Cosa hanno fatto gli USA all’Afghanistan

di Patrick Cockburn* | da www.rebelion.org
Traduzione di Sandro Scardigli per Marx21.it

guerra-585x352*Patrick Cockburn è l’autore di Muqtada: Muqtada Al-Sadr, the Shia Revival, and the Struggle for Iraq. Cockburn ha appena ricevuto il premio Editorial Intelligence Comment Award 2013 for Foreign Commentator of the Year.

Un numero infinito di morti, povertà e corruzione dilaganti, mentre i talebani avanzano…

Alcuni anni fa, a Kabul, ascoltai il portavoce di un’organizzazione governativa afgana, che mi parlò lungamente, ottimisticamente ma in modo non molto convincente, dei progressi dell’istituzione per la quale lavorava. Per alleviare la noia e senza molte speranze di ricevere una risposta interessante, gli chiesi – con la garanzia dell’anonimato – quali fossero i benefici che il suo Governo aveva portato al popolo afgano. Il portavoce rispose senza esitazioni che molto probabilmente questi sarebbero stati assai limitati “fino a quando il nostro Paese sarà governato da gangsters e signori della guerra”.


Fu più o meno in quei giorni che arrivai alla conclusione che il principale problema dell’Afghanistan non è la forza dei talebani ma la debolezza del Governo. Non importa quanti soldati della NATO vi vengano inviati. Il problema è che stanno lì a sostenere un esecutivo detestato dalla maggioranza della popolazione. In qualunque parte della capitale io mi recassi trovavo segnali di questo stato d’animo, anche da parte di gente benestante dalla quale ci si potrebbe aspettare un sostegno allo status quo. Intervistai un agente immobiliare, che non dovrebbe avere molti motivi per lamentarsi, giacché nei dieci anni seguiti alla caduta dei talebani (2001), Kabul è stata la città del mondo che ha registrato la crescita edilizia maggiore. Mi indicò alcuni lavoratori di fronte alla finestra del suo ufficio, dicendomi che guadagnavano tra i quattro e i sei dollari al giorno, in una città dove l’affitto mensile di una casa decente per le loro famiglie costa mille dollari. Mi disse: “È impossibile che questa situazione vada avanti senza che scoppi una rivoluzione”.

Il 2014 è stato presentato da tempo come un anno decisivo per lo Stato asiatico, perché la maggior parte dei militari stranieri ivi rimasti, 38.000 statunitensi e 5.200 britannici, verranno ritirati prima della fine dell’anno. Le previsioni di una data esatta per il verificarsi di un fatto storico risultano solitamente errate, ma in questo caso il senso comune potrebbe essere nel vero. Già si avvertono i segnali di un drastico cambiamento politico, come l’annuncio dato dal Governo di Kabul di voler liberare settantadue prigionieri afgani della linea dura, cosa che ha provocato furiose proteste da parte di Washington. È probabile che il motivo di questa scelta del Presidente Hamid Karzai sia quello di ingraziarsi i capi locali, che vogliono vedere i loro parenti liberati dal carcere, in quanto Karzai avrà bisogno del loro sostegno elettorale nelle elezioni presidenziali di aprile, alle quali non parteciperà perché non rieleggibile per un terzo mandato, ma che cercherà di far vincere ad un successore a lui vicino.

Una caratteristica importante di questo ritiro delle truppe statunitensi e britanniche è lo scarso interesse che ha suscitato nei rispettivi Paesi, nonostante che dal 2001 a oggi vi siano morti 2.806 soldati USA e 447 britannici. Il costo totale della guerra, della ricostruzione e degli aiuti nello stesso periodo è stato di 641 miliardi e 700 milioni di dollari, secondo il Centro Studi Strategici e Internazionali, che ha sede a Washington. Naturalmente soldi spesi in Afghanistan non significa spesi a vantaggio del suo popolo ma, anche tenendo presente ciò, è straordinario che, nonostante le enormi somme stanziate, i dati del Governo di Kabul rivelino un 60% di malnutrizione infantile e che solo il 27% degli afgani può accedere ad acqua potabile sicura. Molti sopravvivono soltanto grazie alle rimesse dei familiari che lavorano all’estero o mediante il narcotraffico, che rappresenta circa il 15% del Prodotto Interno Lordo afgano.

