendeva dichiaratamente approcci a questi argomenti utilizzando le prime macchine di calcolo automatico, ci appare ingenua e ovviamente molto limitata, non foss’altro che per l’enorme sviluppo intervenuto successivamente per le macchine di calcolo automatico con l’individuazione di algoritmi ben più sofisticati e potenti. Ma la via era stata individuata e indicata; la tragedia fu che non venne percorsa.

In maniera corretta recentemente Luca Mercalli ricorda che <Nel rapporto Meadows c’era già scritto tutto. Aurelio Peccei e il club di Roma vollero indicarci una traccia: uno sviluppo non temperato da principi etici conduce inevitabilmente all’autodistruzione. La crisi economica dei nostri giorni non ci sarebbe stata se avessimo recepito quel monito>.

Il risultato è che oggi la quantità di conoscenza scientifica formalizzata che ci mette in grado di capire e soprattutto prevedere e arginare effetti ambientali devastanti è ridicolmente piccola rispetto a quella che sostiene attività che causano effetti negativi sull’equilibrio ecologico del pianeta.

Paradossalmente si può senz’altro sostenere che ove i governanti di tutti Paesi decidessero di destinare tutte le risorse nella loro disponibilità a interventi in grado di contrastare tali effetti negativi, si scoprirebbe che non si sarebbe nemmeno in grado di impiegare tali risorse per la mancanza delle conoscenze scientifiche e delle competenze necessarie.

Alla fine della guerra l’Unione Sovietica venne a trovarsi in una situazione completamente differente perché le scienze biologiche non ricevettero stimoli e supporti da alcun settore politico – economico e inoltre i ricercatori furono costretti, nella nuova comunità scientifica internazionale, a fare i conti con la sciagurata eredità di Lissenko; per tali ricercatori fu una lunga stagione di sofferenze a fronte dei rapidi successi della biologia americana, funzionale agli interessi del capitale industriale, ad esempio nei settori farmaceutico, agricolo-alimentare ecc.. In realtà in nessuna delle due grandi potenze si ricreò qualcosa che ricordasse il paradigma morale e intellettuale che aveva reso possibile l’originario grande compromesso europeo, determinandosi invece situazioni fortemente contrastanti così come sono poi arrivate ai giorni nostri. Nel periodo post bellico solo una minoranza di ricercatori, europei dispersi un po’ dovunque, ovviamente anche in Unione Sovietica come negli Stati Uniti, conservavano una chiara visione della situazione di partenza, dei fatti intervenuti e delle relative conseguenze.

Essi espressero le loro idee in congressi scientifici e nelle loro pubblicazioni, ma furono ignorati, addirittura malvisti, insultati e umiliati. Nel 1975 Conrad Hal Waddington moriva. Era stato tra i precursori dei moderni studi sulla morfogenesi, (ed è suo il fondamentale concetto di paesaggio epigenetico) molti dei quali erano stati pubblicati in Italia in occasione dei <Symposia on Quantitative Biology> che egli aveva per anni organizzato a Villa Serbelloni sul lago di Como, (in fondo quindi si trattava di una gloria italiana che il nostro Paese non ha mai saputo mettere a valore) ma soprattutto è stato il mentore di una eredità culturale che tuttora attende di essere pienamente rivalutata e attuata per rendere la ricerca scientifica biologica completa e unitaria e insieme partecipe di un concreto progetto di pace e sviluppo.

Ma era stato colpito dalla “infamante accusa di lissenkoismo.

L’evoluzione in cui tutto l’onere dell’adattamento ricade sulle forme viventi, finisce dunque per trasformarsi da una dinamica che prevede “vincitori” e “vinti” in uno scenario popolato di soli “vinti”, per quanto collocati in cadenze temporali e luoghi diversificati.

La caratteristica tutta umana di sovvertire il processo e di rivelare la capacità della specie di perpetuarsi, ribaltando la trasformazione sull’ambiente e quindi, rifiutando di modificarsi e riuscendo a sopravvivere nel tempo rimanendo uguale a se stessa, apre una prospettiva inquietante.

