L’Egitto tra reazione e rivoluzione

di Spartaco A. Puttini | da Gramsci oggi” n°4/2013

tahrir bandieraegittoQuando gli occidentali guardano agli eventi in corso in Egitto hanno l’espressione di coloro che fissano la Sfinge, faticano a interpretarne l’enigmatico sguardo. Non è una novità, anche all’epoca della rivoluzione nasseriana fu evidente l’incomprensione per la svolta che stava maturando nel paese arabo.

Il circuito mediatico ha raccontato nel 2011 di una rivoluzione in Piazza Tahrir. Poi di una difficile transizione verso un sistema democratico, ma ipotecato dalle forze islamiste, la Fratellanza musulmana su tutte. Infine, di fronte al colpo di Stato militare del luglio scorso, quando le Forze Armate hanno destituito il presidente Morsi, hanno espresso viva preoccupazione, sgomento o condanna. Specie nella sinistra occidentale vi è stata una netta condanna del golpe e delle sue implicazioni. Quasi ovunque il pronunciamento dell’esercito è stato visto come una reazione alla rivoluzione del 2011. Colpisce l’accondiscendenza con cui si è guardato da più parti, in questo drammatico frangente, alla Fratellanza musulmana.


La crisi egiziana è ancora in alto mare, l’Egitto è ora come una nave incappata in piena tempesta ed è ben lontano da trovare un porto d’attracco. Diverse sono le strade che potrebbe imboccare questo paese, cruciale per gli equilibri del Vicino oriente e del Mediterraneo. Tuttavia è il caso di fissare, in modo sicuramente problematico, alcuni punti fermi. Quando si guarda la Sfinge sarebbe bene tenerli a mente.

– Rivolta senza rivoluzione

In piazza Tahrir nel 2011 non vi è stata nessuna rivoluzione, ma una rivolta popolare ampia, dalle radici lunghe. La crisi egiziana parte da lontano: quanto meno dalle scelte politiche, economiche e sociali imboccate da Sadat, scelte che rappresentarono una netta inversione rispetto a quelle compiute da Nasser. La svolta operata da Sadat portò l’Egitto nuovamente nell’orbita occidentale in posizione subordinata. Il Cairo scelse il neoliberalismo, una politica di privatizzazioni e sperequazione sociale che avrebbe segnato per decenni la sorte di milioni di egiziani, schiacciati tra indigenza ed emigrazione. Solo il pugno di ferro del regime militare restò lo stesso, ma prese ad agire in altre direzioni e con altre finalità. Il peso dei militari nella società egiziana non venne meno con la morte di Nasser, ma fu il loro ruolo a cambiare drasticamente.

Mubarak continuò la politica impostata da Sadat, piuttosto fedelmente. L’onda che lo travolse in Piazza Tahrir iniziò a gonfiarsi ben prima del 2011, lontana dagli obiettivi dei media occidentali. L’aumento esorbitante dei cereali e, di conseguenza, del pane e dei generi di prima necessità aveva contribuito a creare, già da alcuni anni, un clima incandescente ed esplosivo1. Numerose erano state le manifestazioni popolari, nelle campagne e nelle città2. Un ruolo crescente esercitarono anche i settori operai legati all’industria tessile, specie nella zona del Delta e ad Alessandria. Furono molto combattivi3. Solo al loro culmine le proteste assunsero il carattere di una vera rivolta di popolo e quando ad essa si aggiunsero i giovani delle grandi città, parzialmente occidentalizzati o meno, il paese fu costretto dalla forza delle masse a fermarsi4.

La rivolta, come è noto, avrà alla fine la testa di Mubarak. Ma il regime egiziano non è a ben vedere mai stato il regime di Mubarak, per quanto questi ne abbia rappresentato per un lungo periodo la figura indubbiamente apicale, fino a prefigurare l’ipotesi di indicare nel proprio figlio un successore alla guida dello Stato.