Le cifre appena menzionate sono estratte da uno studio di Thomas Ruttig, della Rete di Analisi Afghanistan (con sede a Kabul), che traccia un bilancio negativo del risultato di dodici anni di intervento internazionale. Il suo rapporto, succinto e ben documentato, sull’attuale situazione della nazione asiatica, sottolinea il fatto che l’intervento militare statunitense e britannico si è concluso con un fallimento quasi totale. I talebani non sono stati sconfitti e continuano ad operare in ogni parte del Paese. In province come quella di Helmand, sono pronti a prendere il potere appena le truppe statunitensi e britanniche saranno partite. Già adesso, nonostante il sostegno delle forze militari straniere, il controllo territoriale del Governo di Karzai non arriva oltre i due chilometri fuori dalla capitale del distretto. I 30.000 soldati USA di rinforzo, inviati come parte della “ondata” di truppe nel 2010-2011, che ha fatto arrivare a 101.000 gli effettivi presenti, hanno avuto in fin dei conti uno scarso impatto.

Il fiasco afgano viene spesso analizzato nel suo complesso in termini di tattica militare, ma i motivi più importanti del fallimento statunitense sono politici e vanno fatti risalire alle ripercussioni immediate del rovesciamento dei talebani. Occorre sottolineare quattro punti su quel periodo di fondamentale importanza: allora quel movimento islamico aveva il sostegno di una piccola minoranza della popolazione, ma la sua sconfitta militare fu meno decisiva di quel che apparve sui media occidentali, perché la maggior parte dei miliziani si era ritirata o dispersa. Io li seguii lungo la strada principale da Kabul a Ghazni e infine a Kandahar: i combattimenti furono pochi. Con le circostanze politiche adatte, i talebani potrebbero sempre risorgere. Fatto altrettanto importante, la frontiera (lunga 2.400 chilometri) tra Afghanistan e Pakistan rimase sempre aperta e così i guerriglieri talebani hanno trovato rifugi per riposare, addestrarsi e rifornirsi.

La loro rapida e poderosa resurrezione, dopo il 2006, è stata il risultato di un quarto fattore, cioè la natura “tossica” del nuovo regime che si era formato a Kabul. Questo era composto dagli stessi signori della guerra e comandanti jihadisti la cui corruzione e violenza aveva provocato la presa del potere da parte dei talebani, con l’appoggio di Pakistan e Arabia Saudita, nel 1996. I detti signori della guerra presero il controllo del Parlamento, del potere giudiziario e dei servizi di sicurezza.

Coloro che ricevettero l’aiuto finanziario degli Stati Uniti nel 2001 per combattere i talebani, investirono questi fondi nel narcotraffico”, scrive Thomas Ruttig, “e, partendo da lì, si impossessarono gradualmente dei settori legali dell’economia, come l’import-export, le costruzioni e i settori dei beni immobili, bancario e minerario”. Si trangugiarono gli aiuti stranieri e pertanto nel 2013 l’Afghanistan si ritrovò in fondo alla lista dei 177 Paesi (assieme a Somalia e Corea del Nord), stilata da “Transparency International”, con l’imprenditoria più corrotta.

La nuova élite post talebana è caratterizzata da una miscela letale di un sistema di signori della guerra e islamisti jihadisti. Il giornalista Mir Hossein Musawi coniò il termine “fascismo sacro” per descrivere questa miscela, in un articolo pubblicato sulla stampa di Kabul nel 2003. Fu ben presto costretto a fuggire dal Paese, accusato di insultare l’Islam.

Le elezioni sono state così falsate da delegittimare i vincitori. Quelle dell’aprile 2014 saranno probabilmente peggiori delle precedenti, con 20,7 milioni di certificati elettorali distribuiti in un Paese nel quale la metà dei ventisette milioni di abitanti non ha ancora compiuto i diciotto anni, età minima per votare. Istituzioni indipendenti di monitoraggio del voto sono state rilevate dal Governo, che le ha poste sotto il suo controllo.

Di fronte a questi molteplici disastri i leaders occidentali, semplicemente, ignorano la realtà afgana e non disdegnano di ricorrere deliberatamente e sistematicamente alla menzogna. Il Primo Ministro britannico David Cameron ha affermato, durante una visita nella provincia di Helmand compiuta nel dicembre scorso, che era stato conseguito quel livello basilare di sicurezza che permette alle truppe britanniche di considerare compiuta la loro missione.

Nessuno in Afganistan ci crede. Ma la partenza delle truppe straniere non significherà necessariamente la vittoria dei talebani, movimento pashtun che avrà molte difficoltà ad affermarsi in aree dominate da etnie come quella tagika, hazara e uzbeka. Molti afgani temono una sorte peggiore e cioè che il 2014 segni il ritorno all’era di crudele e selvaggia anarchia degli anni ’90, quando le bande armate e jihadiste governavano l’Afghanistan.

Fonte originale: http://www.counterpunch.org/2014/01/13/what-we-did-to-afghanistan/