Guerra alla Jugoslavia, quindici anni dopo

di Gianmarco Pisa, RESeT Ricerca, area Volontariato e Terzo Settore

Conferenza Internazionale “Pace globale contro Interventismo globale ed Imperialismo”

Belgrado: 21-23 Marzo 2014

jugoslavia militariA 15 anni dalla guerra alla Jugoslavia, un Forum Internazionale denuncia le mire dell’imperialismo e condanna il lavorio del revisionismo che, proprio nel centenario della Grande Guerra, ancora nei Balcani, minaccia la ricerca ed il lavoro per la pace.

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La Conferenza Internazionale dal titolo “Pace globale contro Interventismo globale ed Imperialismo”, organizzata dal Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali ed intercettata dal percorso di implementazione del progetto P.U.L.S.A.R. (Project on Understanding and Linkages to Serbs and Albanians Reconcile) degli “Operatori di Pace” Campania, in occasione del quindicesimo anniversario della guerra imperialistica della NATO contro la Repubblica Federativa di Jugoslavia del 1999, ha avuto luogo dal 21 al 23 Marzo scorsi, presso il Centro Congressi “Sava” di Belgrado, accompagnata da una, estremamente importante, accurata ed esemplificativa, mostra fotografica ed iconico-testuale, finalizzata, attraverso testi, carte, documenti e numerose fotografie originali, a testimoniare le terribili conseguenze umanitarie, economiche ed ambientali dei 78 giorni di bombardamenti della NATO.


Con il pretesto di un intervento “umanitario” per fermare un presunto “genocidio” in Kosovo, le azioni della NATO, intervenute senza mandato internazionale, completamente al di fuori della Carta delle Nazioni Unite e contro tutti i più elementari e basilari principi di diritto, legalità e giustizia, hanno ucciso e ferito migliaia di persone e distrutto e devastato una quantità impressionante di infrastrutture civili. I danni di guerra sono stimati in oltre 120 miliardi di dollari e il generale statunitense Wesley Clark conferma pubblicamente l’intenzione, attraverso i bombardamenti, di «riportare indietro la Serbia di cinquanta anni». Le compensazioni per i danni di guerra non sono ancora state reclamate, sebbene vi siano le condizioni giuridiche e formali per poter innescare tale procedura, e le sentenze emesse dai tribunali serbi, dalle quali risultano condanne, per i capi di Stato e di Governo dei Paesi aggressori, per crimini contro la pace e contro l’umanità, sono state annullate dopo il regime change del 5 Ottobre 2000. Tra i crimini più efferati, ricordati dalle cronache del tempo ma rapidamente passati sotto silenzio, l’attacco ad un convoglio di albanesi del Kosovo, per il quale, in un primo momento, la NATO aveva cercato di attribuire la responsabilità alle forze jugoslave, che ha provocato la morte di 73 persone, il bombardamento di un treno passeggeri, che ha ucciso 15 persone, il bombardamento contro la sede della televisione serba a Belgrado, che ha causato la morte di altre 16 persone, per non parlare dei bombardamenti e delle devastazioni in città quali Novi Sad, a Nord, e Niš, a Sud. Le foto, spesso strazianti, della mostra, sono testimonianza vivida del carattere “umanitario” di questa guerra.

Come è stato sottolineato, in maniera concorde e partecipativa, durante tutti i tre giorni di impegno della Conferenza, da parte delle decine di relatori coinvolti e le centinaia di partecipanti, la guerra contro la Jugoslavia non ha costituito un conflitto isolato, ma un precedente e un paradigma, la prima di una serie di guerre imperialistiche di nuova generazione, guidate dagli Stati Uniti, insieme ad alleanze politiche e militari a “geometria variabile” e ad egemonia NATO, fuori o, comunque, a prescindere dal mandato dell’ONU e dal rispetto della Carta delle Nazioni Unite, per la conferma del primato economico e del dominio militare degli Stati Uniti nel nuovo “mondo multipolare”. Tale piano strategico, variamente declinato nelle sue versioni hard alla Bush o soft alla Obama, rappresenta il volto attuale dell’imperialismo statunitense e dei propri alleati atlantici, e continua, pur tra difficoltà e battute d’arresto, sino ai giorni nostri, come dimostrano le destabilizzazioni, i cambi di regime e i golpe dolci innescati da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, ad esempio in Ucraina e in Venezuela.