In realtà l’Egitto è dalla rivoluzione del luglio 1952 che portò al potere Nasser e gli “Ufficiali liberi”, un regime militare5. Un regime che ha, come si accennava, cambiato colore alla morte del suo leader storico passando da un orientamento laico, nazionalista, panarabo, neutralista, antimperialista, socialista arabo e statalista ad una postura egualmente laica, ma liberale, e occidentalista. Nell’esercito egiziano ci sono sempre state articolazioni tra posizioni conflittuali, il più delle volte difficili da interpretare con chiarezza all’opinione pubblica italiana e, in generale, occidentale. Salvo quando la contrapposizione assumeva punte di inusitata gravità. Come avvenne nel 1953-54, quando i giovani quadri dell’esercito, radicalizzatisi, emarginarono il compagno di strada Neguib e misero al bando la Fratellanza musulmana, scaricando quasi tutti i quadri dell’esercito che le erano vicini (ad esclusione di Sadat). O come avvenne, ancora, dopo la morte di Nasser, quando l’ala sinistra del Consiglio della Rivoluzione guidata da Mohieddin, designato qualche anno prima successore in pectore, venne messa in un angolo dalla destra di Sadat.

Con i fatti di Piazza Tahrir gli apparati dello Stato capiscono che se non vogliono essere travolti devono gestire in prima persona la transizione e devono concedere alle piazze una testa sacrificabile, e lo pensano anche gli Stati Uniti: la testa sacrificabile non poteva che essere quella di Mubarak. Dietro l’operazione, abbastanza scoperta, c’è la mano del capo dell’intelligence egiziano, Omar Suleyman6, legato a doppio filo a Usa e Israele. Si spera che basti l’operazione gattopardo per disinnescare la bomba rappresentata dai moti popolari.

La rivolta non sfocia nella rivoluzione, ma in un cambio pilotato dai vertici militari secondo un piano gradito a Washington e condiviso con i vertici dell’unica forza politica radicata nella società: la Fratellanza musulmana.

Nessuno fa però i conti con la consapevolezza che le masse egiziana hanno acquisito della loro forza dopo aver ottenuto la testa di quello che era ritenuto da tre decenni l’uomo più potente del paese. Né si fanno i conti, difficili in vero da compiere, con l’effetto prodotto dall’effervescente situazione egiziana sulle Forze armate e in particolare sui suoi quadri.

Nel corso della rivolta i militari sono ad un certo punto usciti dalle caserme per garantire che il paese non scivolasse nel burrone della guerra civile, ma con una funzione di garanzia dell’intangibilità delle manifestazioni popolari, impedendone così la repressione da parte delle forze di polizia. Il popolo, ostile alla polizia che per anni è stata la punta di lancia della repressione all’interno del paese, ha accolto il gesto dei militari con benevola speranza. Il prestigio dell’esercito, nonostante tutto, è ancora forte proprio in virtù del carattere specifico avuto nell’Egitto contemporaneo dalla rivoluzione nasseriana. Ma una volta che i militari escono dalle caserme e scendono nelle piazze con il popolo è difficile che vi possano ritornare così come ne sono usciti.

– Gli Ikhwan al potere

Sotto Nasser i Fratelli musulmani furono aspramente combattuti. Il rapporto tra la Confraternita e il regime militare precipitò allorquando, dopo aver ottenuto la partenza delle truppe britanniche dalle basi lungo il Canale di Suez, Nasser subì un attentato mentre teneva un discorso pubblico ad Alessandria ad opera di un affiliato alla Fratellanza. Lo scontro con i Fratelli musulmani fu cruento e senza esclusione di colpi. Ma, nonostante la repressione, la Congregazione non venne del tutto sradicata. Sadat procedette a stabilire un modus vivendi con i Fratelli musulmani (Ikhwan). La setta fondata da al-Banna avrebbe rinunciato ad aspirare alla guida politica del paese e in cambio avrebbe avuto le mani libere nelle sue attività sociali e culturali. Poteva così avere inizio quella battaglia per l’islamizzazione della società egiziana dal basso che molti intellettuali islamisti avevano fatta propria.

Questa politica consentiva a Sadat di combattere il radicamento dei suoi veri avversari strategici: le sinistre nazionaliste (nasseriane o marxiste che fossero)7.