Il sospetto che possa essere alle porte la proposta di un neolamarckismo ad esclusiva e unica applicazione per la specie umana non sembra del tutto inconsistente.

Al giorno d’oggi esistono nell’ambito della ricerca biologica due grandi correnti di pensiero, che possiamo continuare a chiamare l’una riduzionistico-sperimentale e l’altra sistemico-evoluzionista che mostrano talvolta reciproca indifferenza, talaltra ostilità palese, e che oltre a manifestare tutta una serie di diversità nei metodi, negli ambiti di ricerca e nel linguaggio, si differenziano sostanzialmente per il rifiuto nel primo caso, e per l’aspirazione nel secondo, a formulare una teoria generale esplicativa.

Se tutto ciò porti la biologia evoluzionistica in una fase “rivoluzionaria”, nella quale la definizione puramente fenomenologica risulti insufficiente, mentre è attivamente richiesta una profonda revisione di metodo e di prassi, è cosa che solo la Comunità degli specialisti, con i suoi tempi e con i suoi metodi, può valutare e decidere. Non trascurando, però, che, attualmente, le valenze politiche della scienza si stanno velocemente delineando in maniera sempre più esplicita , costringendo i ricercatori, che devono continuare ad associare il mestiere di scienziati positivi con quello di storici, a farsi condizionare da tali tempi rapidi e da tali nuove responsabilità.

Nel 1878, cioè 19 anni dopo la pubblicazione della prima edizione de L’origine della specie di Charles Darwin e dopo 16 anni dalla prima edizione francese che, come si vede, fu abbastanza tempestiva, Claude Bernard, il fondatore della moderna “medicina sperimentale” (e cioè della medicina tout court e quindi di tutte le derivate attività industriali, per esempio farmacologiche e alimentari) scriveva: “L’occhio si fa nel coniglio perché si è fatto nei suoi ascendenti e perché la natura ripete eternamente la sua consegna; essa rifà ciò che ha fatto in quanto questa è la sua legge. Pertanto solo all’inizio si può invocare la sua preveggenza; ciò è possibile solo all’origine. La causa finale è conseguenza della causa prima…”.

Che significato ha un riferimento così palesemente fissista nell’opera di un autore del quale si può certamente dire che non ebbe grande rilevanza esplicita nell’ambito del dibattito sull’evoluzionismo?

Da certe sue formulazioni analogiche sembra che Claude Bernard avesse un concetto piuttosto banale della parola evoluzione; scrive infatti “seguendo il cammino naturale della sua evoluzione la medicina a poco a poco abbandonava il campo dei sistemi per rivestire sempre più la forma di investigazione comune alle scienze sperimentali”. Dunque per Claude Bernard un qualsiasi fenomeno progressivo è evoluzionistico in quanto manifesti tendenza all’adeguamento ad un modello e ciò gli appare perfettamente compatibile con il riconoscimento di un <cammino naturale> riferito allo stesso fenomeno. Sul problema esiste un altro significativo riferimento: <in una parola – scrive Claude Bernard- la forza metafisica evolutiva con cui possiamo caratterizzare la vita è inutile alla scienza, poiché essendo al di fuori delle forze fisiche essa non può esercitare alcuna azione su di esse>. Egli cioè afferma che se di evoluzione si deve parlare tale concetto attiene ad una metafisica che certamente non è scienza la quale invece deve necessariamente ed esclusivamente occuparsi delle cause immediate e dei fenomeni misurabili e controllabili sperimentalmente. Infatti:< la medicina sperimentale non ha bisogno di collegarsi ad alcun sistema; non potrebbe essere né vitalista né animista né organicista… Il metodo sperimentale, in quanto metodo scientifico, si basa interamente sul controllo sperimentale di un’ipotesi scientifica…. In biologia, se si vuole riuscire a conoscere le leggi della vita bisogna non soltanto osservare e constatare i fenomeni vitali ma stabilire inoltre numericamente le relazioni di intensità nei rapporti tra l’uno e l’altro… Le leggi che regolano i fenomeni devono sempre venire espresse in modo matematico>. Su questo passaggio si possono fare due considerazione; la prima riguarda la dichiarazione di esclusiva identità tra metodo scientifico e metodo sperimentale induttivo mentre la seconda si riferisce alla petizione di formalizzazione del linguaggio scientifico il quale attesti la propria legittimità in quanto sia capace di rendere i propri contenuti sotto forma di risultati numerici. Una posizione materialistica, dunque, impiantata sul più assoluto adeguamento all’impostazione riduzionista. <Esiste – scrive Claude Bernard- un determinismo assoluto nelle condizioni di esistenza dei fenomeni naturali tanto nei corpi viventi quanto in quelli inanimati>. Orbene, quale altra se non questa era, e tuttora è, la critica seducentemente scientifica che fondamentalmente si avanzava contro l’opera di Darwin? Il suo non rispondere cioè ai canoni del metodo induttivo poiché argomentava su ipotesi. Paradossalmente, m non tanto, le posizioni religiose e scientifiche più conservatrici non esitavano ad assumere una coloritura materialistica accusando di non scientificità ma anzi di trascendenza il ben più profondo e genuino materialismo evoluzionista. E’ interessante annotare come in questo ambito si collochi egregiamente l’impostazione di Claude Bernard. All’epoca l’ambiente scientifico culturale francese, che non aveva raccolto dell’eredità di Jean-Baptiste Lamarck, era prevalentemente ostile all’evoluzionismo; nel 1870 fu negata a Darwin l’affiliazione dall’Accademia delle Scienze Francese che gli venne concessa solo nel 1878 nella sezione di Botanica ma non in quella di Zoologia. Il materialismo sperimentalista rivendicava con decisione e polemicamente le sue ragioni facendosi forte di indiscutibili successi ma, come abbiamo visto nella significativa affermazione di Claude Bernard, abbandonando ad una non scientifica e in realtà confusa e confondente metafisica la spiegazione della cause prime.