Dopo l’impegnativa tre-giorni, il documento finale della Conferenza Internazionale, il cui testo completo è online (beoforum.rs/en/all-activities-of-belgrade-forum-for-the-world-of-equals/63-nato-aggression-15-years-after/356-final-document.html), ha rimarcato, in particolare, i seguenti dieci punti salienti:

1) L’aggressione della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia è stata una guerra imposta contro uno Stato europeo, libero, indipendente e sovrano, in palese violazione dei principi basilari del diritto e della legalità internazionale, senza alcun mandato internazionale e contro la Carta dell’ONU. 

2) Considerato che l’aggressione alla Jugoslavia è stata un crimine contro la pace e contro l’umanità e una grave violazione del diritto internazionale e della legalità internazionale, la Serbia ha il diritto di avviare un procedimento formale contro gli Stati Membri della NATO partecipanti alle azioni teso al pagamento dei danni di guerra alla Serbia ed al Montenegro ed alle persone vittime dell’aggressione.

3) La guerra contro la Jugoslavia è stato un punto di svolta, premessa e paradigma, di un piano di interventismo globale, di pratica politica di violazione dell’ordinamento giuridico internazionale, e di negazione del ruolo delle Nazioni Unite e, successivamente, è stata utilizzata come un modello di “interventismo imperialista” in una serie di altri casi come Afghanistan, Iraq, Libia, Mali e altrove.

4) Tutti i partecipanti, in considerazione ed in coerenza con le premesse sin qui delineate, hanno espresso pieno sostegno alla sovranità e all’integrità della Serbia, in linea con la risoluzione 1244/1999.

5) I partecipanti hanno salutato la decisione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che ha proclamato il 2014 “Anno Internazionale di Solidarietà con il Popolo della Palestina”. Hanno inoltre denunciato i piani e le azioni volte a destabilizzare, attraverso il golpe suave e la campagna inter-nazionale di infiltrazione e di disinformazione, la Repubblica Bolivariana del Venezuela e hanno espresso la loro solidarietà con il popolo venezuelano e il loro supporto ai suoi sforzi per preservare la libertà, la dignità e la sovranità del Venezuela Bolivariano e di decidere autonomamente il proprio futuro. I partecipanti hanno inoltre espresso soddisfazione in merito allo svolgimento del referendum popolare di auto-determinazione in Crimea, volto alla auto-determinazione e alla confederazione con la Federazione Russa, condannando altresì il rovesciamento violento del governo legittimo ucraino, attraverso un’insurrezione condizionata ed egemonizzata da formazioni fasciste e perfino neo-naziste. 

6) I partecipanti hanno condannato la riabilitazione, promossa da alcuni settori al governo di Paesi occidentali, del fascismo ed i conseguenti tentativi di equiparare il comunismo con il nazismo ed hanno, allo stesso modo, condannato i tentativi, sia attraverso pubblicazioni e campagne di stampa, sia attraverso eventi e rassegne internazionali, di vero e proprio revisionismo storico, intorno a cause e responsabilità sia della prima (di cui ricorre quest’anno il centenario) sia della seconda guerra mondiale. 

7) I partecipanti hanno riflettuto inoltre sulla crisi del capitalismo globale, che ha portato non solo ad una stratificazione sociale senza precedenti e ad un impoverimento generale di massa di portata impressionante, ma anche ad una crisi del debito artificialmente imposta. La Conferenza ha quindi espresso il suo pieno sostegno alle proteste popolari contro le politiche imposte per affrontare la crisi.

8) La crisi economica globale, peraltro, non può essere risolta con modifiche improvvisate del sistema stesso, ma solo abbandonando il concetto e il principio neo-liberista e sviluppando un nuovo sistema umano di giustizia sociale, di uguaglianza e di benessere per tutti i popoli e le nazioni del pianeta.

