L’apocalittico Martin Schulz, il Dollaro risorto e l’Euro da liquidare

di Domenico Moro per Marx21.it

Martin-SchulzSull’inserto domenicale del Sole24ore del 16 febbraio è apparso un articolo di Martin Schultz sull’euro e sull’Europa, tratto da un suo libro recentemente tradotto in Italia. Schultz è uno dei massimi dirigenti socialdemocratici tedeschi ed è stato presidente del gruppo al Parlamento europeo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, emanazione del Partito socialista europeo (Pse). Alle prossime elezioni europee sarà il candidato presidente della Commissione europea del Pse, al quale il Pd di Renzi ha chiesto di aderire a pieno titolo.

Secondo quanto dice Schultz nell’articolo in questione, siamo arrivati ad un bivio: o si prosegue con l’integrazione europea o si imbocca la strada della rinazionalizzazione ovvero dell’abbandono dell’Unione Europea. Schultz vede quest’ultima prospettiva come fumo negli occhi. In primo luogo, si tratterebbe di una prospettiva antistorica, in quanto “Nessuno Stato si può sottrarre alla storia mondiale”.

Per storia mondiale Schultz intende la globalizzazione ed i suoi processi. In secondo luogo, il socialdemocratico tedesco ritiene che i Paesi fuori dalla Ue e dall’euro non se la passino meglio di quelli che stanno all’interno. L’esempio su cui si sofferma è quello della Gran Bretagna, che “Pur non avendo introdotto l’euro né approvato il Fiscal compact, versa in difficoltà più gravi di quelle della maggior parte degli stati Ue. Dal 2008 è tartassata dalla recessione, dall’eccessivo indebitamento e da alti tassi di disoccupazione.”

La prospettiva della fine della Ue e dell’abbandono dell’euro, infine, avrebbe per Schultz esiti apocalittici: “Se l’Ue fallisse: l’euro si dissolverebbe, rendendo il nostro continente sempre più dipendente dal dollaro americano e dal renmimbi cinese e portando quindi la nostra economia al baratro. All’interno dell’Europa tornerebbero i fastidiosi controlli di dogana e di frontiere (…) che si tradurrebbero in meno scambi e meno crescita. (…) L’Europa diventerebbe marginale nel commercio e nella politica internazionale (…). L’Europa si congederebbe dal consesso delle potenze mondiali e in pochi decenni perderebbe il suo benessere e la sua sicurezza”.

La ragione di questi toni quasi terroristici nasce dal tentativo di porre un freno alla sfiducia nelle politiche e nelle istituzioni europee che sta dilagando in tutto il continente e che, secondo le previsioni, rischia di tradursi in un successo elettorale dei partiti cosiddetti euroscettici. Il punto, però, è che la prospettiva da cui Schultz guarda è rovesciata rispetto alla realtà effettiva. Non è l’euro che crollerà se salterà l’Europa. È esattamente il contrario: è l’Europa che sta collassando a causa dell’euro. Schultz confonde la questione della partecipazione all’Unione europea (Ue) con quella della partecipazione all’euro, come se fossero la stessa cosa o come se l’eventuale fuoriuscita dall’euro comportasse l’uscita anche dalla Ue. Si tratta, invece di due questioni distinte: si può far parte della Unione europea senza essere obbligati a far parte della Unione economica e monetaria (Uem), come nel caso della Gran Bretagna.

Ora, il problema è che l’euro sta “eurizzando” anche i paesi che non l’hanno adottato. Ciò vuol dire che anche gli altri Paesi Ue, tranne la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca, sono stati convinti ad aderire al Fiscal compact. Il Fiscal compact impone di non superare un deficit pubblico pari al 3% del Pil e obbliga a raggiungere il pareggio di bilancio. Inoltre, a partire dal 2016 e nell’arco di vent’anni, ogni Stato aderente dovrà ridurre il proprio debito a non più del 60 per cento del Pil, cosa che per l’Italia si tradurrà in un taglio aggiuntivo di oltre 50 miliardi all’anno della spesa pubblica (sanità, pensioni, ecc.). A questi vincoli, per i paesi della Uem, si deve aggiungere l’alienazione della propria sovranità monetaria alla Banca centrale europea, che è un’autorità indipendente e – a differenza di quelle di Usa, Gran Bretagna e Giappone – non interviene né per stimolare l’economia né come prestatore di ultima istanza. La Bce non può acquistare illimitatamente titoli di stato sul mercato primario. Cosa che, fra l’altro, consentirebbe di calmierare i tassi d’interesse sul debito pubblico. Questi vincoli avrebbero avuto effetti negativi sull’economia anche in una fase normale. Ma pensare di praticare il pareggio di bilancio e applicare l’austerity nel corso della crisi più grave dal ’29 appare pazzesco da qualunque punto di vista della teoria economica, come la realtà si è incaricata di dimostrare.