Si delinea così quella situazione di <materialismo vitalistico> tanto profondamente differente dal materialismo meccanicista tedesco e che, impostato da Marie François Xavier Bichat, connoterà, sia pure in maniera diversa, l’opera dei fisiologi sperimentali francesi, di François Magendie, maestro di Claude Bernard, di Claude Bernard stesso, e di Marie-Jean-Pierre Flourens, quest’ultimo da annoverare fra i più duri critici dell’evoluzionismo darwiniano.

E’ verosimile che nella consapevolezza di queste dinamiche all’interno dei <materialismi> del tempo, nacque in Carl Marx il desiderio di rendere noto il Capitale a Charles Darwin, inviandogli una copia autografata; l’inglese, un po’ perché sul piano personale i risvolti politici ed economici lo lasciavano indifferente (era certamente un conservatore benestante), un po’ per l’inclinazione snobistica del suo ambiente culturale, non dette molto peso e tanto meno corso a questa <proposta di alleanza> contribuendo quindi alla perdita di quella che avrebbe potuto essere una importante occasione.

Per capire quello che effettivamente avvenne bisogna far riferimento al cardine su cui poggiava e tutto sommato poggia ancora, l’intera impostazione empirista dei fisiologi sperimentali (di cui i medici e i farmacologi moderni sono eredi diretti), i quali adottino il classico metodo dell’<esperimento con distruzione> come lo definisce lo stesso Claude Bernard. Questo metodo, come ben noto, consiste nell’osservazione delle modificazioni funzionali dopo l’asportazione o la distruzione di un organo.

Sorgeva però subito il formidabile problema di controllare il determinismo sperimentale; era cioè necessario mantenere uguali e costanti tutte le condizioni, con l’eccezione ovviamente di quelle di cui si studia la funzione; ma le correlazioni tra funzioni biologiche differenti si manifestavano in tutta la loro evidenza. Annota Claude Bernard < i fenomeni vitali hanno le loro condizioni fisico-chimiche rigorosamente determinate, ma, al tempo stesso, dipendono l’uno dall’altro e si succedono in modo concatenato…>.

