Corno d’Africa: questo sconosciuto così strategico. Il caso dell’Etiopia

di Andrea Genovali – Prima parte

etiopiaLo scorso agosto è morto in Etiopia il presidente Meles Zelawi. E in molti si chiederanno e allora? A noi cosa importa? Poi sono passati già un bel po’ di mesi e la notizia appare a molti inutilmente fastidiosa. Questa è, purtroppo, una delle possibili risposte, e fra l’altro anche fra le meno indecenti, che si possono ricevere da sprovveduti interlocutori. Ma diventa molto grave quando a darla sono partiti politici con responsabilità nel paese o addirittura il governo dei tecnici di destra che ci guida in un delirio che destruttura il paese giorno dopo giorno con una logica aberrante ma coerente, dal loro punto di vista. E, invece, se fossimo una nazione seria dovrebbe importarcene, e molto: sia per la storia che ci ha visti paese aggressore e colonizzatore, sia perché la naturale posizione italiana è chiaramente rivolta verso l’Africa e il Mediterraneo e dunque quello che accade in Africa dovrebbe essere di grande rilevanza per noi e per tutta l’Europa del Sud.

Per noi l’Africa dovrebbe rappresentare il futuro del continente europeo, anche se abbiamo presente le difficoltà infinite da superare per dare vita a politiche capaci di implementare realmente questa feconda idea. E il Corno d’Africa è sicuramente una regione strategica a livello mondiale anche se la politica italiana non se ne accorge. Chi lo controlla, controlla, fra le altre cose, il golfo di Aden, che è il canale del petrolio e gli Usa lo sanno perfettamente, tanto è vero che Zelawi era il cane da guardia statunitense nel Corno e che, alla sua morte, da Washington non si sono lesinati riconoscimenti da statista e da uomo di pace. Non sono dunque un caso queste parole per il dittatore etiope che insieme al Rwanda rappresentano i fedelissimi sudditi degli Stati Uniti nell’Africa subsahariana.

Ma chi era Zelawi? Un personaggio con molte ombre e poche luci, al di là delle veline statunitensi. E per questo la sua elezione del 2005 passò sotto silenzio, anche se vari osservatori internazionali ne decretarono la poca trasparenza e nessuno ebbe molto da ridire sulla violenza che Zelawi fece abbattere su una manifestazione di protesta studentesca da parte della polizia federale che provocò, nel silenzio internazionale, quasi 200 morti oltre a centinaia di feriti fra quei giovani. Altro che la grottesca messa in scena delle Pussy Riot che tanto hanno infiammato gli ipocriti cuori di ipocrite associazione di difesa dei diritti umani. Ma per gli Usa l’Etiopia di Zelawi è una democrazia e allora che nessun media italiano o europeo si permetta di scrivere o documentare tali barbarie. Mentre nel 2010 lo stesso Zelawi fu rieletto presidente con il 99% dei voti con una farsa elettorale. Ma per gli Usa è una democrazia consolidata e quel 99% dei voti lo dimostra ampiamente! E nessun partito italiano così attenti ai processi democratici a Cuba, dove esiste una vera partecipazione popolare, ha trovato un momento di tempo per dire qualcosa di questa evidente aberrazione elettorale. Ma, non contento, il paladino della libertà etiope elaborò una legge che mise il bavaglio alla stampa e ai media e uno strettissimo controllo sulle libertà politiche e sociali, perché non si sa mai, pensava il dittatore “democratico”. Un comico italiano una volta riferendosi al dittatore Mussolini disse che qualche strada o ponte li aveva fatti pure lui ma questo non c’entrava niente con la crudeltà della sua dittatura. Così, ovviamente, anche Zelawi, ha fatto delle politiche di ingenti investimenti pubblici e privati, costruì delle infrastrutture, ma diede vita pure a quella vergogna del land grabbing, cioè la vendita di terreni a paesi stranieri per la produzione di prodotti da esportazione e di cereali per la produzione di bio-carburanti. E questa disponibilità di Zelawi alla cessione di terreni e a una politica economica e sociale improntata alle disposizione del FMI e dalla BM, hanno portato l’Etiopia a essere considerata, da parte delle istituzioni finanziarie internazionali, quasi un paese di media-economia. E ai banchieri, lo vediamo anche da noi, poco importa se il popolo muore di fame o non ha lavoro perché come ben sappiamo non sono certo i fattori imposti dal FMI a decretare il reale stato di benessere di un popolo. E per questo in Etiopia la forbice fra chi ha molto (pochi) e chi soffre la fame (molti) si sta ulteriormente allargando. Povertà tipicamente visibile nelle baraccopoli e in un’agricoltura poverissima e obsoleta. Ma per le statistiche del FMI l’Etiopia di Zelawi ha compiuto in balzo in avanti di proporzioni non proprio secondarie e irrilevanti. Ovviamente, gran parte del “merito” va ai milioni di dollari che gli Usa annualmente elargiscono all’Etiopia senza che questi ovviamente vadano in programmi di protezione sociale e di investimenti reali capaci di dare una prospettiva alle classi meno abbienti del paese. Ma per gli interessi strategici statunitensi la democrazia è un puro e, spesso, inutile optional.

Adesso con la morte del dittatore amico dell’occidente i giochi potrebbero sulla carta riaprirsi nell’intera area e le paure e le ansie Usa non sono poche. Infatti, la transizione da Zelawi al nuovo leader investito della carica da parte del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (Erdpf), partito che ha ottenuto ancora la maggioranza assoluta e si compone di quattro formazioni politiche regionali, ha eletto il nuovo segretario e automaticamente il nuovo primo ministro in Hailemariam Desalegn, già vice primo ministro sotto Zelawi. In molti pensavano ad una successione problematica mentre, al contrario, tutto si sta svolgendo senza particolari problemi. Vedremo però in seguito se il processo di ringiovanimento del potere darà frutti migliori del passato e se le accentuate sottolineature della componenti etnica riusciranno a far deragliare ulteriormente l’Etiopia, nel momento in cui il governo accorgendosi del rischio di una etnizzazione spinta del paese sta cercando di ricentralizzare molti aspetti economici e sociali per dare di nuovo un senso forte al tema dell’unità del paese.

Insieme a questo dubbi vi sono però anche altre sfide per il nuovo governo. La prima riguarda senza dubbio l’indebolimento della componente tigrina nel paese che da sempre è l’etnia forte della nazione e questo unitamente ad una forte crisi economica che ha aggravato il tasso di inflazione che affligge l’Etiopia. Una crisi che può acuire le tensioni fra le 56 etnie o nazionalità che compongono il mosaico sociale del paese, innescando anche ulteriori crisi nelle zone dove già operano gruppi di liberazione che, se pur indeboliti, permangono tuttora attivi. Mentre le tensioni sulla frontiera con la Somalia per un conflitto mai realmente risolto sono di nuovo vicine a un pericoloso rigurgito. In questo quadro complesso per il nuovo governo etiope restano fondamentali il sostegno dell’esercito e la copertura e la rete di aiuti “coloniali” degli Stati Uniti, senza queste due cose il nuovo governo difficilmente potrà proseguire il proprio percorso. Come dire per essere un paese “democratico” non c’è male!