Vietnam, i progressi di una nazione indipendente

di Matteo Stella per Marx21.it

vietnam skylineIn Italia il Vietnam è un Paese che tutti ricordano quasi esclusivamente per una delle più grandi tragedie del ‘900, la guerra del Vietnam. La generazione cresciuta negli anni ’60, i militanti di sinistra e gli anticomunisti che combattono ancora la loro Guerra Fredda virtuale rammentano con passione o acredine quegli anni in cui un piccolo Paese, dotato di pochi mezzi ma con un amore patriottico sconfinato, combatté e vinse la guerra contro l’esercito più potente del pianeta, con un’impresa a cui pochi avrebbero potuto credere nei primi anni ’60. È quello il Vietnam che molti conservano nella loro mente, quello del Presidente Hồ Chí Minh e del Generale Giáp, quello del napalm e dell’agente arancio, quello del sostegno sovietico e cinese alla lotta antimperialista e anticolonialista, quello degli accordi internazionali non rispettati, quello di un Paese diviso, bombardato e seviziato, un Paese che ha però saputo tenere alta la testa e, sotto la guida del Partito Comunistai, liberare e riunificare la sua Nazione.


Il Vietnam è certamente stato tutto questo e quel periodo rappresenta ancora una speranza nell’immaginario collettivo di molti popoli. Eppure aver memoria solo di quel Vietnam significa non rendere giustizia agli avvenimenti storici verificatisi dal 1975 in poi, ossia al complesso lavoro di ricostruzione del Paese e di rilancio dell’economia a cui il Partito Comunista e il popolo vietnamita si sono dedicati per più di tre decenni. Questa mancanza d’interesse ha probabilmente a che fare con il fatto che il Vietnam rimane un piccolo stato in via di sviluppo che ha un ruolo secondario e periferico nel mutamento degli equilibri internazionali. Ci sono tuttavia anche molti che, all’interno del variegato popolo della sinistra, tendono a liquidare l’esperienza vietnamita post-riunificazione allo stesso modo con cui liquidano le riforme cinesi, ossia ritenendola la vittoria del capitalismo più sfrenato e la negazione dei presunti ideali per cui il movimento comunista di quei paesi aveva combattuto e ricadendo così, come di solito accade, nell’assurda convinzione che l’unico comunista meritevole sia quello che non si impadronisce mai del potere.

Pochi mesi fa, il 4 ottobre, veniva a mancare una figura leggendaria del Partito Comunista del Vietnam (PCV) e del movimento antimperialista internazionale, il generale Võ Nguyên Giáp. La sua morte, evento che avremmo voluto ritardare il più possibile, ha permesso di far tornare questo Paese nelle cronache italiane e internazionali, per celebrare ancora una volta l’acume strategico del combattente e gli sforzi del popolo vietnamita per riguadagnare l’agognata indipendenza. Giáp se n’è andato, in Italia lo abbiamo pianto, gli abbiamo tributato gli onori più consoni e abbiamo versato le lacrime più sincere. Dobbiamo tuttavia ricordare che con lui non è morto il socialismo vietnamita perché il PCV rimane ancora ben saldo al potere e i progressi del piccolo Paese del Sudest asiatico negli ultimi decenni sono stati notevoli ed encomiabili.