Il metodo sperimentale, proprio mentre evidenzia tali correlazioni, rischia di essere messo in crisi dai suoi stessi risultati nel momento in cui essi indicano l’inattendibilità dello stesso fondamento dell’impostazione assunta e cioè del determinismo nella sperimentazione biologica. Il materialismo bernardiano da una parte deve ripiegare su posizioni estetizzanti lì dove si parla di <determinismo armonicamente determinato, ammirevole subordinazione e armonioso concerto dei fenomeni della vita> che sfociano in aperta teleologia vitalista: <ogni fenomeno […] sembra diretto da una mano invisibile che lo guida lungo il cammino e lo porta ad occupare il posto che gli compete> ma dall’altra deve ricercare la soluzione a problemi molto concreti addirittura perché il metodo sperimentale possa continuare a venire utilizzato.

Il problema delle correlazioni: da una parte si tratta di correlazioni interne all’organismo tra organi e funzioni diverse, dall’altra si tratta di correlazioni tra organismo e ambiente.

È veramente un grosso problema; infatti <se le condizioni non cambiano, il fenomeno pure non può cambiare, ma […] se variano le condizioni , deve variare di conseguenza anche il fenomeno>. Claude Bernard si rende perfettamente conto che si tratta di tenere sotto controllo tutte le variazioni delle condizioni perché l’esperimento abbia un senso. Ma si rende conto nel contempo che ciò non gli riesce possibile. Il suo metodo sperimentale lo mette di fronte ai complessi e fini meccanismi regolativi degli organismi viventi che si comportano come sistemi unitari; Claude Bernard coglie perfettamente tutto ciò, a differenza di altri sperimentalismi suoi contemporanei e di certi suoi epigoni attuali, e lo registra anche, ma il suo problema rimane quello di inseguire il modello del rigido ma mai realizzato (perché non realizzabile) determinismo sperimentale.

I concetti di autoregolazione, di equilibrio dinamico, appaiono, nelle opere degli autori di “medicina sperimentale”, intuiti ma, in realtà non utilizzati; al contrario ci si ferma davanti ad essi, magari in dichiarata ammirazione, ma sostanzialmente per estraniarli in quanto tali fenomeni, inevitabilmente emergenti nel corso della sperimentazione biologica, tendono a inficiare la attendibilità dei risultati degli esperimenti. Claude Bernard si accorge che il suo intervento sperimentale non interessava esclusivamente e linearmente una funzione ma introduceva una variazione in rapporti tra funzioni e questo minava alla base l’assunto fondamentale deterministico. Medesimo atteggiamento di fronte al concetto di <milieu interieur> che egli è spinto a descrivere correttamente come un mediatore tra organismi e ambiente; nel 1867 scrive: <… il mezzo interno costituisce un vero ambiente organico intermediario tra l’ambiente esterno, nel quale vive l’organismo, e le molecole viventi che non potrebbero essere messe impunemente in rapporto diretto con l’ambiente esterno>. Ma a ben vedere ciò che del <milieu interieur> gli interessa di più è una qualità che egli gli attribuisce, la sua <fixetè>, la sua rigidità, una funzione di isolatore che gli riconosce e che in definitiva lo rende concettualmente antitetico a una funzione mediatrice. Infatti: <[…] i fenomeni non seguono le variazioni periodiche dei fattori ambientali […] questo è dovuto al fatto che grazie ad un perfetto meccanismo protettivo […] l’ambiente interno dell’animale a sangue caldo è assai difficilmente influenzabile dai fattori esterni>. In questo modo Claude Bernard cerca di recuperare almeno in parte la credibilità che il suo metodo sperimentale dimostrava di non avere già a lui stesso che lo utilizzava e lo insegnava. La cosa più importante è che in questo modo Claude Bernard poneva in essere una valida premessa per l’atteggiamento tipico di certi orientamenti di sperimentazione biologica che risolvono il problema nel più semplice dei modi cioè affermando, e non sottoponendo mai a critica tale affermazione, che è possibile studiare sistemi biologici più o meno complessi in condizioni di isolamento.

Orbene, alla luce della impostazione evoluzionista, tale isolamento non solo non è possibile ma risulta un vero non senso. Tale situazione, già in Claude Bernard, anzi a partire da lui, era destinata ad avere, proprio per la sua significatività, importanti implicazioni pratiche. Claude Bernard aveva bisogno di animali da utilizzare per i suoi esperimenti.