9) La Conferenza ha inoltre dichiarato che solo un mondo libero dal predominio dell’imperialismo, dell’interventismo e del militarismo avrà la possibilità di evitare la catastrofe della guerra mondiale.

10) E’ quindi inaccettabile, oltreché contrario al diritto internazionale, che organizzazioni regionali di potenza, come la NATO e l’UE, si affermino come sostituti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

A conclusione della tre-giorni, l’ex Ministro degli Esteri della Jugoslavia e Presidente del Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali, Zivadin Jovanovic, ha ricordato che l’aggressione della NATO è ormai non più e non solo limitata ai Balcani, ma sta concretamente diventando strategia globale. È in corso una “terza guerra mondiale di fatto”, combattuta da coloro che hanno interesse alla lotta contro l’uguaglianza e l’amicizia dei popoli e contro la cooperazione ed il multilateralismo globale. Contro la globalizzazione della guerra, è dunque sempre più urgente lottare per la globalizzazione della pace.

Molto interessanti, nella tre-giorni di confronto e di dibattito, alcuni interventi, tra quelli che hanno maggiormente messo in rilievo i due temi-chiave della Conferenza, vale a dire la guerra alla Jugoslavia come paradigma della guerra imperialistica per il regime change dei tempi moderni (nelle sue varie e diverse declinazioni di guerra etno-politica, golpe strisciante, piano di de-stabilizzazione, campagne tese alla disinformazione ed al revisionismo) e il nesso diritto-giustizia come architrave del sistema di sicurezza collettiva e per un mondo multipolare. Secondo Roland Weyl, membro fondatore (nel 1946) ed attuale vice-presidente della Association Internationale des Juristes Démocrates – AIJD (Associazione Internazionale dei Giuristi Democratici), la guerra in Jugoslavia è stata la prima aggressione al diritto internazionale, dal momento che la legge internazionale non esiste senza la vigenza di principi condivisi e senza la forza di una legge comune che sia valida per tutti e sia fatta valere per tutti. In questo senso, riveste una importanza fondamentale la Carta delle Nazioni Unite, specie nel Preambolo (sancisce l’impegno istituzionale delle Nazioni Unite «a praticare la tolleranza e a vivere in pace… in rapporti di buon vicinato; a unire le forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale; ad assicurare, mediante l’accettazione di principi e l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sia usata, salvo che nell’interesse comune; a impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico-sociale di tutti i popoli»), l’art. 2 c. 4 («I Paesi Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite») e l’art. 2 c. 7 («Nessuna disposizione dello Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i Paesi Membri a sottoporre tali questioni a procedura di regolamento in applicazione dello Statuto»).

Il diritto internazionale si trova oggi ad affrontare tutte le contraddizioni legate alle ambiguità e alle criticità delle Nazioni Unite. Ad esempio, in Libia, è stata una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a violare esplicitamente la Carta delle Nazioni Unite, in particolare laddove al capo 4: «Autorizza gli Stati Membri, che ne abbiano informato il Segretario Generale, che agiscano su iniziativa nazionale o attraverso organizzazioni o accordi regionali, operando in collaborazione con il Segretario Generale, a prendere tutte le misure necessarie, anche in deroga al paragrafo 9 della risoluzione 1970 (2011), per proteggere i civili e le aree a popolazione civile minacciate di attacco nella Jamahiriya Araba di Libia, escludendo una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma e su qualsiasi parte del territorio libico, …e richiede agli Stati Membri interessati di informare il Segretario Generale sulle misure che prendono, in base all’autorizzazione conferita con questo paragrafo, le quali saranno comunicate al Consiglio di Sicurezza» (Risoluzione 1973/2011, adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 17 Marzo 2011). Ciò significa che, da una parte, è stato concesso un mandato in bianco agli Stati interessati all’intervento armato, ben al di là ed in larga misura contro i fini istituzionali specifici delle Nazioni Unite, come richiamati all’interno della Carta dell’ONU e, d’altra parte, le Nazioni Unite stesse sono state di fatto estromesse, assumendo un ruolo del tutto marginale, funzionale e strumentale agli obiettivi geo-politici e strategici delle potenze mondiali. 