Terminata la guerra, dal 1975 al 1979, il partito guidato dal segretario generale Lê Duẩn – ma amministrato da una leadership collettiva – tentò di adattare l’intera economia vietnamita al modello economico sovietico, attraverso l’elaborazione e l’attuazione di dettagliati piani quinquennaliii, nonché tramite la nazionalizzazione dell’industria e dell’agricoltura. I risultati non furono però positivi. Il Paese arrivava stremato dalla guerra, le sue risorse erano state ridotte all’osso e la grande opera di centralizzazione economica – che richiedeva delle capacità istituzionali allora inesistenti – si dimostrò molto ardua, tanto più se si trattava di inglobare all’interno del meccanismo economico un sud che non aveva mai sperimentato un’economia dirigista e che era refrattario a tali cambiamenti. Inoltre gli incentivi economici inerenti ai collettivi agricoli avevano iniziato a dimostrare la loro debolezza già nell’ultimo decennio del conflitto e si rivelarono inefficaci per soddisfare le basilari esigenze di una popolazione affamata. Nel 1979, per di più, l’occupazione della Cambogia e la guerra con la Cina drenarono ulteriori risorse utili allo sviluppo economico e crearono un ambiente internazionale ostile. Su pressione di ampi settori della popolazione – dai contadini del delta del Mekong alle imprese statali – dal 1979 il Partito assecondò un processo di parziale liberalizzazione che investì i principali settori economici, da quello agricolo a quello industriale e terziario. Eppure tali riforme rimasero frammentate, incoerenti e provocarono risultati alterni, non soddisfacenti in campo agricolo, mentre risultarono migliori per le industrie, specie quelle locali. Nel 1986, allora, la nuova dirigenza del partito guidata da Nguyễn Văn Linh e Võ Văn Kiệt lanciò il processo di rinnovamento, il cosiddetto “Đổi Mới”, che avviava cambiamenti più radicali in ambito economico. Fu comunque soltanto nel 1989, in concomitanza con la fine degli aiuti sovietici e un anno dopo una pesante crisi alimentare, che misure profonde e ampie vennero implementate: la stabilizzazione monetaria, la liberalizzazione quasi completa dei prezzi e la sostanziale riduzione dei sussidi alle imprese statali vennero considerate da alcuni studiosi comparabili a quelle misure in stile shock therapy che non avevano avuto successo in Russia, ma che riuscirono a fare le fortune del Vietnam. Il governo infatti ebbe successo nel contrarre vigorosamente l’inflazione e ad innescare il processo di crescita economica. Va ricordato comunque, come fa Adam Fforde, che queste riforme macroeconomiche avvennero a completamento di un processo di transizione iniziato un decennio prima a livello microeconomico, il quale aveva consentito di far sì che nel 1989 “i prezzi già importassero” e avessero un ruolo nel sistema economico vietnamita. In ogni caso il Vietnam, a partire da quella data, intraprese una strada simile a quella della Cina e degli altri stati sviluppisti della regione, combinando crescita elevata, stabilità macroeconomica e riduzione della povertà. È doveroso quindi mettere in evidenza come l’apertura agli incentivi di mercato abbia permesso di abbattere sostanzialmente il numero relativo di poveri, che è diminuito dal 59% della popolazione nel 1993 al 35% nel 2000 al 18% nel 2007. In secondo luogo, la crescita, che per quasi due decenni si è assestata a livelli quasi cinesi – tra il 7% e l’8% del PIL su base annua – ha favorito la crescita del PIL pro-capite da 97 $ nel 1989 a 1,596 $ nel 2011. Ciò non è avvenuto attraverso una massiccia privatizzazione dell’economia nazionale o tramite la svendita di interi settori, ma, da un lato, mantenendo il controllo delle imprese strategiche al fine di dirigere lo sviluppo nazionale e tentando di migliorarne e rafforzarne la gestione, e, dall’altro, lasciando gradualmente ai privati i settori meno cruciali. L’elemento che ha reso possibile questo percorso è stata l’intima sinergia tra il Partito Comunista e il popolo vietnamita, con il Partito che ha saputo mettersi in discussione, rivoluzionare profondamente i rapporti economici e assecondare le aspirazioni dei suoi cittadini, innescando il tanto agognato sviluppo economico. È questa la grande impresa del Vietnam post-riunificazione. 

Grazie alle riforme il Paese ha riordinato anche i suoi rapporti internazionali: ha ricucito le relazioni logorate con diversi paesi, specialmente con Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, oltre che con le altre nazioni del Sudest asiatico con cui è stato avviato un processo di cooperazione nell’ambito dell’ASEAN. Oggi il Vietnam si è riposizionato nel sistema mondiale grazie una politica internazionale indipendente, sfruttando la propria posizione geopolitica e le crescenti relazioni commerciali con una pluralità di attori. Gli atteggiamenti verso le due più grandi potenze, in particolare la Cina, sono riassumibili nella definizione di hedging, ossia la combinazione di politiche di accomodamento e azioni di bilanciamento. Con la Cina infatti esistono alcuni attriti dovuti alla sovranità contesa delle isole Spartly e Paracel, la cui sovranità è rivendicata da entrambi gli stati. Negli ultimi due anni purtroppo si sono verificati anche degli incidenti politici che hanno indebolito il rapporto ricostruito dopo il ritiro del Vietnam dalla Cambogia nel 1989. Nel 2013 numerosi sono stati i tentativi di riavvicinamento tra le due parti: dall’avvio di politiche comuni per gestire i confini (lotta al crimine, amministrazione comune delle risorse turistiche, navigazione libera del fiume Bac Luan) alle negoziazioni per istituire un codice di condotta nel Mar Cinese Meridionale (Mare Orientale per i vietnamiti), dall’intesa per l’esplorazione comune del Golfo del Tonchino alla ricerca di risorse energetiche senza contare i vari accordi economici volti a facilitare la comunicazione e il flusso di capitali. In ambito economico, infatti, il Vietnam rimane strettamente legato alla Repubblica Popolare Cinese, la quale è il suo primo partner, tanto da contare, solo nella prima metà del 2013, un flusso commerciale pari a 23,1 miliardi di dollari. La delocalizzazione delle imprese cinesi in Vietnam è spesso benvenuta, mentre va menzionato anche il miliardo di dollari prestati dalla Cina per la costruzione di nuove infrastrutture. Tra le priorità cinesi, infine, vi è anche l’istituzione di un’area di libero scambio con i paesi dell’ASEAN, all’interno del quale il Vietnam gioca un ruolo sempre più importante. Tuttavia quest’ultimo Paese rimane al contempo molto fermo delle sue rivendicazioni territoriali e non si fa intimorire dalla crescente assertività del gigante vicino, con il quale il rapporto rimane globalmente positivo ma soggetto a persistenti incomprensioni e pericolose tensioni.

