Immagine del Nemico

di Gianmarco Pisa

siria ambasciata inghilterraCom’è noto, due tra le condizioni che maggiormente incidono (in negativo) sulla individuazione di soluzioni positive o di ipotesi negoziali (per non parlare di tentativi di vera e propria “riconciliazione”, nella pace e nella giustizia) in un conflitto in corso sono la costruzione dell’immagine di nemico e la calendarizzazione dell’agenda negoziale, con le sue priorità e la sua tempistica. Nel caso della guerra civile e per procura in corso in Siria, giunta ormai al suo ventesimo mese, entrambe le opzioni sono ampiamente soddisfatte, fino a prefigurare, in questa controversia al tempo stesso locale, regionale e internazionale, un vero e proprio “caso di scuola”. Sulla costruzione dell’immagine di nemico si stanno esercitando ormai da mesi, alternativamente, la propaganda alimentata dai mezzi di comunicazione “occidentali” e le cancellerie degli alleati europei, atlantici e petro-monarchici: basti mettere a confronto, per averne una plastica riprova, la programmazione televisiva e la qualità dell’informazione, con i reportage dedicati alla crisi siriana, rispettivamente rilanciata dai grandi network “atlantici” (tipo la CNN e la BBC, per non parlare di Al Jazeera) o dalle televisioni non-allineate al mainstreaming “imperiale” (dalla russa RTV alla bolivariana Telesur).

La costruzione dell’immagine di nemico è operazione, sia sotto il profilo semantico sia dal punto di vista politico, estremamente raffinata e sofisticata: richiede al tempo stesso l’applicazione di un linguaggio, la redazione di veri e propri immaginari e la loro costante riproduzione e legittimazione presso le opinioni pubbliche nazionali e internazionali, fino a far diventare l’“immagine”, opportunamente costruita, del “nemico” come l’unica “rappresentazione” plausibile, entro un determinato circuito informativo e comunicativo, del “soggetto” in questo caso raffigurato come “nemico”. Probabilmente, proprio per i carattere estremamente sofisticati di tale operazione, alcuni esempi sono molto più denotativi delle corrispondenti definizioni teoriche: il caso di Slobodan Milosevic è noto a tutti ed anzi può essere considerato come il vero e proprio antesignano di questa strategia di comunicazione, manipolazione e mistificazione in grado di rendere una autorità, fino a pochi anni prima eretta a rango di pilastro della pace e della stabilità nella sua regione, di volta in volta un autocrate, un despota, un tiranno, un vero e proprio nemico dei popoli e dell’umanità. Quello che sta succedendo nel caso di Bashar al-Assad può essere considerato come un ulteriore stadio della pervasiva opera di sofisticazione del reale attrezzatasi nelle forme di una vera e propria costruzione di immaginario e, di conseguenza, di nemico: si pensi solo alla approssimazione delle notizie riguardanti la vicenda bellica, tra vittime del conflitto univocamente attribuite al governo siriano (stime peraltro assai contraddittorie, che passano dalle 35.000 alle 60.000 a seconda delle fonti e tutte invariabilmente, in questo stereotipo, attribuite al governo, sebbene si tratti del numero complessivo delle vittime, contando dunque anche quelle di parte governativa) ed episodi del conflitto riportati spesso senza fonte, senza verifica e, ciò che è peggio, senza attribuzione (alternando così notizie di bombardamenti da parte delle forze governative a notizie di autobombe presso sedi istituzionali indicate senza attribuzione alcuna, lasciando intendere surrettiziamente che perfino queste siano o possano essere opera delle forze governative). L’operazione, studiata e raffinata, di costruzione del nemico, finisce così per conseguire tre scopi insieme: la totale delegittimazione del destinatario dello stigma, la completa deformazione delle posizioni in campo e dello svolgimento del conflitto, quale realmente è, e, non meno importante, la grave alterazione dell’opinione pubblica, con la conseguente preparazione ad una sempre più eventuale aggressione militare ammantata da pseudo-presupposti di liberazione, di emancipazione e di pacificazione, prendendo a pretesto, tra le altre cose, eccidi mai compiuti (il caso delle presunte fosse comuni di Racak, in Kosovo, è passato alla storia) e ricostruzioni mai provate (il “racconto” del tavolo negoziale di Rambouillet, sempre in riferimento al caso kosovaro, corrisponde assai poco al suo svolgimento nel “reale”). Tutto ciò finisce con il determinare anche l’agenda diplomatica, tempi, modi e priorità che la “comunità internazionale” finisce con l’assegnarsi in relazione allo svolgimento o alla risoluzione di un conflitto: non a caso, l’accelerazione della NATO, su sollecitazione della Turchia, in relazione all’installazione delle batterie di missili “Patriot” lungo il confine turco-siriano, fa seguito alla minaccia, mai provata (anzi ripetutamente smentita) di un presunto uso di armi chimiche da parte delle forze governative siriane. L’azione negoziale resta così fortemente condizionata e, in numerosi casi, inibita proprio dalla mistificazione delle fonti, dalla manipolazione del reale e, in definitiva, dalla delegittimazione (di alcune) delle parti in azione: lo stesso condizionamento, a ben vedere, che impedisce di riconoscere, in riferimento al caso siriano, il fatto che sinora, dalle forze della cosiddetta “opposizione” raccolte nel Consiglio delle Opposizioni, che comprende anche forze terroristiche e che risulta ampiamente egemonizzato dalle frange islamiste del CNS (Consiglio Nazionale Siriano), non sia giunta alcuna proposta negoziale se non quella, banale e settaria, del “via Assad poi se ne parla”; ed anche il fatto che una delle più articolate proposte negoziali interne sia stata avanzata proprio da Assad, con il suo piano di pace in tre tappe: cessazione del supporto esterno ai gruppi terroristici, fine delle reciproche ostilità tra gruppi armati e forze regolari, apertura di un “dialogo nazionale” con tutte le forze patriottiche che non hanno svenduto il Paese agli interessi stranieri, in direzione di una Conferenza per il Dialogo Nazionale e nella prospettiva di una Assemblea Costituente e di nuove elezioni politiche. C’è davvero da sperare che il furore della propaganda, anche presso ambienti – cosiddetti – democratici e progressisti, non finisca per rendere ciechi di fronte alla possibilità di un’alternativa reale e di un superamento positivo della guerra in corso in Siria.