Il determinismo sperimentale richiedeva che tutti gli animali (tutte le specie e tutti gli individui) fossero equivalenti ai fini della sperimentazione che, come è noto, si proponeva quale sperimentazione funzionale alla medicina anzi di essa fondante. Claude Bernard cerca di liquidare il problema con delle affermazioni autoconsolatorie: <Tutto ciò che si ottiene con gli animali è perfettamente concludente per l’uomo>; e ancora: <gli esperimenti fatti su animali, con sostanze deleterie oppure in condizioni nocive, sono perfettamente conclusive per la tossicologia e l’igiene dell’uomo. Le ricerche medicamentose o tossiche sono egualmente del tutto applicabili all’uomo dal punto di vista terapeutico>. Claude Bernard sente la necessità di insistere tenendo d’occhio proprio il problema più elementare e cioè le sue manipolazioni di sperimentatore anche quando sostiene la omogeneità e la rispondenza allo stesso modello degli strumenti che egli utilizza e dei meccanismi biologici su cui egli porta la sperimentazione: <il chimismo del laboratorio – afferma – è realizzato con l’aiuto di strumenti e apparecchiature create dal chimico; il chimismo dell’essere vivente è realizzato con l’aiuto di strumenti e apparecchiature che l’organismo stesso ha creato>. In definitiva per Claude Bernard il problema centrale rimaneva la difesa di quel concetto di determinismo sperimentale che gli permettesse di continuare a credere in quello che faceva. A tale scopo sarebbero necessarie tre garanzie che si possono così riassumere:
 

  1. rigidità delle correlazioni

  2. isolabilità dall’ambiente

  3. invariabilità degli <strumenti> dell’organismo ovvero delle sue strutture e delle sue funzioni.
     

Oggi sappiamo che nessuna di tali condizioni può considerarsi realistica; già nel 1809 Jean-Baptiste Lamarck aveva scritto: < sta di fatto che i diversi animali hanno ciascuno, secondo il proprio genere e la propria specie, abitudini particolari e un’organizzazione che è sempre in rapporto con tali abitudini> e ancora: <La natura, producendo successivamente tutte le specie animali, e cominciando dai più imperfetti, ha complicato grandemente la loro organizzazione e diffondendo gli animali generalmente in tutte le regioni abitabili del globo ogni specie ha ricevuto dalla influenza delle circostanze in cui si è trovata, le abitudini che le si riconoscono e le modificazioni delle sue parti che l’osservazione ci dimostra>. Poi però era intervenuto Darwin: <dobbiamo considerare ogni produzione della natura come una produzione che ha una lunga storia> e ancora <è veramente sorprendente osservare le infinite particolarità di struttura e di costituzione per cui le varietà e le sottovarietà differiscono leggermente l’una dall’altra. Tutto il loro organismo sembra diventato plastico>.