Questo spiega come mai, all’indomani dell’estromissione di Mubarak dal potere, avvenuta su pressione della piazza ma su decisione degli apparati e con l’assenso americano, l’unica forza politica organizzata e radicata fosse la Fratellanza musulmana. Da qui il clamoroso risultato che i Fratelli hanno ottenuto nelle elezioni politiche. Anche se l’islamizzazione della società non ha premiato solo loro: anche le forze salafite sponsorizzate dalla petromonarchia saudita sono uscite con un peso rilevante dalle urne.

Il risultato ottenuto in termini di radicamento presso le classi povere e disagiate dell’Egitto e la sua traduzione nella vittoria elettorale alle elezioni politiche hanno spinto alcuni a vedere nella Fratellanza una forza popolare, ascesa democraticamente al potere in contrapposizione agli uomini dei vecchi apparati, che per riprendere il soppravvento hanno dovuto ricorrere al colpo di Stato.

Ma tale visione è, come cercheremo di mostrare, molto parziale e le chiavi di lettura che ne discendono possono essere pericolosamente fuorvianti.

Non sempre disporre di un radicamento presso le classi popolari e rappresentarne gli interessi od essere una forza progressiva vanno di pari passo. Tutto dipende da quale cultura politica si ha, come ci si colloca in un contesto concreto, come si influisce su di esso e dove si vuole andare, quali scenari ci si propone di aprire con la propria azione e quali in effetti si è in grado di produrre.

A differenza delle correnti islamiste rivoluzionarie di matrice khomeinista, la Fratellanza musulmana non ritiene prioritaria la lotta contro l’imperialismo, né contro altre forme di oppressione nazionale o sociale, ma ritiene prioritario l’impegno per l’islamizzazione dei costumi secondo quelli che sono i propri particolari orientamenti. Essa è affine alle correnti dell’islamismo conservatore e reazionario, disposte ad accettare i dettami del liberismo ed inclini a sfruttare gli spazi offerti dallo Stato minimo liberale per costruire una loro rete di strutture di solidarietà, all’insegna della carità e della compassione, che ne rafforzi la presa sulla società. Non si tratta cioè di una forza con funzioni progressive. La Fratellanza è certo composita, ma non occupa con la sua mole tutto lo spettro di posizioni che possono richiamarsi all’islam politico. Essa è ampiamente adagiata su posizioni reazionarie nel contesto egiziano e di fatto la sua presenza si interseca con settori intrisi da ciò che si suole definire integralismo e fanatismo. E’ da sottolineare il fatto che le anime più moderate e riformatrici della stessa siano state emarginate o cacciate, arrivando a presentare un loro candidato indipendente alle elezioni presidenziali. Questo aspetto permette di comprendere tanto il motivo della sostanziale convivenza con Sadat e Mubarak quanto la successiva politica di Morsi, una volta divenuto presidente.

Né il loro radicamento deve far pensare che gli Ikhwan abbiano l’esclusiva della rappresentanza dei settori popolari. Del resto al suo vertice sono ben visibili esponenti della borghesia egiziana, anche facoltosa, come l’imprenditore Khairat al-Shater. Certamente le posizioni laiche occidentaliste e liberali sono minoritarie e godono delle simpatie solamente di frange della borghesia egiziana (oltre a quelle della stampa occidentale, beninteso). Ma molto combattive sono al contrario le formazioni della sinistra nazionalista (tra queste principalmente nasseriani, socialisti e comunisti) che godono di una certa presenza nelle fabbriche del Delta e di Alessandria. Le sinistre sono uscite molto male dalle elezioni politiche, pagando lo scotto di anni di “semi-clandestinità” e divisioni. Ma il pedaggio maggiore lo hanno probabilmente pagato in seguito alla decisione di partecipare alle elezioni nel Blocco egiziano, un cartello elettorale contratto tra le sinistre e i liberali in funzione unicamente anti-islamista. Una scelta politicamente debole, e fallimentare.