Se guardiamo le statistiche fornite dall’Ocse osserviamo che Usa e Gran Bretagna, pur afflitti da una forte deindustrializzazione, e persino il Giappone, che viene da un ventennio di stagnazione, si sono comportati durante la crisi meglio dell’eurozona, avendo applicato politiche economiche opposte a quelle europee. Nel periodo tra il secondo trimestre del 2011 ed il terzo trimestre 2013, ovvero durante il periodo di affermazione dell’austerity, l’area euro è calata mediamente del -0,1 per cento a trimestre, mentre gli Usa, sono cresciuti del +0,6, il Giappone del +0,4 e la Gran Bretagna del +0,3 per cento1. Tra i quaranta Paesi considerati dall’Ocse, i peggiori risultati sono quelli dei Paesi dell’Uem. In fondo alla lista, appena sopra i soliti reprobi come il Portogallo e l’Italia (-0,5), e la Spagna (-0,3), fanno misera mostra di sé anche presunti campioni dell’economia come i Paesi Bassi (-0,3) e la Finlandia -(0,2), mentre Francia e Belgio sono inchiodati allo 0,0 per cento. Crescono, ma comunque più modestamente di Usa, Giappone e Gran Bretagna, solamente Germania (+0,2), Irlanda (+0,2) e Austria (+0,1).

Se, poi, vogliamo rimanere al confronto con la Gran Bretagna, tanto caro a Schultz, va aggiunto che, mentre i britannici nell’ottobre 2013 avevano (ultimo dato comparabile dell’Ocse) il 7,3 per cento di disoccupati, l’area euro raggiungeva il10,8 per cento, ed in particolare l’Italia arriva al 12,5 e la Spagna al 26,3 per cento2. Inoltre, il debito pubblico delle due aree economiche risulta identico. Nel 2013 quello della Gran Bretagna era uguale al 107 per cento sul Pil e quello dell’area euro ammontava al 106,4 per cento3. Contrariamente a quello che dice Schultz, la Gran Bretagna è cresciuta più di tutti i Paesi della Uem e sul piano del debito pubblico e della disoccupazione sta messa meglio della stragrande maggioranza degli Stati che la compongono.

La realtà dei fatti, contrariamente a quello che pretende Schultz, ci dice che non è con la fine dell’euro che l’Europa diventerà marginale a livello internazionale e perderà benessere e sicurezza. È oggi, con l’euro, che sta divenendo marginale e perdendo benessere. L’introduzione dell’euro non sembra essere servita a fronteggiare i rischi della globalizzazione: la Uem tra 2007 e 2012 ha visto la sua quota delle esportazioni mondiali crollare dal 30,2 al 24,2 per cento4. Ma non basta. Quello che Schultz non rivela è che, a guadagnare dall’euro, sono le imprese e le banche del suo Paese. Vendendo merci in euro, svalutato rispetto al marco, la Germania ha accumulato il maggiore surplus mondiale delle partite correnti5, mentre le sue banche e imprese prendono a prestito denaro a tassi molto più bassi di quelli delle loro sorelle-nemiche italiane, spagnole, francesi, ecc. Il risultato è che le condizioni economiche degli Stati dell’Europa non sono mai state così divergenti come lo sono oggi. Tuttavia, le cause della divergenza non vanno attribuite esclusivamente all’egemonia tedesca. Infatti, la Germania non avrebbe potuto affermare le politiche di austerity in assenza del collaborazionismo delle élite capitalistiche degli altri Paesi, che, per caratteristiche e interessi economici e sociali, sono sempre meno nazionali e sempre più transnazionali. La maggior parte dei Paesi europei sono sempre più poveri, ma al loro interno il controllo dell’economia è sempre più centralizzato e le loro élite sono sempre più ricche e potenti.

Ugualmente campata per aria è la pretesa che l’euro garantisca all’Europa l’indipendenza da dollaro e renmimbi. L’euro ha fallito anche l’obiettivo, semmai lo avesse avuto, di porsi in alternativa al dollaro come valuta di riferimento internazionale. A dimostrarlo è la decisione di rendere permanenti gli swap in dollari che sono stati introdotti durante la crisi finanziaria dalla Fed, la banca centrale Usa. Secondo questi accordi, la Fed si impegna a fornire dollari alla Bce, e alle banche centrali di Canada, Gran Bretagna, Svizzera e Giappone. In questo modo, queste banche centrali potranno fornire dollari alle banche dei loro Paesi in situazioni d’emergenza, visto che le banche tendono ad indebitarsi in dollari. Ma, soprattutto, è la riaffermazione del sostegno degli Stati occidentali all’egemonia mondiale del dollaro e della Fed. Infatti, considerando anche che il Congresso Usa si è rifiutato di aumentare le quote del Fondo monetario internazionale, cosa che avrebbe permesso ai Paesi emergenti come la Cina, il Brasile e la Russia, di contare di più, gli Usa sono ora l’unico prestatore di ultima istanza mondiale rimasto.