È in questo contesto che le relazioni con gli Stati Uniti assumono per il Vietnam un’importanza cruciale: dopo la fine dell’embargo nel 1994 gli scambi commerciali tra i due paesi sono aumentati a dismisura e gli USA sono ora il secondo partner economico. Il Vietnam è stato inoltre incluso nella strategia americana del “Pivot to Asia” volta a rilanciare la posizione americana nello scacchiere dell’Est asiatico al fine di approfondire gli scambi economici con i paesi della regione e, soprattutto, a contenere la straripante crescita della statura internazionale della Cina Popolare. Finora ciò si è realizzato attraverso il direzionamento delle truppe americane, in particolare la marina, verso il Pacifico, con l’espansione della base di Guam, l’aumento della presenza in Australia e gli accordi militari con Singapore e Filippine. Sul lato commerciale è stata da poco lanciata la TPP (Trans-Pacific Partnership) che mira a incrementare il flusso di merci e capitali tra USA e una serie di altri paesi dell’area, fra cui il Vietnam – e da cui rimane esclusa la Cina. Per ora il Vietnam ha quasi esclusivamente limitato il miglioramento delle sue relazioni con gli USA agli affari economici – mentre la cooperazione in ambito politico e militare è rimasta ristretta – al doppio scopo di ridimensionare l’importanza della sua relazione con la Cina e di dissuadere quest’ultimo Paese da ulteriori mosse azzardate nel Mar Cinese Meridionale. Va menzionato, ad esempio, l’accordo stabilito per sviluppare la tecnologia nucleare civile, che sarà trasferita dagli Stati Uniti nei prossimi anni. Tra il 14 e il 16 dicembre è poi avvenuta una nuova visita del Segretario di Stato Kerry per rafforzare la cooperazione negli ambiti del commercio e dell’educazione. Dal lato politico, invece, a Da Nang, nell’aprile del 2012, sono avvenute esercitazioni navali congiunte. La visita di Kerry ha poi portato a una serie di iniziative per rafforzare la capacità di controllo delle coste, a partire da un finanziamento pari a 18 milioni di dollari e dalla fornitura di cinque imbarcazioni per il pattugliamento alla Guardia costiera. Tutte queste iniziative si inseriscono nella strategia americana del “Pivot to Asia” che vede l’insistente tentativo di Washington di cooptare il Vietnam nel suo fronte di accerchiamento ed isolamento della Cina, suo nuovo rivale mondiale. Visti attriti tra Pechino e Hanoi, questo spiega in gran parte i progressi nelle relazioni tra i due paesi e mette anche in mostra l’abilità della politica estera vietnamita di gestire le relazioni coi due giganti, capace di sfruttare il rinnovato interesse americano nell’area pacifica per intraprendere iniziative indipendenti che portano al Paese consistenti vantaggi. 