E’ però da segnalare che ben diverso è stato il risultato raggiunto dal candidato di sinistra alle presidenziali, Hamdin Sabahi. Al primo turno Sabahi, esponente storico dell’ala sinistra del movimento nasseriano e leader del partito “Karama” (Dignità) e di Corrente popolare, noto per le sue posizioni antimperialiste e progressiste in campo sociale, ha ottenuto il 21% dei voti, sfiorando per un soffio il ballottaggio, probabilmente mancato solo a causa dei brogli che hanno consentito al candidato del vecchio establishment, Shafiq, di passare al secondo turno. Primo, com’è noto, arrivò Morsi, che poi venne eletto presidente.

Il risultato di tutto rispetto ottenuto dal candidato di sinistra alle presidenziali è passato quasi del tutto inosservato a gran parte dei media, che continuano a leggere le tragiche vicende egiziane come uno scontro tra la Fratellanza musulmana, andata al potere grazie alle elezioni e pertanto unica depositaria, per quanto ambigua, del desiderio di cambiamento democratico delle masse egiziane e l’esercito, roccaforte dei privilegi e del vecchio regime.

Un ballottaggio tra Morsi e Sabahi avrebbe lasciato agli egiziani la possibilità di scegliere quale rottura operare con il recente passato. Il ballottaggio tra Morsi e Shafiq ha posto lo spauracchio del ritorno al passato di fianco a quello dell’islamizzazione integralista della società e dell’abbandono del paese ad una setta lanciata all’assalto della diligenza. Ciascuno in tale contesto ha fatto la sua scelta, una scelta lacerante per il paese.

– Il fallimento dei Fratelli musulmani

Subito dopo le elezioni la Fratellanza si è mossa come se avesse ottenuto carta bianca per cambiare il volto dell’Egitto secondo i suoi desideri. Con un clamoroso autogol politico, che però svela la sua natura di forza integralista, oscurantista e fanatica, non ha tenuto nel minimo conto che una fetta rilevante degli egiziani che le ha dato il suo voto lo ha fatto per avere un cambiamento vero e palpabile nelle questioni di tutti i giorni: pane, lavoro, giustizia. Per dare queste risposte sarebbe servita tutt’altra politica economica e soprattutto avere in testa tutt’altre priorità.

Su tutto questo Morsi è stato cieco, sordo, reticente. Ha puntato all’occupazione del potere per se e per il suo partito, nominando spesso come governatori delle province egiziane uomini discussi, alcuni dei quali in passato sono stati addirittura attivi in frange terroriste che hanno insanguinato l’Egitto8. Questo a dimostrazione del confine tenue che a volte corre tra i gruppi dell’islamismo radicale di matrice sunnita, sia esso tradizionalista (come la Fratellanza) o fondamentalista (come i gruppi salafiti e gli ambienti jihadisti influenzati dalla setta wahhabita).

La Fratellanza ha puntato a trasformare l’Egitto in uno stato confessionale, a dispetto delle sue promesse ed in barba alla delicata questione delle minoranze religiose, l’importante comunità copta in prima fila, che negli ultimi mesi erano state oggetto di una brutale e disgustosa persecuzione. Sul piano economico non ha preso praticamente alcuna iniziativa; sul piano istituzionale ha chiesto i pieni poteri, mostrando di avere una visione quanto meno originale del mandato democratico ricevuto; sul piano della politica estera, dopo qualche balletto, si è schierato per sostenere le bande armate terroriste contro la Siria. Questa è stata la politica della Fratellanza musulmana durante la sua presidenza.

Facile capire come mai, nei mesi precedenti il pronunciamento delle Forze Armate, il paese sia stato scosso da imponenti manifestazioni. Morsi ha scontentato una parte non irrilevante di coloro che gli avevano dato la loro fiducia, pur non essendo organicamente ikhwan, senza per altro dissipare le preoccupazioni dei suoi avversari, che si sono anzi tramutati in strenui oppositori.

In piazza contro di lui c’era la borghesia liberale filo-occidentale, alcuni sostenitori del passato regime, gli esponenti della sinistra nazionalista. Ma c’era soprattutto parte rilevante del popolo egiziano. Lo stesso popolo che aveva giocato il tutto per tutto per avere risposte alle sue legittime richieste di una vita migliore sfidando Mubarak, gli apparati, la repressione.