Schultz può mettersi l’animo in pace, la gestione della crisi in chiave di austerity ha messo in seria discussione, insieme alla forza economica dell’Europa, anche il peso internazionale che l’euro si era conquistato prima e subito dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime nel 2007. Tra 2011 e 2012 le riserve mondiali denominate in euro e detenute dalle varie banche centrali sono calate dal 25,1 al 23,9 per cento del totale, mentre la quota di merci internazionalmente trattate in renmimbi è passata dallo zero al 10 per cento6. Eppure, proprio una politica di immissione di liquidità nell’economia europea, connessa con un ruolo della Bce di prestatore in ultima istanza, avrebbe favorito un processo di “eurizzazione” simile ai processi di “dollarizzazione”, a scapito di un dollaro che appariva irrimediabilmente logorato dalla crisi dei subprime.

Se l’euro, sotto il peso crescente delle sue contraddizioni interne, conflagrerà, ciò avverrà solamente dopo che avrà assolto alla funzione che gli è stata attribuita. L’euro è l’asse strategico attraverso il quale passa la ristrutturazione coatta del sistema industriale, sociale e politico dell’Europa in base alle necessità di questa fase storica del modo di produzione capitalistico. Non è un caso che il raggiungimento degli obiettivi di bilancio europei venga sempre collegato dalla Commissione europea, dalla Bce e dalle organizzazioni imprenditoriali alla realizzazione delle cosiddette “riforme strutturali” economiche e istituzionali e, in modo particolare, alla compressione del costo del lavoro, che significa la riduzione del salario diretto, del salario differito (pensioni) e del salario indiretto (servizi sociali).

L’euro è, di fatto, la pietra tombale sull’effettiva possibilità di costruire una Europa unita e dei popoli, e non perché sia stato gestito male, ma a causa della sue caratteristiche strutturali. Certo, possiamo batterci per la modificazione della sua architettura. Ma dobbiamo essere consapevoli di tre elementi. Il primo è che modificare l’architettura dell’euro vuol dire di fatto porre fine all’euro e fare un’altra cosa. Il secondo è che dietro l’euro non c’è soltanto la visione ingenua ed estremistica del mercato autoregolato, ma precisi interessi di forze sociali trasversali alle varie nazioni. Infine, una eventuale revisione dell’euro, realizzata sotto l’egemonia di queste forze, sarebbe un passo in avanti nella medesima direzione in cui stiamo andando da anni.

La dissoluzione o l’uscita dalla Uem non è un passaggio da prendere alla leggera, in quanto implica affrontare importanti problemi di carattere economico. Ma il problema dell’euro è solo in parte tecnico-economico. Il problema dell’euro è prima ed essenzialmente politico, riguardando le scelte economiche generali e i rapporti tra Stati, tra classi e tra settori di classi sociali. Oggi, la dannosità dell’euro è percepita da masse di cittadini europei sempre più ampie. La questione è che tale percezione sta trovando sbocco nel voto all’estrema destra, nella disaffezione verso la politica e nell’astensionismo. Quindi, per non consegnare questi settori all’apatia o alla reazione bisogna assumere una posizione chiara sull’euro e, di conseguenza, altrettanto chiara sul Pse, di cui l’Alleanza dei socialisti e dei democratici è emanazione. Le parole di Schultz e le posizioni assunte dal suo partito, la Spd tedesca, di nuovo in una grande coalizione con i democristiani della Merkel, non possono continuare a illudere nessuno. Nei fatti, nessun partito socialista o socialdemocratico europeo si è posto contro l’austerity. Al contrario, la volontà bipartisan di perseguire gli obiettivi europei ha generalizzato il modello della grande coalizione in tutta Europa. Oggi, appare veramente difficile distinguere il PSE dal Partito popolare europeo, il suo corrispettivo di centro-destra, sulle questioni veramente decisive, come il Fiscal compact, mentre le differenze si restringono ad aspetti sempre più secondari.

L’euro è la chiave di volta del processo di ristrutturazione generale in senso regressivo dei rapporti di produzione e sociali in Italia ed in Europa. Qualunque possibilità di difesa del welfare e della democrazia e di ripresa del movimento dei lavoratori e della sinistra, a livello nazionale e europeo, passa per la centralità programmatica dello scioglimento dell’Uem.

NOTE

1 Nostra elaborazione su dati Ocse. Economics Key tables from Oecd. Quarterly gross domestic product change over previous quarter. http://www.oecd-ilibrary.org/economics/quarterly-gross-domestic-product-change-over-previous-quarter_2074384x-table13

4 Sistema Statistico Nazionale, L’Italia nell’economia internazionale, sintesi del rapporto Ice 2012-2013.

5 Il surplus delle partite correnti è costituito essenzialmente dall’avanzo nel commercio di beni e servizi con l’estero. Il surplus del 2013 della Germania ammontava a 254 miliardi di euro, mentre quello della Cina ammontava appena a 14 miliardi. The Economist, Economic and financial indicators, December 21st 2013.

6 “Debt crisis shrinks use of euro as international currency”, The Whashington Times. http://www.washingtontimes.com/news/2013/jul/2/debt-crisis-shrinks-international-use-euro-reserve/