Due referendum. Uno per riconquistare l’articolo 18, l’altro per abrogare l’articolo 8

di Manuela Palermi, segreteria nazionale PdCI

operai catenaL’articolo comparirà nel numero in corso di pubblicazione in “MarxVentuno” rivista comunista

Meno di dieci anni fa tre milioni di persone riempirono il circo Massimo perché Berlusconi non s’azzardasse a toccare l’articolo 18. E se dieci anni in una vita sono un periodo importante, nella storia sono niente, un battito di ciglia. Nella lotta di classe che contrappone operai e imprese, è bastato un attimo perché i padroni facessero goal.

L’articolo 18 non è solo una norma particolarmente significativa. Lo è, e molto, ma ne esistono altre. L’articolo 18 è molto di più. Racconta una storia, un decennio di travolgente riscossa che va dalla fine degli anni ‘60 alla metà degli anni ‘70. Una cavalcata orgogliosa di conquiste operaie, dalla fine dei reparti confino alla Fiat, alle prime lotte unitarie nel bresciano che toglievano la Cgil dall’isolamento, al riconoscimento della classe operaia come classe dirigente che si scrollava di dosso la condizione secolare di umiliazioni, ricatti, segregazione, sfruttamento.

L’articolo 18 è quella storia. Mai conquiste erano state così esaltanti e la scissione con i bui anni ‘50 e metà anni ‘60 talmente radicale che lo Statuto, per un bel po’ di tempo, ricevette critiche e provocò delusioni. Sembrava che non desse conto di quale rivoluzione fosse in atto, di quale democrazia rappresentassero i consigli di fabbrica, dove tutti erano eleggibili ed elettori, bastava che si fosse lavoratore. Sembrava non dar conto che per la prima volta nella storia non decideva tutto l’impresa. Il consiglio di fabbrica era titolare della trattativa, si sedeva al tavolo di fronte al padrone mentre dietro stavano gli operai che seguivano ogni parola, consigliavano, a volte s’incazzavano. E poi si riunivano in assemblea per discutere, decidere e votare perché si erano presi il diritto di parola e di scelta.

Poi arrivarono gli anni 70 e 80. L’allora segretario generale della Cgil, Antonio Pizzinato, ex operaio della Borletti, uomo forte e integerrimo, in una storica intervista a Rossana Rossanda affermò che “bisognava gestire il peggioramento”: il salario diventava “oggettivamente” una variabile dipendente dal profitto, la scala mobile “oggettivamente” faceva salire l’inflazione, l’innovazione tecnologica cominciava “oggettivamente” a dimezzare l’occupazione, la produttività “oggettivamente” era utile alla competitività dell’impresa… Da quegli anni ai nostri, lo Statuto è divenuto pian piano ben più di una legge. È divenuto la bandiera a cui ci si aggrappa. E le bandiere non si toccano, non si stracciano, neanche quelle degli avversari. Quando Berlusconi osò farlo, la Cgil e il movimento operaio ribollirono di rabbia e di orgoglio. Un esercito sterminato invase il Circo Massimo. Cofferati con i suoi occhi stretti da cinese e la voce controllata tenne il comizio, mentre Vauro disegnava la storica vignetta: “Dal papa polacco al papa cinese”. Amato dai suoi, in un’intesa totale con quel che volevano e pensavano i lavoratori, Cofferati fu eletto papa da Vauro. 

Ho ancora una copia di quella vignetta. La volevano tutti e ne facemmo migliaia e migliaia di copie. Pensammo, quel giorno, che forse avremmo smesso di gestire il peggioramento.

Oggi dall’Europa è arrivato un signore magro e impassibile che in qualche mese, sotto dettatura di Ue, Fmi e Bce, è riuscito a massacrare le pensioni e a cancellare l’articolo 18. 

Ma poco prima di lui, nel settembre del 2011, Berlusconi aveva varato la sua ultima finanziaria. Tra norme e articoli, così nascosto da rendersi invisibile, tanto che molti se ne accorsero alla fine dell’iter parlamentare, il Cavaliere e il craxiano Sacconi avevano infilato nelle pieghe della finanziaria un articolo, l’articolo 8. La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale avvenne il 25 luglio del 2011. Di traverso, ignominiosamente, per via indiretta, Berlusconi era andato ben oltre la cancellazione dell’articolo 18.

Un po’ prima, a fine giugno, c’era stato un accordo interconfederale che aveva suscitato dissensi, critiche, prese di posizioni durissime. Per la verità io non lo considerai così pericoloso. Forse sbagliavo, io figlia degli anni del peggioramento, delle ristrutturazioni riduttive, della cassintegrazione, della fine della scala mobile. La “deroga” l’avevo incontrata così frequentemente nelle contrattazioni – ricordo quella che derogava al divieto del lavoro notturno alle donne – che non mi pareva che l’accordo ampliasse particolarmente il raggio d’azione delle imprese. Tanto più perché in quell’accordo sindacati e imprenditori confermavano ciò che era pesantemente in discussione, e cioè il contratto nazionale e la contrattazione integrativa come cardini dell’iniziativa sindacale. Fui criticata da molte compagne e compagni. Eppure più tardi toccò alzare la bandiera di quell’accordo interconfederale per maledire l’articolo 8. 