Come nel caso di Mubarak alle imponenti manifestazioni di piazza si è affiancato ad un certo punto un intervento dall’alto. Nel primo caso i media hanno parlato, impropriamente, di rivoluzione, nel secondo di colpo di stato. Sebbene in alcuni casi turbati dal fatto che a rappresentare ai loro occhi l’ordinamento democratico fossero i Fratelli musulmani, hanno censurato senza esitazioni l’intervento dell’esercito e il golpe del generale al-Sisi, bollandolo come un tentativo di tornare indietro.

– L’Egitto al bivio

La differenza fondamentale con i primi moti di piazza Tahrir è data dal fatto che i sostenitori di Morsi hanno continuato a scendere in piazza, sia nei mesi della contestazione popolare al loro presidente, sia dopo il golpe, sia in modo pacifico che in modo violento, a mano armata.

Questo dimostra fino a che punto l’Egitto sia oggi spaccato. Ma dimostra anche e soprattutto che la Fratellanza musulmana non è l’unica forza ad avere legami nel popolo, contrariamente a quanto si potrebbe desumere leggendo certi articoli della stampa italiana, purtroppo soprattutto di “sinistra”. In Egitto oggi il popolo è diviso, la borghesia anche. La vera questione è un’altra: le Forze armate fino a che punto sono unite da un unico intendimento?

E’ sempre pericoloso escludere con un intervento dell’esercito una forza politica influente dal potere. Questa forza potrebbe essere spinta a ritenere che la propria partecipazione al libero gioco elettorale sia inutile, perché la partita è truccata. Potrebbe accarezzare altre idee, quelle della lotta armata o del terrorismo, ad esempio. In Egitto il terreno per reclutare bande armate integraliste è fertile: lo dimostra la quantità di egiziani che nel recente passato è accorsa sui vari fronti della “jihad” qaidista, dagli “afghanzi” degli anni Ottanta, ai mercenari partiti per la Siria ieri. Lo dimostrano anche i sanguinosi attentati più volte compiuti nel paese nonostante il pugno di ferro di Mubarak. La guerra civile è un pericolo da non sottovalutare, forse in alcune zone del paese, come nel Sinai, è già una realtà. La repressione dell’esercito è stata decisa e anche rude. E’ costata del sangue. Più difficile è dire se l’uso della forza sia stato ingiustificato o sproporzionato in relazione alla sfida posta all’Egitto ed entrare nel merito di chi abbia sparato il primo colpo, specie in considerazione della evidente presenza sulla scena egiziana delle bande armate legate agli ikhwan.

Gli eventi degli ultimi mesi hanno materializzato la possibilità che anche l’Egitto venisse risucchiato nel gorgo della dissoluzione, delle lotte fratricide inter-confessionali e rischiasse seriamente una profonda libanizzazione. Non vanno dimenticati i consigli dati nei mesi scorsi a Morsi da parte degli ambienti militari, che invitavano il presidente a intavolare trattative con le forze di opposizione per addivenire ad un compromesso ed evitare una contrapposizione esasperante e pericolosa. Consigli che sono rimasti lettera morta e che sono stati sdegnosamente snobbati dalla Fratellanza, che aveva condotto il paese in un vicolo cieco.

Questo è un dato reale e in parte spiega il pronunciamento dell’esercito e il placet dato al generale al-Sisi da parte dei vertici spirituali delle principali comunità religiose del paese: il direttore dell’Al-Azhar e il patriarca della Chiesa Copta. Non dice però se l’intervento a gamba tesa dei militari acuirà il problema anziché risolverlo. Solo il tempo potrà rispondere. In ogni caso resta la confermata centralità dell’esercito. Che questo rappresenti un ritorno alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca, o la restaurazione in barba ai moti del 2011 è però un’altra questione.