La vicenda libica ha rappresentato il punto di arrivo di una degenerazione della applicazione pratica degli strumenti del diritto internazionale, che non risale a tempi recenti, come dimostrano i casi della guerra contro la Jugoslavia, l’applicazione di una “coalizione dei volenterosi” e “alleanze occasionali” o a “geometria variabile” nella guerra in Afghanistan, e le stesse continue violazioni delle risoluzioni delle Nazioni Unite da parte dello Stato di Israele. Tra tutti questi casi, in particolare, la guerra contro la Jugoslavia ha violato proprio, specificamente, l’art. 2 c. 4 della Carta delle Nazioni Unite, dal momento che quella guerra non solo si è svolta al di fuori di un mandato formale e quindi dei fini istituzionali delle Nazioni Unite, ma ha anche violato l’integrità territoriale di un Paese Membro delle Nazioni Unite. A tutto questo occorre aggiungere che l’intervento militare atlantico ha fatto strage di migliaia di civili innocenti e ha sacrificato i diritti più elementari di decine di migliaia di altre persone. 

Basti ricordare che, nel corso di oltre diecimila missioni d’attacco, da parte di oltre mille aerei alleati e con l’uso di oltre 23 mila ordigni esplosivi, tra missili, bombe e proiettili di vario tipo, la NATO ha distrutto le strutture civili e produttive del Paese, commettendo l’ulteriore crimine internazionale di colpire militarmente infrastrutture civili e perfino edifici adibiti a funzioni sociali. La Serbia è stata sottoposta per 78 giorni a bombardamenti continuativi da parte di aerei sottratti alla difesa contraerea e capaci di moltiplicare gli effetti e i danni collaterali sul terreno, che furono devastanti e che avranno ripercussioni nel corso del tempo e delle generazioni, soprattutto a causa dell’ecocidio provocato, del bombardamento di fabbriche e depositi chimici, dell’uso accertato di munizioni all’uranio impoverito.

La NATO (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico Settentrionale), artefice e responsabile dei crimini e delle devastazioni compiuti in Jugoslavia – e non solo – è un’organizzazione politico-militare di carattere regionale che non rispetta le prescrizioni previste dal diritto internazionale per le organizzazioni regionali ed è, di conseguenza, sostanzialmente al di fuori del diritto internazionale. Infatti, l’art. 53 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che il Consiglio di Sicurezza può utilizzare «gli accordi e le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione» ma poi aggiunge che «nessuna azione coercitiva può essere intrapresa in base ad accordi regionali senza autorizzazione del Consiglio di Sicurezza». Inoltre, l’art. 51 riconosce agli Stati l’esercizio del “diritto di auto-tutela individuale o collettiva” esclusivamente per difendersi contro un “attacco armato” e «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza inter-nazionale». Dal “combinato disposto” degli articoli 51 e 53 consegue dunque che tali organizzazioni (in particolare la NATO) possono eventualmente agire contro uno Stato solo con l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza; ma, senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, possono assumere una iniziativa solo nel caso di risposta ad un attacco armato effettivo e concretamente posto in essere. Anche l’art. 4 del Trattato supporta implicitamente la tesi della totale illegittimità della configurazione NATO («Le parti si consultano quando, secondo il giudizio di una di esse, ritengano che l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una di esse siano minacciate», art. 4 del Trattato dell’Atlantico Settentrionale). È bene ricordare che la NATO ha modificato di fatto il proprio statuto formale, assumendo un profilo aggressivo (assertivo) e intervenendo sempre più al di fuori della propria sfera regionale, come hanno mostrato gli eventi in Afghanistan, Iraq e Libia, ed in Jugoslavia.

