Le storie dei 166 italiani morti contro la Falange

di Bianca Bracci Torsi | su Liberazione

 

brigateinternazionaliL’ondata del cosiddetto revisionismo storico, in realtà inteso come rivalutazione dei fascismi del Novecento e cancellazione dei valori dell’antifascismo internazionale che li sconfisse, è arrivato anche alla Spagna, ultima nazione europea uscita dalla dittatura. Il primo segnale è arrivato da un amministratore locale che ha proposto, seguendo l’esempio di suoi colleghi italiani, di celebrare il 75° anniversario della guerra civile rendendo omaggio a repubblicani e falangisti, uniti in una sola “memoria condivisa”. Unendosi alle proteste dei democratici spagnoli, l’Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti in Spagna (Aicvas) organizza, dal 21 al 29 ottobre, un viaggio della memoria che si concluderà a Barcellona con la presentazione del libro in lingua italiana e catalana “Ebro 1928. No pasaran. I garibaldini caduti nella battaglia dell’Ebro”, edito dalla stessa associazione, che raccoglie, con la prefazione che Alessandro Vaia, comandante delle Brigate Garibaldi, scrisse per un volumetto stampato a Parigi nel 1939, e con un prezioso saggio introduttivo di Marco Puppini, le storie e i volti dei 166 italiani morti combattendo contro la Falange e i suoi alleati nazifascisti sulle rive del fiume Ebro, nell’ultima battaglia dei Volontari internazionali.
Erano operai e contadini, artigiani e impiegati, artisti e studenti, erano padri e figli, fratelli, anche uno zio con il giovanissimo nipote, erano comunisti, socialisti, anarchici e senza partito, originari di ogni parte d’Italia, molti immigrati per lavoro o per sfuggire al fascio, alcuni disertori del Regio Esercito, evasi dal carcere o dal confino di polizia, altri protagonisti di avventurosi espatri.
Erano uno spezzone dei 30-40mila uomini, quattromila dei quali italiani, che in tutte le nazioni europee, Germania compresa, dalle Americhe, dalla lontana Australia, erano scattati in risposta all’attacco portato da un ufficiale traditore alla Repubblica, democraticamente eletta, del suo paese. Un esercito arrivato al fronte senza armi né divise, armato solo dalla passione per la libertà di ogni popolo, da difendere ovunque e sempre, a qualunque costo. Armi e consulenti militari arrivarono solo dall’Unione Sovietica, nonostante che imponenti manifestazioni popolari e appelli di intellettuali e artisti famosi riempissero le piazze di tutti i paesi del mondo. Arrivarono invece, in aiuto del Generalissimo Franco, gli eserciti, di terra, di mare e dell’aria, completi di armamenti e sussistenza, dell’Italia fascista e della Germani nazista, molto interessate a verificare fino a che punto la Società delle Nazioni avrebbe tollerato violazioni del “non intervento”. Una tolleranza che si rivelò subito infinita quanto unilaterale: la Francia bloccò l’invio delle armi regolarmente acquistate dalla Repubblica Spagnola e ritardò il passaggio degli ultimi aiuti sovietici fino quasi a renderli inutili, alla notizia di bombe targate Usa sganciate su Madrid, Roosevelt rispose che erano state regolarmente vendute alla Germania, paese per il quale non esistevano veti. In realtà i paesi “democratici” pensavano di poter convivere con i governi di Hitler e Mussolini e nutrivano una naturale avversione per la giovane Repubblica Spagnola, nata da moti popolari e retta da una maggioranza pericolosamente colorata di rosso, ai quali appariva giusto e necessario, nel difficile equilibrio fra antifascismo e anticomunismo, far prevalere il secondo. Questa scelta apparve chiara proprio nei lunghi e sanguinosi tre mesi della guerra dell’Ebro, quando il presidente Negrin decise di far ritirare tutti i volontari internazionali, nella speranza di ottenere così l’ordine di ritirare gli eserciti di quella che stava per diventare l’Asse Roma-Berlino. Un sacrificio inutile: alla Conferenza di Monaco, Inghilterra e Francia accettarono l’invasione tedesca dei Sudeti, «per evitare una guerra mondiale», che puntualmente scoppiò in un’Europa già in buona parte militarmente occupata dai nazifascisti.
Fecero notizia le lacrime di Léon Blum, che «aveva dovuto sacrificare la Spagna per salvare la pace» e comprese nella sua dolorosa scelta i campi di detenzione che accolsero i civili spagnoli in fuga dalla Falange e i combattenti antifascisti che tornavano.
La Società delle Nazioni dichiarerà di aver avuto dal nuovo governo spagnolo la garanzia di un trattamento giusto e umanitario dei Repubblicani sconfitti, mentre si aprivano in tutta la Spagna i terrificanti “campi di rieducazione” e le prigioni traboccavano di uomini e donne di ogni età, sui quali imperversavano la garrota e i plotoni di esecuzione, che il popolo accomunò nel termine la “Pepa”, uno dei tanti nomi dati alla morte che non risparmiò nemmeno tredici ragazze minorenni fucilate insieme ai loro fidanzati e fratelli con un’ora di pausa fra le due esecuzioni per non permettere ai condannati di salutarsi un’ultima volta. Vennero ricordate come le “Tredici Rose”.
Nella Valle dell’Ebro era finita la libertà della Spagna, ma i reduci della Brigata Garibaldi avrebbero ripreso le armi e i vecchi nomi di battaglia nelle formazioni partigiane italiane, come i loro compagni in quelle di Francia, Belgio, Jugoslavia per sconfiggere il nemico di allora. Come aveva detto a Madrid, poco prima di essere assassinato, Carlo Rosselli: «Oggi in Spagna, domani in Italia».

 

(“Ebro 1938. No pasaran. I garibaldini caduti nella battaglia dell’Ebro”, pagine 158, editore Aicvas, www.aicvas.org)