– L’ombra di Nasser

La sinistra nazionalista ha subito approvato il golpe. Dal suo punto di vista con il suo pronunciamento l’esercito ha accolto la richiesta delle manifestazioni di massa che chiedevano a Morsi di andarsene. E’ questo il punto di vista del Partito comunista egiziano e dei suoi alleati socialisti e nasseriani raccolti nella Coalizione delle Forze Socialiste e nella Coalizione Rivoluzionaria Democratica. Per Sabahi con questo gesto i militari si sono riconciliati con il popolo9. Sono giudizi che vanno tenuti in considerazione. Pesa però un interrogativo: pur convenendo sul fatto che la Fratellanza musulmana avesse portato la crisi egiziana ad un punto di non ritorno, il fatto che la risoluzione della crisi sia dovuta ad un intervento delle Forze Armate in un certo qual modo non rischia di ipotecare la transizione? Certo, le forze di sinistra hanno puntato sui militari, confidando che in un breve volgere di tempo fosse possibile avviare un transizione alla democrazia senza la presenza di forze di ispirazione religiosa che potessero mettere in discussione l’unità dell’Egitto.

Ma quando una crisi precipita e si innesca una situazione di scontro molto duro e cruento con una fazione molto forte e difficile da sradicare (come la Fratellanza) che porta al permanere dello stato d’assedio nessuno sa di preciso se, quando e come, inizierà un ritorno alla normalità. Soprattutto chi preme per un cambiamento sostanziale della politica egiziana affinché i bisogni delle masse egiziane siano soddisfatti dovrà fare i conti con il dato di fatto che il pallino è ancora una volta nelle mani dell’esercito. Quanto si rischia di tornare al passato, ad un “sadatismo-mubarakismo” senza Sadat o senza Mubarak?

E’ questo un timore paventato da molti osservatori, i quali hanno sottolineato da subito il legame, indubbio, che corre tra i vertici militari egiziani e gli Stati Uniti, la potenza che da tre decenni è principale partner per la politica di difesa del paese nordafricano. E si sa cosa questo significhi tradizionalmente anche in termini di capacità di influenzare le decisioni dell’esercito che si arma e che si addestra, gli Usa hanno una lunga esperienza in merito e potrebbero dare lezioni a chiunque. Ma da qui a trarre conclusioni perentorie il passo è lungo, come ha dimostrato lo stesso sviluppo impresso dal pronunciamento militare alle relazioni tra Egitto e Stati Uniti.

La direzione che prenderà la politica egiziana dipenderà dai rapporti di forza all’interno delle Forze Armate egiziane e dalle pressioni che dall’esterno la sinistra patriottica saprà esercitare su detti rapporti. Tenendo conto che il popolo egiziano ormai si è mosso, togliendosi, nonostante tutto, qualche soddisfazione impensabile fino a ieri.

E’ vero che i grandi gradi dell’esercito dominano l’economia egiziana (dai tempi di Nasser) e che dai tempi di Sadat siano più inclini ad utilizzare questa loro posizione per scopi personali che non per spirito di servizio patriottico. Resta da vedere se questo fa automaticamente dell’esercito tout-court un elemento a servizio della reazione. L’esercito è ancora un esercito di popolo: quanto pesano i quadri militari, cosa pensano? Saranno queste le questioni dirimenti, per rispondere alle quali in Occidente non abbiamo ancora sufficienti elementi di giudizio.

Già all’inizio degli anni Cinquanta fu molto arduo vedere l’emergere di un processo rivoluzionario dal pronunciamento dell’esercito che portò nel luglio 1952 alla deposizione di re Faruk. Solo il corrispondente de “Il Popolo” dal Cairo parlò di un braccio di ferro tra il generale Neguib e i giovani quadri dell’esercito che prospettavano soluzioni radicali per i problemi del paese. La storia ci racconta che quei giovani vinsero la loro battaglia: fu l’inizio del regime nasseriano che rappresentò comunque, nel bene e nel male, una pagina indubbiamente positiva e progressiva nella storia contemporanea dell’Egitto e nel quadro più complessivo della rinascita araba. Anche all’epoca gli elementi liberali inclini ad avviare una modernizzazione senza rivoluzione (nemmeno dall’alto) vennero cooptati in un primo tempo dai golpisti. Poi vennero emarginati quando emerse la loro incompatibilità con le iniziative dei militari, maggiormente inclini ad adottare misure di eguaglianza sociale all’interno e di difesa degli interessi nazionali all’esterno.