Un discorso specifico merita la condotta internazionale degli Stati Uniti d’America, i quali hanno esteso, sin dall’intervento unilaterale contro il legittimo Governo Arbenz in Guatemala (1954), la portata del concetto di “intervento domestico” fino a “legittimare” di fatto qualsiasi intervento unilaterale o multilaterale internazionale, dietro la “giustificazione” della minaccia (reale o presunta) ai propri interessi nazionali. Basti ricordare, per linee generali, quanto accaduto proprio in Guatemala: il presidente Eisenhower era d’accordo sul fatto che il governo progressista, legittimamente eletto, di Arbenz dovesse capitolare e Allen Dulles incaricò la CIA di organizzare un colpo di stato politico-militare. La CIA, a propria volta, addestrò ed armò un esercito di ribelli e ne trovò il leader in Carlos Castillo Armas. L’incaricato della CIA era Howard Hunt che, in questi termini, ricapitolò il golpe guatemalteco: «Volevamo fare una campagna terroristica, in particolare per terrorizzare Arbenz e le sue truppe, come i bombardieri Stukas terrorizzavano la popolazione civile bombardando l’Olanda, il Belgio e la Polonia all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Riuscivamo così a paralizzare la gente con il terrore». È appena il caso di sottolineare le analogie con le strategie golpiste, eversive e di destabilizzazione applicate dagli Stati Uniti anche in seguito: ultimo, in ordine di tempo, il Venezuela Bolivariano, il cui governo progressista è alle prese, sin dalla fine del 2013, con un c. d. golpe suave.

Ecco perché è più che mai opportuno ribadire con forza che non vi è alternativa al potere dei popoli e all’esigenza che i popoli stessi “prendano in mano” le Nazioni Unite, diventando, al tempo stesso, attori e protagonisti della sicurezza collettiva. Si tratta di imporre all’agenda politica alcuni compiti: 

a) la riforma delle Nazioni Unite; 

b) l’introduzione della cosiddetta organizzazione economica e finanziaria nella dinamica di “sicurezza collettiva”, essendo sempre più stretto il nesso tra manipolazione economica e sicurezza nazionale; 

c) l’applicazione di strumenti di auto-determinazione, di autonomia e di indipendenza effettivi per tutti i popoli del mondo, allo scopo di dare sostanza ai principi generali enunciati nella Carta dell’ONU. 

La legge internazionale, infatti, non esiste se non nella misura in cui viene costantemente applicata, sperimentata e praticata. Ecco perché i popoli devono prendere in mano le Nazioni Unite, al fine di coniugare, finalmente, legge, diritto e giustizia, in particolare nel delicato ambito internazionale. La coniugazione della legge, del diritto e della giustizia può avvenire solo sulla base dei principi (a partire da quelli sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite: sovranità, auto-determinazione, libertà dei popoli, non ingerenza, pace e sicurezza collettiva) e della pratica (la fine della giustizia internazionale è la politica del “doppio standard”, ampiamente praticata dalla NATO, come dimostrano numerosi casi concreti, da quello storico del Kosovo del 1999 a quello più recente della Crimea di questo 2014). 

A tal proposito, degno di nota e di acuto interesse, l’intervento di Vladimir Kozin (leading researcher presso l’Istituto di Studi Strategici della Federazione Russa), secondo il quale, a proposito, ancora, delle eredità della guerra contro la Jugoslavia e del paragone con l’attuale crisi in Ucraina e, in particolare, con la situazione in Crimea ed il parallelo tra la Crimea e il Kosovo, è necessario studiare la configurazione del problema e mettere in luce i tratti caratteristici della situazione locale specifica:

a) l’indipendenza del Kosovo è stata dichiarata e proclamata (17 Febbraio 2008) dopo una lunga transizione che ha fatto seguito ad un bombardamento e ad una aggressione internazionale, al di fuori del diritto e della legalità internazionale; mentre l’auto-determinazione di Crimea, sancita da referendum popolare (16 Marzo 2014), non ha fatto seguito ad alcuna guerra né ad alcuna aggressione militare; 

