Erdogan e la voglia di impero

di Maurizio Musolino, Coordinatore Dipartimento Esteri PdCI

Erdogan-with-Turkish-and-EU-flagsUna chiave di lettura fondamentale per capire quello che succede nel Medio Oriente è da diversi anni la Turchia, e l’evoluzione del suo quadro politico. I cambiamenti interni e le scelte internazionali di questo stato hanno sempre di più connessioni e influenze su tutta la regione, a partire proprio dalla Siria e in generale dalle cosiddette “primavere arabe”.

Torniamo indietro di due anni. Non appena i risultati delle elezioni del 2011 sono diventati ufficiali è stato chiaro a tutti che Recep Tayyip Erdogan, leader del “Partito di Giustizia e Sviluppo”, aveva il modo – con il suo secondo mandato – di esprimere un governo forte con l’obiettivo di divenire “fonte di ispirazione per molti regimi politici, perché abbiamo dimostrato che l’Islam e la democrazia possono coesistere”. In quegli stessi giorni molti politici e intellettuali – turchi e no – sono stati impegnati a discutere sui reali obiettivi di Erdogan, e alcuni di questi sono arrivati al punto di analizzare il rapporto fra l’Islam e la democrazia.

Un rapporto che allora come oggi, non può eludere la realtà, fatta da carceri che non cessano di ricevere nuovi ospiti, specie tra i giornalisti che non obbediscono agli ordini, denunciando fatti e misfatti del partito di Erdogan, attivisti procurdi e militanti della sinistra. Per non parlare delle misure repressive che il governo turco ha adottato contro quanti in questi anni hanno difeso la Costituzione in contrapposizione con gli attacchi al secolarismo portati avanti da Erdogan stesso, in primo luogo i membri della Corte Costituzionale.

A questo punto è utile fare un ulteriore piccolo passo indietro al 2009, quando il presidente statunitense Obama dopo il discorso al Cairo si reca in Turchia e anche lì, davanti al Parlamento, parla del futuro della regione. In quel discorso Obama sottolineò due punti: la necessità di creare un cuscinetto “democratico” per isolare l’opposizione interna e permettere al partito di Erdogan una transizione “dolce” dal ataturkismo, mentre il secondo parla ancora una volta alle forze politiche religiose del mondo arabo. Soprattutto a quelle che oggi governano i Paese dove rivolte e rivoluzioni hanno rovesciato i vecchi regimi senza però voler, o poter, sostituirli con nuovi sistemi di potere. 

Il primo messaggio ha come ripercussione diretta le proposte avanzate per cambiare la Costituzione, promulgata nel 1980, che possono essere riassunte come segue: sopprimere tutti gli articoli che affermano che la Turchia è uno Stato laico. In pratica l’esplicitazione di quel percorso “morbido” verso uno stato assoluto che veda in Erdogan il moderno sultano o “nuovo califfo dei fedeli”, o ancora entrambe allo stesso tempo. In questo ambito avverrebbe anche la revisione del ruolo della Corte Costituzionale (colpevole di essersi sempre opposta alla deriva religiosa del Paese, con successo fino a che ha potuto godere del sostegno dei vertici dell’esercito), eliminando la divisione dei poteri, con il pretesto che “la burocrazia e la magistratura talvolta hanno impedito o rallentato il lavoro del governo”. Che questa sia la reale intenzione di Edogan lo si evince anche dal desiderio del Primo ministro di rendere la sharia islamica l’unica fonte di diritto E si capisce anche la progressiva rimozione dei vecchi generali, sostituiti con nuovi quadri più inclini ad assecondare i voleri del governo. Sia però ben chiaro a tutti un elemento non contestabile: i vertici militari non potevano essere cambiati senza l’avallo degli Stati Uniti, visto che la Turchia è una pedina fondamentale della Nato. Proprio su questa alleanza fra partiti religiosi ed esercito si gioca infatti la partita del futuro Medio oriente, e in questo – secondo Obama -la Turchia può divenire l’esempio da seguire per la costruzione del “nuovo Medio Oriente”. 

A questo punto potrebbe venire naturale la domanda: quale è in tutto ciò l’interesse degli Usa? Nulla di più semplice. La realizzazione di questo progetto è la base per quella stabilità nell’area che è precondizione per nuovi investimenti speculativi da parte della finanza statunitense e soprattutto per mettere le mani sulle risorse energetiche che in gran quantità passano da questa regione e che fanno gola anche ai russi e ai cinesi. Sono queste le ragioni dell’intensa attività delle potenze capitalistiche in Turchia a partire dagli investimenti che sono affluiti, soprattutto dopo il 2007. La Turchia ha ricevuto nel corso degli ultimi cinque anni più di 55 miliardi di dollari. A questa pioggia di denaro poi si devono aggiungere le attività dei Paesi del Golfo .(in particolare l’Arabia Saudita e Qatar) che hanno fatto il resto, rendendo i legami finanziari e militari più forti tra il Golfo e la Turchia, e fra questi e gli Stati Uniti. Il tutto sancito dal recente ” Trattato di Istanbul “, in merito alla sicurezza nella regione.