Claude Bernard non tiene conto di tutto ciò ma nei fatti poi non può evitare di scontrarsi con tale realtà dovendo addirittura ricorrere ad argomentazioni al limite del non sense: < Ho osservato nei crostacei che al di fuori della muta i muscoli hanno sempre una reazione alcalina e che né il loro sangue né il loro fegato contiene zucchero. Non sarà la stessa cosa per i rettili con le squame? Al di fuori della muta hanno essi muscoli alcalini dopo la morte. Gli animali a sangue freddo si comportano in maniera molto differente nei confronti delle infezioni a seconda delle stagioni; negli animali a sangue freddo nelle zone intorpidite non c’è suppurazione; le ferite guariscono di prima intenzione; ma durante l’estate vi è caldo e suppurazione nei pesci, nelle rane>. Di fronte a tali rilievi si difende non ammettendo: <E’ stato detto: come si pretende di concludere , visto che ci sono sostanze che avvelenano l’uomo ma non gli animali? È stato citato il porcospino che non viene avvelenato dalla cantaride, la capra che mangia la belladonna, le pecore che ingoiano dosi enormi di arsenico, i rospi che non si avvelenano col loro proprio veleno, i pesci di mare che non sentono l’influenza del sale. Tutte queste cose sono false come spiegazione, perché se si ammettesse questo la scienza sarebbe impossibile>. La situazione gli risulta tormentosa: < bisogna essere schiavo di un fatto; è un fatto brutale, si dice, e si crede di aver detto una cosa molto scientifica……uno sperimentatore che avesse avvelenato un rospo col suo veleno senza risultato dirà: sono coerente, sì, però ci sono dei fatti ai quali non si può credere perché lo spirito ha la certezza che le cose stanno diversamente. Pertanto non ho potuto credere al rospo. Avrei dovuto, altrimenti, dare le mie dimissioni da fisiologo>. Claude Bernard tornerà su questo specifico argomento cercando di risolverlo alla sua maniera (a cui pericolosamente assomigliano molte delle impostazioni di “trials” della medicina contemporanea), escogitando cioè un qualche esperimento che ben si vede quanto poco deterministico addirittura sia e quanto poco esplicativo possa risultare: < Bisognerà pensare –egli scrive- di rendere il rospo più sensibile al suo veleno diminuendo la sua resistenza muscolare con un lungo digiuno, per esempio. Allora si potrà vedere il veleno del rospo agire sull’animale con energia>.

Claude Bernard tende a risolvere la contraddizione in maniera apertamente separatista; deve ammettere l’esistenza di problemi che vengono dallo studio comparativo degli organismi viventi ma li separa appunto dal settore della sperimentazione a impostazione medica. <la fisiologia comparata – egli scrive- è una delle più feconde miniera per la fisiologia generale>. Che l’intenzione sia appunto separatista emerge da alcune conseguenze pratiche che formano l’oggetto di sue esplicite affermazioni e che non a caso riguardano il problema del tipo di animali da utilizzare per gli esperimenti. Claude Bernard annota : < tutti gli animali ci possono insegnare la vita. I naturalisti e i botanici hanno un altro punto di vista. Il fisiologo medico si indirizza agli animali domestici> e ancora <rifornimento di animali; animali pronti in laboratorio per evitare perdite di tempo, essi varieranno a seconda di ciò che si vuole fare; andare sulla riva del mare quando si vogliono studiare gli animali marini (naturalisti)…per noi medici, animali vicini all’uomo; cane, gatto, coniglio uccelli; allevarli o prenderli dalle stalle delle grandi città>. Si vede quindi che la <vicinanza all’uomo> degli animali che Claude Bernard ritiene utili e utilizzabili negli esperimenti riguarda un semplice problema di reperibilità; eppure proprio tali animali domestici offrono il minimo di garanzia di uniformità necessaria al determinismo sperimentale.