b) in Kosovo si sono registrati una catastrofe umanitaria ed un esodo con centinaia di migliaia di profughi e sfollati, che ha portato, tra le altre cose, ad un consistente sbilanciamento etnico della popolazione; mentre in Crimea non si è registrato nulla di tutto questo e nessuna alterazione etnica; 

c) in Kosovo l’indipendenza è avvenuta in forza di una dichiarazione unilaterale pilotata o, almeno, ampiamente condizionata, da forze e soggetti internazionali, tra l’altro da tempo attivi ed operanti, sia con funzioni civili, sia con funzioni militari, sul territorio stesso del Kosovo; mentre in Crimea vi è stato un referendum popolare, indetto dal parlamento locale, dotato di una propria autonomia anche nel quadro del regime precedente, con il consenso popolare ed una ampia partecipazione elettorale. 

D’altro canto, è possibile considerare l’evoluzione della situazione in Crimea come la conseguenza di un colpo di stato formalmente illegittimo, che ha deposto il presidente legittimamente eletto nelle precedenti elezioni presidenziali (a prescindere a tal riguardo dal giudizio di merito e dalla valutazione politica del suo operato), e che ha fatto seguito ad una mobilitazione, anche armata, di piazza, a sua volta sostenuta da un’azione internazionale di destabilizzazione. Tale azione, peraltro, è venuta ad evidenza all’indomani delle iniziative intraprese, non solo dalla Unione Europea, ma, al suo interno, in particolare, dalla Germania e dalla Polonia. È necessario, dunque, porre la dovuta attenzione ai condizionamenti e alle ingerenze che hanno profondamente alterato e destabilizzato il quadro politico ucraino e determinato in ampia misura l’evoluzione e la degenerazione della protesta di Euro-Majdan. 

Uno dei leader del golpe, con la sua “Alleanza Democratica Ucraina” (“Udar”, che tra l’altro, in russo, significa “Colpo”), è stato il pugile Vitalij Klitschko, sostenuto ufficialmente dalla CDU di Angela Merkel. Aleksander Kwasniewski, membro della Commissione di Monitoraggio del Parlamento Europeo ed ex Presidente della Polonia, ha apertamente consigliato ai manifestanti di aumentare la pressione sulle autorità ucraine. I Ministri degli Esteri di Polonia (Radoslav Sikorski) e Svezia (Carl Bildt), in una dichiarazione congiunta, hanno espresso piena solidarietà ai manifestanti anti-governativi. Il Ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha compiuto una missione a Kiev per incontrare i capi dell’opposizione ucraina, prima di unirsi ai manifestanti anti-governativi in Piazza Indipendenza. Il leader del partito conservatore ed ultra-nazionalista polacco di “Legge e Giustizia” nonché ex premier, Jaroslaw Kaczynski, ha, non diversamente, preso parte attiva alle manifestazioni di Kiev.

Inoltre, Germania, Stati Uniti ed Unione Europa stanno apertamente sostenendo non solo il partito di opposizione tradizionale “Patria” di Julja Tymoshenko, ma anche “Pravij Sektor”, esplicitamente schierato su posizioni neo-naziste, il cui leader, Dimitri Jarosh, è candidato alle prossime elezioni presidenziali. È bene richiamare alcuni tra i protagonisti del golpe ucraino, i neo-fascisti di “Svoboda” (la cui precedente denominazione è stata quella di “Partito Nazionalsocialista di Ucraina”), i neo-nazisti di “Pravij Sektor” (“Settore di Destra”), le milizie di “Trbuz” (“Tridente”) e “Una-Unso” (“Assemblea Nazionale Ucraina – Autodifesa del Popolo Ucraino”), tutte assolutamente anti-semite, anti-russe e xenofobe, che non hanno esitato ad esporre le effigi di Stepan Bandera, il nazista sterminatore di ebrei, comunisti, russi e polacchi che governò l’Ucraina sotto l’occupazione hitleriana. Queste forze – fasciste e neo-fasciste – esprimono numerosi ministri nel nuovo governo ucraino di transizione. Hanno imposto l’eliminazione del russo come lingua ufficiale, scatenando la reazione in tutta l’Ucraina sud-orientale a maggioranza russa, memore dei programmi di Svoboda e Pravij Sektor che prevedono il carcere per chi anche solo si dichiari a favore dell’aborto, il divieto di proclamarsi “comunisti”, l’indicazione sui passaporti dell’appartenenza etnica e religiosa, la creazione di un arsenale nucleare nazionale, l’entrata nell’Unione Europea (richiesta da Svoboda, osteggiata dai nazisti di Pravij Sektor e da altri gruppi neo-nazisti) e nella NATO, esclusivamente in funzione anti-russa.