Anche oggi i liberali (su tutti el-Baradei) sono stati in un primo tempo cooptati e poi sostanzialmente scaricati da Sisi. Secondo Sabahi il generale al-Sisi è un nuovo Nasser, cui bisogna dare fiducia. Non lo sappiamo. Ciò che sappiamo è che anche Nasser divenne Nasser sotto l’incedere delle sfide poste dall’imperialismo e dai pascià. Partì con l’idea che servire il suo paese e il suo popolo fosse la stessa cosa: approdò al panarabismo, ad un socialismo arabo non marxista ma egualitario e antimperialista. Anche oggi, di fronte alla complicata e lentissima transizione in corso nel paese, è indicativo che l’atteggiamento del Partito comunista egiziano e dei suoi alleati sia quello di formulare richieste e premere per il cambiamento manifestando la convinzione che il cambiamento possa avere un margine di attuazione solo all’interno del processo iniziato con il pronunciamento militare contro la Fratellanza musulmana e non al di fuori di esso10.

E’ inaudita la netta presa di posizione di Sisi sulla crisi siriana. Nei giorni più caldi della crisi, quando siamo stati a un passo dalla guerra, il generale egiziano ha espresso la sua netta contrarietà all’intenzione di Obama di bombardare la Siria affermando che l’Egitto avrebbe vietato alle navi da guerra statunitensi di attraversare il Canale di Suez per portarsi nel Mediterraneo e esprimendo la propria solidarietà al governo siriano, che stava fronteggiando una sfida (quelle delle bande armate integraliste) uguale a quella che minacciava la sicurezza nazionale egiziana. Nel giro di pochi giorni il ministro degli esteri egiziano Fahmi si era recato a Mosca per consultazioni e aveva dichiarato che l’Egitto aspirava a ristabilire una partnership più stretta con la Russia. I canali diplomatici con Damasco sono stati riavviati, e forse non solo quelli. Anche l’Arabia Saudita ha aperto un credito con Sisi, cercando di chiudere i suoi conti con l’emergere di concorrenti ideologici e politici nella galassia dell’islamismo conservatore e reazionario e puntando sulla carta della restaurazione. Ma la svolta impressa da Sisi sul dossier siriano rappresenta il vero discrimine riguardo alla questione più calda della regione e le sue implicazioni potrebbero non essere banali. Oltre a Mosca e a Pechino il pronunciamento dell’esercito ha ottenuto la luce verde anche da Damasco e da Algeri.

E’ indicativo che gli Usa abbiano deciso di sospendere l’assistenza economica all’Egitto, principalmente nel settore militare, evidentemente per punire Il Cairo delle sue inclinazioni autonome in ambito internazionale. Obama aveva puntato da tempo sulla carta dell’intesa con le formazioni dell’islamismo conservatore e reazionario ed aveva favorito l’ascesa delle Fratellanza musulmana nella regione e sfruttato abilmente le orde della “jihad” wahhabita contro Libia e Siria. Washington aveva incassato il putsch di luglio sperando di controllare la transizione. Ma nelle sue espressioni di condanna delle violenze si era rivolta solo verso la repressione dell’esercito, sottacendo volutamente gli agguati e le aggressioni delle bande armate legate alla Fratellanza, che hanno agito contro i militanti dell’opposizione a Morsi e contro i militari. Ora la Casa Bianca teme il materializzarsi dello spettro di Nasser e ricorre al vecchio metodo delle pressioni, delle ingerenze, per condizionare Sisi. Ma, anche questa volta, la scelta di Washington potrebbe rivelarsi un boomerang. Significativamente in Israele la decisione statunitense di sospendere gli aiuti all’Egitto è stata considerata un errore strategico.