Aveva scritto Darwin: “quando confrontiamo gli individui di una stessa varietà o sottovarietà delle piante o degli animali da più tempo coltivate o allevate dall’uomo, una delle prime cose che colpisce la nostra attenzione è che essi generalmente differiscono l’uno dall’altro più di quanto non differiscano gli individui della stessa specie e varietà allo stato di natura. E, se riflettiamo alla immensa diversità di piante coltivate e di animali domestici che si è manifestata nel corso del tempo sotto i più differenti climi e trattamenti, dobbiamo concludere che questa grande variabilità è dovuta al fatto che i nostri prodotti domestici sono stati allevati in condizioni di vita non così uniformi e un po’ diverse da quelle a cui le specie affini sono state esposte in natura….la variabilità e regolata da numerose leggi, alcune delle quali sono difficili a riconoscersi, e saranno brevemente discusse in seguito. Qui voglio accennare soltanto a quella che può essere chiamata variazione correlata. Cambiamenti importanti dell’embrione o della larva comportano probabilmente cambiamenti nell’animale adulto. Nelle mostruosità, le correlazioni fra parti nettamente distinte sono molto singolari: se ne trovano numerosi esempi nella grande opera di Isidore Geoffroy Saint-Hilaire su questo argomento. Gli allevatori ritengono che gli arti lunghi siano quasi sempre accompagnati dalla testa allungata. Alcuni esempi di correlazione sono molto strani: per esempio, i gatti completamente bianchi e con gli occhi azzurri sono generalmente sordi; ma Tait ha sostenuto recentemente che questo fenomeno è limitato ai maschi. Certi colori e certe particolarità costituzionali si presentano insieme: se ne potrebbero citare molti casi notevoli, sia fra gli animali che fra le piante. Da dati raccolti da Heusinger sembrerebbe che l’ingestione di certe piante sia dannosa alle pecore e ai maiali bianchi, ma non agli individui di colore scuro; e Wyman mi ha fornito recentemente un buon esempio di questo fenomeno. Avendo domandato ad alcuni allevatori della Virginia perché i loro maiali fossero tutti neri, gli fu risposto che i maiali si nutrivano di radici colorate (Lachnanthes) che coloravano di rosa le ossa e causavano la perdita degli zoccoli in tutte le varietà, tranne quelle nere; e uno dei crackers (gli allevatori della Virginia) aggiunse: <noi selezioniamo gli individui neri di ogni parto, perché solo essi hanno buona probabilità di vivere>. I cani a pelo raso hanno la dentatura imperfetta; gli animali a pelo lungo e ruvido hanno tendenza ad avere, a quanto si dice, corna lunghe e molto ramificate.; i colombi col tallone piumato hanno la parte anteriore del piede palmata; i colombi col becco corto hanno i piedi piccoli; e quelli col becco lungo i piedi grandi. Perciò, se l’uomo insiste nel selezionare, e quindi nello sviluppare, una qualsiasi particolarità, modificherà quasi certamente e senza volerlo altre parti della struttura, a causa delle misteriose leggi della correlazione”.

Furono forse anche queste considerazioni a suggerire a Claude Bernard il tema della lezione del 19 dicembre 1877?

Per tale lezione Claude Bernard annota:<la vivisezione stabilisce i rapporti degli organi, distrugge gli organi, produce disordini, stimola la funzione ma non la spiega…Insufficienza della vivisezione essa non dà che i rapporti, la forma dei fenomeni, ma non dice niente sulla loro natura e non ne spiega le proprietà>.

Ancora pochi giorni e Claude Bernard terminerà il suo ultimo corso di lezioni (28 dicembre 1877).

Ma, in questo contesto, “vivisezione” altro non è, con le derivate metodologiche e empiriche ben note, che l’approccio metodologico della medicina moderna.

Mentre avvenivano queste cose, il numero di esseri umani continuava ad aumentare come aveva previsto T. R. Malthus e, se da un lato questo aumento cominciava a produrre importanti effetti sul modo di stare insieme degli uomini, dall’altro si capiva fino in fondo quanto, ancora una volta, Darwin aveva tempestivamente segnalato e cioè l’importanza evoluzionistica della sottrazione di numeri ingenti di individui a causa di disastri naturali o guerre.

Rimaneva aperto il grande problema della collocazione della specie umana nel mondo animale e cioè della sua collocazione filetica rispetto ad altre specie.

Il problema, tipicamente evoluzionistico e sistemico, era destinato a divenire del tutto recentemente di grande attualità proprio a motivo dell’enorme sviluppo dei risultati della biologia sperimentale riduzionista, in particolare in riferimento ai settori macroeconomici della produzione farmaceutica.

Va sottolineata la frequente mancanza di linearità per quanto riguarda il rapporto dose-effetto della maggior parte di farmaci con effetti teratogeni nei confronti dei parametri di riferimento più comunemente usati, quale, per es., il peso corporeo: l’uomo risulta infatti sensibile alla talidomide 60 volte più del topo, 100 volte più del coniglio, 200 volte più del cane e 700 volte più dell’hamster (Epstein, 1972).