Come accennato, i neo-fascisti di Svoboda esprimono il vice-premier (Oleksandr Sych) e quattro ministri: Difesa (Igor Tenjukh), Ambiente (Andriy Mokhnik), Agricoltura (Igor Shvajka), Istruzione (Sergej Kvit). È tra i leader di Svoboda anche Andriy Parubiy, Segretario del Consiglio Nazionale di Sicurezza e Difesa, che controlla la polizia e le forze armate. Dmitriy Jarosh, il capo dei neo-nazisti di Pravij Sektor, è il vice-segretario del Consiglio Nazionale di Sicurezza e Difesa ed è candidato a Presidente della Repubblica. Infine, un neo-fascista di Una-Unso (Dmitry Bulatov) è Ministro della Gioventù e dello Sport. Nondimeno, Procuratore Generale è stato nominato Oleg Makhnitskiy, di Svoboda, e Presidente della Commissione Nazionale Anticorruzione è Tatyana Chornovol, di Una-Unso. Come riferito dal Ministero degli Esteri della Federazione Russa, le nuove “autorità” ucraine hanno già avanzato proposte tese a legittimare Pravij Sektor per farne una struttura militare ufficiale.

Ritenere che l’Italia sia estranea a questo scenario globale, o non porti responsabilità specifiche nel vortice di guerra in cui l’interventismo atlantico sta precipitando il mondo, è ingenuo ed aleatorio. Come ricordato da Stojan Spetić (già Senatore della Repubblica, oggi impegnato nel Forum contro la Guerra – Italia), la politica europea ha imposto integrazione in Europa Occidentale e disintegrazione in Europa Orientale; a sua volta, la fine della Guerra Fredda, pur accompagnata da speranze di “dividendi di pace e di democrazia”, è all’origine di una nuova stagione di imperialismo globale. È appena il caso di ricordare qui che il 2014 è un anno di ricorrenze e di memorie, ricorrendovi non solo il centenario della “inutile strage”, la Prima Guerra Mondiale, ma anche il ventennale dell’assedio di Sarajevo, della Guerra di Bosnia, del Genocidio in Ruanda, e il quindicinale della Guerra del Kosovo.

In tale contesto, l’aggressione atlantica e, in particolare, europea, contro la Jugoslavia si sta riversando oggi all’interno dei confini stessi dell’Europa e, in particolare, dell’Unione Europea, sia perché la frammentazione e la disintegrazione si stanno avvicinando all’ingresso ufficiale nell’Unione Europea, sia perché l’Unione Europea sta oggi aggredendo, con i mezzi di una vera e propria guerra economica e finanziaria, i suoi stessi Stati Membri, a partire dai c.d. PIGS e in particolare la Grecia. Nessuno può arrogarsi il diritto di sindacare sulla sovranità, la libertà e la territorialità di Stati e di regioni e, in particolare, di regioni negli Stati, pena precipitare, inevitabilmente, nell’insopportabile politica del “doppio standard”, per la quale si sono fatti gli esempi della Crimea e del Kosovo ma per la quale si potrebbe pure obiettare – perché ciò che è valso per il Kosovo non possa valere anche per il Sud Tirolo.