Questi investimenti, sia arabi che occidentali, hanno permesso al “Partito della giustizia e dello sviluppo”, di poter essere considerato l’artefice del “miracolo economico” che a sua volta ha ampliato a dismisura il consenso permettendogli di prendere e conservare il potere due volte. Non è infatti un caso se dopo la crisi del 2001 la Turchia è riuscita a risollevarsi, abbattendo l’inflazione e soprattutto mettendo in fila numeri di aumento di Pil da far invidiare mezzo mondo: oggi il paese è classificato come la 16° economia mondiale ed è considerato uno dei mercati più promettenti.

Torniamo però al ruolo della Turchia sulla regione, ovvero al cuore del secondo messaggio di Obama strettamente collegato al primo. La formula attraverso la quale si intende controllare e pacificare la regione è una sorta di resurrezione del vecchio impero Ottomano: rivisto in chiave moderna attraverso una generalizzazione del sistema politico turco (islam sunnita moderato, del tutto compatibile con le regole del “mercato”) e una speculazione sulla questione palestinese che fa di Istanbul (che tende sempre di più a divenire la vera capitale) il “padre buono” degli arabi. Con questo spirito si comprende sia la dura reazione dopo l’atto di pirateria da parte di Israele contro la nave Mari Marmara diretta a Gaza, ma anche la recentissima svolta, imposta da Obama nel suo recente viaggio in Medio Oriente, sia al leader di Israele che a Erdogan, quando il governo di Tel Aviv si è scusato con Erdogan, e quest’ultimo ha dichiarato che le relazioni diplomatiche e militari sarebbe tornato alla normalità tra i due paesi. Uno dei pochissimi risultati portati a casa dall’amministrazione americana, che aveva assoluta necessità di porre un freno alle recenti prese di posizione di Putin e della Russia in senso espansionista nella regione. Inutile infatti sottolineare l’importanza del fattore economico e militare e della situazione geo-strategica della Turchia, in chiave anti russa ad iniziare proprio dagli interessi che Mosca ha in Siria e in Iran. Una influenza sancita anche ufficialmente dopo il vertice Nato di Lisbona che aveva allargato il già “grande” Medioriente fino ad oltrepassare l’Afghanistan per arrivare quasi ai confini della Cina. E quest’ultimo infatti – non scordiamocelo mai – il vero competitor degli Usa nel futuro più o meno prossimo. A conferma di queste analisi c’è anche quanto accaduto nei mesi scorsi dopo il sequestro di alcuni militari delle truppe britanniche e francesi sul suolo libico. Erdogan ha prontamente visitato questo paese, oltre a Egitto e Tunisia, per proporre ai suoi amici, i Fratelli Musulmani, di accettare la collaborazione dei suoi “servizi”, sia economicamente che militarmente.

Arriviamo così al ruolo della Turchia sulla Siria. E’ di immediata percezione che gli ultimi avvenimenti portano tutti il timbro di Ankara: sia attraverso la creazione del nuovo governo (sicuramente uno sviluppo qualitativo della crisi) che la concessione delle armi strategiche all’opposizione in questo paese. L’obiettivo di Erdogan sembra essere la divisione in due della Siria, in modo da mettere a tacere l’unico stato dell’area che potrebbe fare ombra al suo ego. Obiettivo che oltre a non dispiacere ad Israele, potrebbe trovare consensi anche in Libano, Giordania oltre naturalmente che oltreoceano. Gli Usa infatti in questi mesi non hanno mai voluto premere l’acceleratore contro Bashar el Assad perché – anche se non lo ammetteranno mai -hanno goduto di questa situazione di drammatica instabilità che nello stesso tempo metteva in ginocchio il governo di Damasco e rendeva ricattabili e quindi deboli i ribelli islamici. Il tentativo quindi è quello di riprodurre lo schema messo in atto durante la crisi irachena, quando giocando sulle divisioni la Turchia ha potuto strappare a condizioni favorevolissime contratti petroliferi dai territori del Kurdistan. Una notizia solo apparentemente estranea ai discorsi fin’ora fatti: recentemente proprio nelle zone di confine fra la Siria e la Turchia sono state scoperte delle ingenti quantità di gas.

Si spiegano così anche recenti decisioni, dalle nuove posizioni assunte nei confronti di una cessazione delle ostilità con il Pkk (per la prima volta “possibilista”, seppur accompagnato con un inasprimento verso i sostenitori e gli internazionali filo curdi, vedi i recenti respingimenti) e la nomina di Ghassan Hitou (sotto la supervisione di Washington) a presiedere il governo siriano in esilio. Erdogan deve infatti chiudere le partite in sospeso sul fronte interno che oltre a distogliere risorse ne offuscano l’immagine, senza però concedere nulla agli oppositori, per potersi dedicare mani e piedi al cambio di struttura statuale (per trasformare la Costituzione gli mancano una decina di voti in Parlamento) e quindi potersi dedicare alle cose serie: ricostruire l’impero Ottomano. Un programma quasi perfetto, che però potrebbe essere messo in discussione proprio dai cittadini turchi.