Quanto queste considerazioni siano importanti è dimostrato proprio dalla vicenda della talidomide che, negli anni ’60, causò la nascita di migliaia di bambini focomelici (oltre 5.000 nella sola Germania); non era stata fatta alcuna sperimentazione su primati non umani perché troppo costosa e la sperimentazione su ratti non poteva offrire indicazioni attendibili per i motivi ora esaminati. Non si trattò però solo di fatalità ma piuttosto di uno dei risultati più tragici della logica di produzione capitalistica cui rispondevano le industrie farmaceutiche, in particolare le multinazionali a controllo americano; esistevano dei sospetti, tanto che la “Food and Drug Administration” americana non aveva consentito negli Stati Uniti la vendita del prodotto che invece era stato massicciamente diffuso in Europa e in Australia. Accadde così che le gestanti tedesche assistite negli U.S. Army Hospitals a motivo della presenza di forze di occupazione in Germania, soggetti alla legislazione statunitense, diventassero “a beautiful control series” (Stowens, 1966) ovverosia isole indenni da nascite di focomelici, ben distinguibili dalla restante popolazione tedesca in cui il farmaco era di libera vendita e i casi si andavano moltiplicando.

In conclusione vi fu un vero e proprio processo che può essere considerato come il primo (e credo l’unico) processo formalmente inteso avente come oggetto il metodo scientifico e assieme il primo esempio, fruttuoso, di un approccio che, in materia di farmacologia, sostituiva il tradizionale approccio riduzionista con uno ben diverso: l’indagine storico-geografico-ambientale effettuata sui tempi e sui luoghi della nascita di neonati malformati.

Approccio che risultò vincente. Ma approcci di questo tipo risultano altrettanto poco ricorrenti quando si passi dai “piccoli” problemi individuali esaminati a quelli in scala planetaria.

Su “La Repubblica” del 04.05.2012 Federico Rampini e Mark Hertsgaard descrivono molto bene l’atteggiamento ostile ai gravi timori per il rischio di “limiti dello sviluppo” per crisi ambientali da parte delle multinazionali del petrolio impegnate, per il raggiungimento dei propri scopi, non solo a combattere impostazioni quali quelle derivanti dagli accordi di Kioto ma addirittura direttamente la stessa conoscenza scientifica che quel rischio aveva individuato e denunciato sin dagli inizi degli anni ’70.

Ma c’è di più: “negli Stati Uniti la destra repubblicana è riuscita a imporre che nelle scuole i Proff. debbano presentare una versione <imparziale> sul cambiamento climatico, dando pari peso alle teorie negazioniste” sostenute dalle multinazionali, tale e quale quello che accade, sempre negli Stati Uniti, per le teorie antievoluzioniste e creazioniste.

Il distretto scolastico di Dover, un paese a sud di Harrisburg (Pennsylvania) stabilisce che le lezioni di biologia, in cui immancabilmente si espone la teoria dell’evoluzione, devono essere precedute dalla lettura in aula della seguente frase: “Poiché la teoria di Darwin è una teoria, continua ad essere in discussione. La teoria non è un fatto”, invitando così gli studenti a prendere in considerazione il disegno intelligente.

Queste coincidenze certamente non sono casuali e la contesa politica e quella scientifica su materie ambientali e di sviluppo rivelano la comunanza di origini e di interessi “… nel momento in cui la stessa logica capitalistica pone seriamente in discussione la possibilità stessa che una ricerca non funzionale agli interessi capitalistici possa svilupparsi.”(da “Proposta di percorsi di ricerca per il Comitato Scientifico di Marx XXI).

Bibliografia

Darwin Ch., L’origine delle specie. Selezione naturale e lotta per l’esistenza, Universale Boringhieri, 1985
Pesce Delfino V., Guanti G., Le deviazioni della morfogenesi, in Raso M., Anatomia Patologica Clinica, vol. I, Piccin Editore, Padova 1980.
Pesce Delfino V., Claude Bernard e l’avvio del dibattito sull’evoluzionismo. In Di Giandomenico M., Claude Bernard Scienza, filosofia, letteratura, Bertani Ed. 1982
Pesce Delfino V. Diritto alla storia. Ecosistema, uomini , popoli, Dall’interno ed., 1991
Pesce Delfino V., International Symposium Biological evolution. Proceedings, Adriatica Editrice, Bari 1987
Waddington C.H., Towards a theoretical biology, London 1972
Waddington C.H., New patterns in genetics and development, Columbia University Press 1962,
Waddington C.H. , Evoluzione di un evoluzionista, Armando Editore, 1979