I problemi, in particolare quelli di carattere internazionale, possono essere risolti, in linea con lo spirito delle Nazioni Unite, solo con il dialogo, la cooperazione ed il mutualismo internazionale, e mai con la forza, l’aggressione o la violenza. Le cosiddette “coalizioni dei volenterosi” non devono promuovere iniziative di guerra ma di dialogo. Non sempre, da questo punto di vista, l’Italia ha giocato un ruolo positivo, e, in particolare, nel caso della Jugoslavia e del Kosovo, è stata nella prima linea di guerra e ha tradito le aspettative di pace di ampia parte della sua stessa popolazione. La partecipazione all’intervento armato senza mandato legittimo non imbarazzò il governo italiano e rappresentò un tradimento delle speranze di pace del popolo. A titolo di esempio, basti ricordare l’intervento al Senato del vice-presidente del Consiglio, Sergio Mattarella: «Sappiamo tutti che l’ONU non ha autorizzato un intervento armato in Kosovo. È anche a tutti nota la ragione per cui ciò non avviene: la ferma opposizione di Paesi con diritto di veto in Consiglio di Sicurezza». Con una singolare interpretazione, ciò non costituiva, secondo il governo, una circostanza ostativa, bensì l’occasione per invocare «una riforma del Consiglio di Sicurezza che lo renda più democratico e più rappresentativo, ponendo le premesse per un superamento del diritto di veto». Quindi, la mozione di maggioranza alla Camera, più che approvare la partecipazione italiana all’intervento armato, fu improntata all’intento di promuovere o assecondare ogni iniziativa utile a porvi fine per “riprendere i negoziati e sospendere i bombardamenti”. Toccò al premier, Massimo D’Alema, dopo avere assicurato che un canale per la ripresa delle trattative dovesse restare aperto, ribadire che: «Ciò non ha nulla a che fare con uno strappo alle nostre responsabilità o con il venire meno di un atteggiamento di solidarietà verso i nostri alleati».

In conclusione, come segnalato (www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o43019) anche in uno dei più recenti documenti di elaborazione, maturati nell’ambito della rete nazionale contro la guerra e per la pace (Rete Nowar Napoli): «La vicenda ucraina rappresenta l’anello più recente di una catena di avvenimenti della politica internazionale in direzione di una crescente conflittualità tra le principali potenze mondiali, la cui evoluzione dovrebbe far scattare più di un campanello di allarme tra gli attivisti per la pace e contro la guerra. La competizione non si svolge più solo con gli strumenti della finanza o della diplomazia ma sempre più spesso attraverso l’uso delle armi e l’esercizio della guerra. Inviate ai propri alleati locali nei Paesi che si intende destabilizzare o usate direttamente dai propri eserciti di occupazione o aggressione, lo svolgimento della contrapposizione dipende dai rapporti di forza e da valutazioni di opportunità. I rumori di guerra si avvicinano in maniera crescente al centro dell’area europea, ma ciò non sembra ridare vitalità a quel movimento per la pace e contro la guerra che, di fronte all’aggressione all’Iraq del 2003, portò in piazza milioni di persone per denunciare la guerra. Siamo entrati in una fase in cui il confronto tra le potenze non può rimanere più confinato in aree limitate, bensì è destinato a sfociare in uno scontro a tutto campo in cui si accumulano condizioni per un conflitto – tendenzialmente mondiale – generalizzato, che solo una opposizione radicale, in tutti i Paesi coinvolti, può arrestare. È necessario ritrovare le motivazioni per una opposizione “senza se e senza ma” ai crescenti e minacciosi interventi militari comunque vengano giustificati e mascherati».

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Link:

1. Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia: www.cnj.it
2. Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali: www.beoforum.rs/en
3. Novi Plamen Rivista: www.noviplamen.org
4. Centro di Cultura e Documentazione Popolare: www.resistenze.org
5. Il Pane e le Rose: classe capitale partito: www.pane-rose.it
6. Mnemosyne: Centro Tutela Patrimonio Culturale, www.mnemosyne.org.rs/index.php/en.html
7. Redazione Sibialiria: www.sibialiria.org
8. Centro Studi “Sereno Regis”: www.serenoregis.org
9. Pressenza International Press Agency: www.pressenza.com/it
10. Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Rete CCP: www.reteccp.org