Quell’articolo a una cifra inserisce nella contrattazione un altro tipo di contratto, fino ad oggi sconosciuto, che si chiama “contratto di prossimità”. Spiego. Se l’impresa riesce a convincere il sindacato più numeroso a livello aziendale a firmare il contratto di prossimità, può intervenire derogando alla normativa nazionale e alle leggi sul lavoro. E può farlo su tutto: licenziamenti, orari di lavoro, part time, mansioni, inquadramenti, assunzioni, ecc. Il sindacato più numeroso può essere una sigla sconosciuta, non esistere a livello nazionale, è sufficiente che lo sia lì, in quell’azienda.

La storia del movimento operaio ci ha insegnato molto sui sindacati gialli. Sostenuti, foraggiati, organizzati dalle imprese. Già negli anni cinquanta la Fiat se n’era inventato uno. E tante altre imprese la imitarono. La cosa continua ancora oggi. Magari con formule più gentili. Non giallo, ma “compiacente”. Non venduto, ma “realistico” e “responsabile”. Il contagio è stato talmente ampio da arrivare fino a Cisl e Uil e coinvolgere molti di quegli uomini che un tempo avevano fatto la Flm, il sindacato unitario dei metalmeccanici, anche contro i loro stessi sindacati.

La cancellazione del contratto nazionale è la fine dell’eguaglianza di trattamento tra i lavoratori ed è la fine della dignità del lavoro. Il contratto di prossimità può addirittura permettere che ogni movimento di un lavoratore o di una lavoratrice sia controllato istante per istante da un impianto audiovisivo. L’articolo 4 dello Statuto lo vieta, l’articolo 8 permette di derogarvi. Le norme di base che garantiscono un’eguaglianza minima tra i lavoratori – dal salario minimo alle procedure di licenziamento, alla tutela della malattia, alle ferie, all’orario – vengono triturate. Perché il contratto di “prossimità” può stabilire che per il licenziamento senza giusta causa non ci sia la reintegra ma un compenso minimo e magari neanche quello, può modificare gli orari di lavoro e i giorni di riposo, può alterare i ritmi e le pause, può ridurre o anche cancellare la retribuzione in caso di malattia, può decidere inquadramento e mansioni indipendentemente dalla professionalità dei lavoratori con la conseguente variabilità, in alto o in basso, del salario. È un mostro giuridico che i legislatori della Repubblica italiana non avevano mai concepito, la cui ispirazione di fondo è quella dell’arbitrio totale dell’impresa attraverso l’estensione generalizzata delle condizioni di lavoro dei precari.

Sull’articolo 8 ha scritto La Stampa: “Tutto dipenderà dalla ‘creatività’ di questi accordi sindacali aziendali, che potranno essere con relativa facilità imposti (a maggioranza) ai sindacati e alle rappresentanze di azienda. Basta immaginare uno stabilimento in crisi: meglio chiudere i battenti, o è meglio accettare un bel ridimensionamento di certi privilegi non più sostenibili? Certo è che l’articolo 8 apre campi potenzialmente sconfinati: gli accordi in deroga possono intervenire, oltre che su leggi, anche su materie su cui fanno testo i contratti nazionali di categoria. Si potrà cambiare la mansione del personale, le pause, l’inquadramento contrattuale, l’articolazione dell’orario di lavoro. Stabilire di assumere giovani con salario più basso, utilizzare collaboratori anche per lavori svolti da personale dipendente. Oppure, ancora, spedire in un’altra città lavoratori non più considerati utili o non particolarmente graditi”.

Il contratto di Pomigliano è questa robaccia, spalanca la porta ad ogni genere di degrado dell’attività sindacale: dalla contrattazione al ribasso, alla formazione di mille sigle locali, alla concreta possibilità che le rappresentanze delle maggiori confederazioni (a Pomigliano, la Cisl e la Uil dei metalmeccanici) cedano a pressioni, lusinghe, convenienze, fino al punto di concordare che il maggior sindacato, la Fiom, sia espulso prima da Pomigliano e poi da tutte le fabbriche dell’auto. 

Ed è su questa robaccia, che cancella certezze e diritti, che condanna i sindacati all’estinzione o, al più, attraverso la benevolenza padronale negli enti bilaterali o nei fondi pensionistici privati, ad un ruolo solo istituzionale, che la Federazione della Sinistra ha deciso di indire il referendum. Anzi, due referendum. Uno per riconquistare l’articolo 18, l’altro per abrogare l’articolo 8.

Sarà una strada lunga raccogliere le firme come si deve. Ne occorrono 500mila, ma per stare sicuri, dato che capita che molte vengano invalidate, dovremo arrivare ad almeno 800mila. Ma se non si vuol far fare un salto indietro di mezzo secolo alla nostra civiltà del lavoro, è l’unica strada percorribile.