Un altro Paese che ha rivestito e riveste ancora un ruolo importante nella politica estera vietnamita è certamente la Russia. Il 12 novembre, durante la sua visita ad Hanoi, il presidente Putin affermava che il rapporto tra i due paesi “ha resistito alla prova del tempo, essendo sopravvissuto ai numerosi eventi tragici del ventesimo secolo, ai drastici mutamenti nel mondo, nonché nei nostri Paesi”. Durante quella visita furono firmati diciassette accordi bilaterali: la cooperazione energetica venne definita come “reciproca”, basata sull’esplorazione e sulla produzione congiunta, in particolare tra Petrovietnam (la compagnia statale vietnamita) e Rosneft (la società detenuta a maggioranza dallo Stato russo), la quale ha concesso a Petrovietnam il raro privilegio accordato a una compagnia straniera di esplorare il Mar della Pečora nella regione artica russa. In più la collaborazione tra la compagnia vietnamita e Gazprom si è estesa ulteriormente, grazie agli investimenti di quest’ultima nella raffineria di Dung Quat. Da sottolineare inoltre anche il prestito pari a 8 miliardi di dollari allo scopo di costruire la prima centrale nucleare del Vietnam nella provincia del Ninh Thuan. Infine vanno menzionati anche gli accordi di carattere militare che restano in gran parte segreti, ma che di certo prevedono l’aumento delle forniture di armi russe (il Vietnam ne è tra i primi acquirenti) e l’assistenza tecnica di Mosca nella produzione di equipaggiamento militare d’avanguardia. I legami con la Russia negli ultimi anni si sono ben rafforzati e il commercio tra i due paesi è cresciuto piuttosto rapidamente, toccando un promettente +20% nell’ultimo anno, segnalando quindi l’alto grado di attenzione che Hanoi riserva per il tradizionale amico. 

La crisi economica mondiale, a partire dal 2008, ha purtroppo colpito anche l’economia vietnamita, che non cresce più ai livelli precedenti, ma si è stabilizzato attorno al 5% annuo. Si sono inaspriti alcuni problemi, come la crescita delle diseguaglianze e la corruzione nella burocrazia, di cui i vertici del partito sono ben consapevoli. Il 28 novembre è stata approvata la nuova Costituzione che ha confermato il ruolo guida del Partito Comunista nel sistema politico e del settore statale in quello economico. Il processo di rinnovamento costituzionale ha visto la partecipazione di ampi strati della popolazione con un livello di libertà di discussione che, secondo un esperto come Jonathan London, non si è mai visto nella storia della Repubblica Socialista. Il confronto ha coinvolto membri del partito e soggetti esterni e, nonostante la quasi unanime approvazione della Costituzione da parte dell’Assemblea Nazionale (il parlamento vietnamita eletto a suffragio universale diretto), le opzioni esaminate sono state diverse e sono arrivate ad ipotizzare altre forme di stato, a testimonianza della pluralità delle voci presenti nel partito e nella società.

A partire dal 1975 ad oggi il Vietnam ha intrapreso e ha subito numerosi cambiamenti. Si è aperto al mercato, ha coltivato diverse relazioni internazionali, ha visto mutare la propria società. È un Paese degno di attenzione perché ci permette di capire la fattibilità di sistemi politici ed economici alternativi a quello occidentale, la loro dinamicità e i loro limiti intrinseci. Ci permette inoltre di studiare un altro caso di economia socialista di mercato, a fianco a quello cinese, fornendoci quindi la possibilità di approfondire la nostra conoscenza dei pregi e dei difetti di tale nuova formazione sociale. Inoltre è un Paese che mette in risalto le dinamiche del nascente mondo multipolare e gli spazi di manovra che si aprono per i piccoli paesi indipendenti grazie alla competizione tra le potenze mondiali. È una nazione infine che ha intrapreso con relativo successo la strada del “socialismo di mercato”, ottenendo risultati eccezionali in termini di aumento del benessere della popolazione, che possono essere dipinti come “resa al capitalismo più sfrenato” soltanto da chi ragiona con schemi appartenenti ad un’altra epoca, inutili a comprendere l’evoluzione del nuovo sistema economico e politico mondiale. Concedere la giusta attenzione al Vietnam post-riunificazione significa quindi contribuire alla ricerca di formazioni sociali alternative a quella dominante dal 1989 ad oggi.

Durante i bombardamenti americani la Repubblica Democratica del Vietnam (Il Vietnam del nord) abbandonò la pianificazione quinquennale, sostituendola con più flessibili piani annuali. Inoltre l’economia dirigista in quel periodo non fu mai messa in pratica con zelo, poiché la necessità di impegnarsi nello sforzo bellico costringeva a rinviare il momento della trasformazione dei rapporti di produzione.

Fonti

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