Cina e Caraibi: tra cooperazione e strategia

cina canale costruzionedi Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

Washington abbassa lo sguardo e vede avanzare l’ombra rossa della Cina in quello che, fin dagli inizi del ventesimo secolo, è stato descritto – quando non proclamato – il “cortile di casa” degli Stati Uniti oppure – ma la sostanza è la stessa – il “mare americano”. Già, negli ultimi anni l’influenza economica e, insieme, politica di Pechino inizia a farsi sentire e ad essere accolta anche in America centrale e nei Caraibi (area geografica, quest’ultima, nella quale sono presenti Stati come la Giamaica che ancora riconoscono Taiwan come Cina ufficiale), in un processo che potrebbe chiudere definitivamente la lunga fase di applicazione della “Dottrina Monroe”. Allora come adesso c’è di mezzo un canale interoceanico, quello lungo 278 km che un’azienda cinese costruirà in Nicaragua, realizzando entro il 2020, con l’investimento di circa 40 miliardi di dollari, quello che è stato definito come “la più grande opera mai realizzata nella storia dell’umanità”. Ma questa volta, a differenza di quello di Panama, il futuro canale pare non simboleggiare più un rapporto basato sulla sudditanza e sulla tutela politica da parte di un potente vicino.

Per raggiungere l’accordo non è servito un colpo di Stato, un intervento militare contro “banditi” e “creature disprezzabili” come nel 1903. Una differenza sottolineata anche in uno studio – uscito all’indomani della pubblicazione del Libro bianco cinese sulla politica in America Latina e nei Caraibi (2008) – dello statunitense Council of Hemispheric Affairs: “La Cina sta cercando di aumentare la sua influenza con l’impiego di strumenti economici e il soft power piuttosto che attraverso strategie quali l’hard power militare e gli atti di unilateralismo che hanno portato ad un profondo risentimento regionale verso le politiche statunitensi” [1].

Un poco di storia: canale di Panama e Dottrina Monroe

Intervenuti a Cuba a sostegno dei ribelli antispagnoli in nome del diritto all’indipendenza, della civiltà e dell’umanità, instaurano subito un protettorato che bene risponde alle esigenze geopolitiche di fare dei Caraibi un “mare americano” e di puntare velocemente alla costruzione del canale interoceanico. Alla nuova costituzione cubana del 1901 viene imposto un emendamento, passato alla storia come Emendamento Platt, poi inserito nel trattato permanente del 1903, che prevede che il governo caraibico metta a disposizione il proprio territorio per basi militari Usa, si impegni a non stringere alleanze contrastanti con gli interessi Usa e si impegni a riconoscere il diritto all’intervento del potente vicino. Come scrive lo storico A. Aquarone, quella dell’emendamento Platt, è una “formulazione per così dire preventiva alla dottrina di Monroe” perché anticipa il pericolo di interferenza straniere. Nel 1903 gli Usa, per scavalcare le resistenze dei nazionalisti colombiani (il presidente Roosevelt li definisce “banditi inefficienti” e “piccole creature disprezzabili”), gettano le basi di una cospirazione che porta alla secessione di Panama dalla Colombia. Puntualmente il nuovo Stato indipendente firma con gli Usa un trattato che sostanzialmente riconosce a quest’ultimi la piena sovranità sulla zona del canale. Negli anni successivi gli Stati Uniti rivendicano ufficialmente il ruolo di “poliziotto internazionale” nei Carabi [2].

A fornire l’occasione è la crisi scoppiata in Venezuela dove insistenti si fanno le pressioni e gli interventi europei, soprattutto tedeschi, per ottenere il pagamento dei debiti contratti dal locale governo. Sull’onda degli avvenimenti, e per prevenire qualsiasi futuro intervento europeo, nel 1905 il presidente T. Roosevelt annuncia il “corollario alla Dottrina Monroe”: d’ora in avanti gli Stati Uniti interverranno politicamente e militarmente in tutto il continente americano nel caso in cui un governo con la sua “inabilità o mancanza di volontà nel fare giustizia in casa e all’estero ha provocato aggressioni straniere a danno dell’intero corpo americano”. E ancora, il diritto all’indipendenza “non può essere separato dalla responsabilità di farne buon uso”. A questo punto, la sovranità diviene una finzione. Nello stesso anno, infatti, la Repubblica Domenicana, anch’essa pressata dai creditori europei, dovrà affidare agli Usa, dopo molte pressioni, il controllo del proprio sistema doganale. Per il presidente Roosevelt “sarebbe sciocco, e nel contempo colpevole, per una nazione libera privarsi della forza necessaria per proteggere i suoi diritti e, in casa eccezionali, quelli altrui”. Se così non fosse – continua il presidente – si lascerebbe libertà di armarsi “ai despoti e ai barbari”. La diplomazia del dollaro dell’amministrazione Taft, ossia l’intervento politico-militare a favore degli investimenti e degli interessi americani, è la più conseguente messa in pratica del corollario. Non si contano infatti gli interventi militari: a Cuba nel 1906 e nel 1912, a Santo Domingo nel 1907, nel 1909 e nel 1912 in Nicaragua, nel 1910 in Messico e nel 1915 ad Haiti. Interventi che permangono nonostante il cambiamento di colore dell’amministrazione Usa. A smascherare senza mezzi termini il reale significato della dottrina è Robert Larsing, segretario di Stato sotto Woodrow Wilson: “Nell’invocare l’applicazione della Dottrina Monroe gli Stati Uniti si basano sui propri interessi. L’integrità delle altre nazioni del continente americano è secondaria e non ne costituisce l’obiettivo finale. Ciò potrebbe sembrare solamente frutto di egoismo, ma l’autore della Dottrina, nel formularla non aveva motivazioni più elevate né più generose”. Nel 1912 il senatore Cabot Lodge, in un discorso al Senato, propone un ulteriore corollario alla Dottrina Monroe per rispondere all’eventualità che privati legati a potenze straniere, nel caso specifico il Giappone, acquistino terreni nel continente americano: “Posto che, quando ogni porto o altro luogo nel continente americano, sia situato in maniera tale che la sua occupazione per propositi navali o militari può minacciare le comunicazioni o la sicurezza degli Stati Uniti, il governo degli Stati Uniti non può guardare senza preoccupazione il possesso di tali porti o altro luogo da parte di alcuna corporazione o associazione che abbia relazioni con un altro governo non americano, per dare a questo governo un potere concreto di controllo per fini nazionali”.