Nel frattempo, all’inizio di novembre 2013, un alto dirigente dell’intelligence militare russa, Viaceslav Kondrasku, si è recato in Egitto per colloqui ad alto livello sull’evoluzione della situazione in Medio Oriente e per riaprire un canale per la fornitura di armi tecnologicamente avanzate ai militari egiziani, probabilmente inclini a cercare di differenziare le loro fonti di approvvigionamento per resistere ai ricatti statunitensi. Kondrasku ha preparato il terreno alla visita ufficiale del ministro degli Esteri russo Lavrov e di quello della Difesa Shoigu in Egitto, dal 13 al 15 novembre. Era da 40 anni che un ministro della Difesa russo non si recava al Cairo. Il dialogo russo-egiziano ha affrontato tutti gli aspetti della cooperazione tra i due paesi, anche quelli relativi alla collaborazione in ambito militare e della difesa. Sisi ha sostenuto la determinazione egiziana di rilanciare una storica partnership aprendo una “nuova era di costruttiva, fruttifera, cooperazione a livello militare”11.

E’ stata sottolineata anche la volontà di cooperare contro il terrorismo, in tutte le sue dimensioni, e il fatto che i due paesi hanno punti di vista largamente coincidenti su un vasto ventaglio di questioni, tra le quali spicca la crisi siriana. Lavrov si è anche permesso di sbeffeggiare implicitamente gli Usa sottolineando che la Russia “rispetta la sovranità dell’Egitto e il diritto del popolo egiziano di determinare il proprio futuro”12.

Anche all’epoca di Nasser la decisione statunitense di non concedere aiuti militari ed economici all’Egitto per costringere Il Cairo a rivedere la propria politica spinse i nazionalisti egiziani a rivolgersi a Mosca e a radicalizzarsi ancora di più sul piano interno e internazionale (con la scelta neutralista e la decisione di nazionalizzare la compagnia che gestiva il Canale di Suez).

Le analogie finiscono qui, forse. Il resto è composto da pagine bianche, che spetta solo agli egiziani scrivere sul libro della storia.

NOTE

1 http://www.medarabnews.com/2008/03/21/la-crisi-del-pane-in-egitto-la-scintilla-di-una-possibile-esplosione-sociale/

2 Si veda M. Giorgio, Scioperi e porteste per il pane: Egitto nel caos; in: “Il Manifesto”, 11 aprile 2008

3 Secondo l’Egyptian Workers and Trade Union Watch nel 2004 si sono registrati 191 scioperi, nel 2007 580. Particolarmente attivi furono i lavoratori della fabbrica Ghazl al-Mahalla di Mahalla al-Koubra, che nel 2008 con il loro esempio provocarono l’occupazione di tutta la città. E’ in quell’occasione che, forse per la prima volta, dalle rivendicazioni sociali inizia a maturare la coscienza delle necessarie rivendicazioni politiche. Si veda “Le Monde”, 11 febbraio 2013

4 Da notare che lo stesso Movimento 6 Aprile, che sui social network avrebbe organizzato le prime mobilitazioni del 2011, era nato sulla scia delle campagne di solidarietà con gli operai di Mahalla al-Koubra del 2008. Si veda ad es.: M. Hamam, Il giorno della marmotta, ovvero corsi e ricorsi delle tre rivoluzioni d’Egitto; in: “Limes”, n.7 2013, p. 24

5 Per una critica da sinistra al regime militare egiziano si veda A. Abdel-Malek, Esercito e società in Egitto: 1952-1967; Torino, Einaudi 1967.

6 Omar Suleyman sarebbe morto nel luglio 2012 negli Usa, in circostanze mai chiarite.

7 M. Campanini, Storia dell’Egitto contemporaneo; Roma Ed. Lavoro, 2005, pp. 229-230

8 Valga come esempio la nomina a governatore di Luxor del membro dell’organizzazione terrorista Gamā’a Islāmiyya, Adel al-Qayat, responsabile dell’aggressione che costò la vita a 62 turisti nel 1997, proprio a Luxor.

9 Reuters, 9 luglio 2013

11 A. Akulov, Russian Ministers Pay Landmark Visit to Egypt; in: “Strategic Culture Foundation”, 16/11/2013: http://www.strategic-culture.org/news/2013/11/16/russian-ministers-pay-landmark-visit-to-egypt.html

12 Ibidem