Un impegno tra economia e strategia

Il crescente interesse che la Cina popolare sta mostrando, da ormai un decennio, nei confronti dei Caraibi, secondo studiosi e analisti potrebbe garantire a Pechino un punto d’appoggio strategico alle porte degli Stati Uniti. Per Elise Donovan, direttore di Bvi House in Asia, è assai probabile che “sotto la presidenza di Xi Jinping, che ha maggiormente sottolineato rispetto ai suoi predecessori, la necessità di rapporti con la regione, i legami siano destinati a crescere. Pechino vede i Caraibi come strategicamente importanti in virtù della vicinanza agli Usa e alle principali rotte commerciali marittime e per la presenza di infrastrutture come il canale di Panama e i porti della regione”. Secondo diverse stime negli ultimi due anni circa 6 miliardi di dollari sono giunti da Pechino nei Caraibi per finanziare progetti infrastrutturali; dal 2005 al 2012 banche statali come la Export-Import Bank e la China Development Bank hanno prestato 4 miliardi di dollari a Bahamas e Giamaica, per la costruzione di resort, casinò, strade e la risistemazione delle coste. In una storica visita dell’estate 2013 in Trinidad Tobago, il presidente cinese ha annunciato un pacchetto di prestiti per lo sviluppo di 3 miliardi di dollari alla regione e l’approfondimento della cooperazione nei settori delle infrastrutture, dell’energia, dei minerali, delle telecomunicazioni e dell’agricoltura. 

Pochi mesi primi era stato il Financial Times a lanciare l’allarme per l’attivismo cinese in una regione che ha pesantemente risentito della crisi economica e che soffre pure le conseguenze di una sostanziale disattenzione “occidentale” dopo la fine della guerra fredda: “Mentre gli Stati Uniti e l’Europa hanno diminuito il loro impegno con i Caraibi, molti dei suoi paesi hanno trovato un nuovo amico disposto a offrire un aiuto vitale e investimenti: la Cina. L’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha descritto i Caraibi come “terza frontiera” americana, ma Pechino è ora probabilmente sul punto di soppiantare Washington nel ruolo di efficace potenza regionale” [3]. Concetto ripetuto poco dopo: “La Cina sta aumentando la sua influenza strategica nei Caraibi in quanto sfrutta il continuo ritiro statunitense da quello che George W. Bush ha chiamato “terzo di frontiera”. Il rivolo iniziale di aiuti era legato al riconoscimento della politica di “una sola Cina” e all’abbandono del riconoscimento di Taiwan, ma di recente gli investimenti sono diventati più grandi, i progetti più strategici e la presenza cinese sul terreno più evidente.” [4]

Se per la Cina popolare l’impegno nella regione caraibica non si discosta dalle ragioni che ne sostanziano una proiezione sempre più globale – cooperazione, convergenza di interessi in un contesto mondiale caratterizzato da un “passaggio irreversibile” verso la multipolarità, non interferenza, rispetto della sovranità e delle autonome via di sviluppo [5] – è certo difficile non pensare che l’azione in un contesto economico di secondo piano come quello caraibico, peraltro non particolarmente ricco di di risorse esportabili, sia anche legata ad una precisa volontà di aumentare la propria influenza politica e ottenere nuovi appoggi e comprensione negli organismi internazionali su temi chiave (diritti umani, sovranità cinese, dispute territoriali), eliminando definitivamente i consensi che ancora ottiene Taiwan, già storico elargitore di finanziamenti nella regione.

Ma a Washington c’è chi pensa ad una precisa strategia militare: Pechino avrebbe intravisto nei Caraibi una vulnerabilità nel muro di sicurezza statunitense. E per questo gli analisti cinesi si sarebbero messi a studiare la strategia attuata nella regione negli anni ’80 dall’Unione sovietica per disturbare le linee di comunicazione e di trasporto marittime statunitensi in caso di guerra. Insomma, ci si troverebbe di fronte ad un tentativo di “Pivot on Caribbean” in risposta a quello asiatico annunciato dall’amministrazione Obama. Il timore – lanciato dal Wall Street Journal nel settembre del 2013 – è quello di vedere Pechino introdurre, con pazienza e senza fretta, sistemi di sorveglianza, firmare accordi di accesso navale e, in caso di crisi, utilizzare i Caraibi per distrarre l’attenzione Usa dal proprio cortile marittimo, il Mar cinese meridionale [6].

NOTE

1. Council on Hemispheric Affairs, “China’s Policy Paper on Latin America and The Caribbean”, luglio 2009
2. Aquarone “Le origini dell’imperialismo americano: da McKinley a Taft (1897-1913),Bologna, il Mulino, 1973
3. Financial Times, “The Caribbean: A darkening debt storm”, 28 aprile 2013
4. Financial Times, “China steps up Caribbean strategy”, 20 maggio 2013
5. Si veda il “Libro bianco sulla politica della Cina in America latina e nei Caraibi” (2008)
6. The Wall Street Journal, “China’s Rising Tide in the Caribbean”, 30 settembre 2013