Enrico Mattei: una sfida dal futuro

di Spartaco Alfredo Puttini per Marx21.it

mattei“Mattei è stato un italiano moderno,
che ha lasciato troppo presto il suo posto di combattimento”
Giulio Andreotti 
(all’epoca dei fatti ministro della Difesa)

Il 27 ottobre ricorre il 50° anniversario della morte di Enrico Mattei, fondatore dell’Eni e personaggio di primo piano della storia repubblicana. Su Enrico Mattei sono stati versati fiumi d’inchiostro. Ancor di più sul “caso”, sul mistero della sua morte. A lungo si è sostenuto che l’aereo sul quale viaggiava quella fatidica notte di ottobre del 1962 si fosse schiantato a Bascapè per un errore del pilota, anche se la maggioranza degli italiani è sempre stata intimamente convinta che Mattei sia stato eliminato. Anni fa l’inchiesta (riaperta ed archiviata) della procura di Pavia poneva la parola fine all’enigma: i cadaveri dei tre sventurati passeggeri dell’aereo dell’Eni venivano riesumati e su di essi veniva rinvenuta traccia di esplosivo.

Sulla natura dolosa del sabotaggio dell’aereo di Mattei non vi possono più essere dubbi. Enrico Mattei è stato assassinato, questa è una certezza. Restano da chiarire mandanti ed esecutori materiali dell’attentato, come in tanti altri “misteri” italiani. Forse per questa ragione non varrebbe ancora la pena di soffermarvisi. Ma la vicenda di Mattei merita forse di essere brevemente tratteggiata come una pagina della storia politica della Repubblica italiana per le complesse e molteplici sfaccettature e relazioni che ebbe con alcune questioni cardinali: lo sviluppo del paese, l’inserimento nel blocco occidentale, la costruzione dello Stato democratico e i tentativi di condizionarne, anche a suon di bombe, l’indirizzo.

Le righe che seguono non vogliono essere l’ennesimo resoconto attorno al caso, cioè all’assassinio e ai successivi depistaggi, ma più semplicemente una ricostruzione di quale era la situazione politica dell’Italia negli anni cruciali, tra ricostruzione e miracolo economico, fine del centrismo degasperiano e apertura a sinistra, nei quali si svolse l’iniziativa imprenditoriale e politica di Mattei e l’impatto che questa ebbe sugli equilibri di potere italiani e internazionali. Ne risulta un quadro che mostra da sé alcuni nodi della nostra storia coi quali misurarsi ancora; non si tratta quindi né di un semplice doveroso omaggio a un protagonista del passato (qualsiasi cosa se ne pensi), né di una semplice ricostruzione storica a puro scopo di erudizione.

– Il contesto interno

Tra la metà degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 l’Italia visse un periodo di straordinaria crescita economica, tanto che si parlò di un “miracolo”. Nonostante il permanere di gravissimi squilibri poteva dirsi chiuso il doloroso capitolo della ricostruzione del paese dalle rovine della guerra ed avviato un nuovo periodo di crescita. L’Italia, da sempre paese prevalentemente contadino, si avviava a divenire un paese prevalentemente industriale. Per la prima volta nella loro storia ampie fasce popolari assistevano a un certo miglioramento delle loro condizioni di vita. In questa trasformazione aveva indubbiamente giocato un ruolo propulsivo l’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), una holding petrolifera statale costituita attorno alla vecchia Agip nel febbraio 1953. A dirigerla vi era Enrico Mattei, comandante dei partigiani democristiani nella Guerra di Liberazione e commissario all’Agip nel dopoguerra. In questo ruolo egli si era battuto contro lo smantellamento dell’azienda di Stato e aveva condotto una vigorosa battaglia in favore dell’intervento pubblico in economia1 e, più in particolare, in favore della concessione all’Agip dell’esclusiva delle ricerca di idrocarburi nella valle Padana, che allora appariva un bacino promettente. 

Nel 1953, come accennato, lo sbocco di questa lotta fu l’istituzione dell’Eni, che si occupava della ricerca, sfruttamento e distribuzione degli idrocarburi e che nel corso degli anni avrebbe diversificato le sue attività, in Italia e all’estero.

Per salvare l’Agip prima e fondare l’Eni poi Mattei si avvale dell’appoggio di alcuni degli uomini di punta della Dc. In prima fila Ezio Vanoni, con cui più tardi fonderà la corrente “Base”, che si collocherà all’estrema sinistra della galassia democristiana. Vanoni è un sostenitore dell’intervento pubblico in economia e uno dei sottoscrittori del “Codice di Camaldoli”, che stabilisce alcuni principi guida per la partecipazione dei cattolici alla vita politica prima della nascita della Dc. Nonostante il suo stretto rapporto con i tecnocrati liberali (Einaudi e Merzagora) De Gasperi tiene Vanoni in grande considerazione. Sarà Vanoni il regista della legge che produce la nascita dell’Eni, indubbiamente la più innovativa e coraggiosa dell’intera era degasperiana, giunta nel ’53 ormai al crepuscolo a seguito della sconfitta patita dalla coalizione centrista (Dc-Psdi-Pri-Pli) nelle elezioni che nel giugno di quell’anno fanno tramontare l’ipotesi di rafforzare il quadripartito grazie al premio di maggioranza previsto dalla così detta legge truffa (che mirava a sopprimere il proporzionale con un premio di maggioranza alla coalizione che avrebbe raggiunto il 50+1 % dei voti). L’azione di Mattei s’intreccia fortemente con lo sviluppo degli equilibri interni alla Dc, partito di potere con un ruolo centrale nel sistema politico italiano.

Il quadripartito esce dalle elezioni del ’53 con uno strettissimo margine di manovra ed è molto lacerato al suo interno per la difficoltà di far coesistere i propositi riformisti che animano alcune componenti della maggioranza con le istanza conservatrici di cui si fanno portatori in particolar modo i liberali. La stessa Dc è spaccata. L’uscita di scena di De Gasperi segna lo scatenarsi della lotta tra le correnti interne al partito cattolico. Al congresso di Napoli del 1954 la guida della Dc viene assunta da Amintore Fanfani e dalla corrente di “Iniziativa democratica”. Iniziativa propone una più coraggiosa politica di attenzione alle istanze sociali ed è favorevole all’intervento pubblico in economia con un ruolo dirigista, o di orientamento, come viene definito. Nell’occasione Fanfani incassa l’appoggio della “Base”. Ma dal punto di vista politico la nuova leadership del partito non si sposta dalla formula centrista degasperiana e spera di ovviare alla debolezza dell’esecutivo con una riorganizzazione della Dc, per farne una macchina elettorale in grado di reggere la competizione del Pci. In realtà quest’opera di centralizzazione alienerà a Fanfani i notabili del partito che sono usciti emarginati dal congresso di Napoli. La nuova leadership iniziativista si scontra sin da subito con una contraddizione: vorrebbe imprimere un nuovo slancio alla politica del paese ma è paralizzata dal risultato delle elezioni. 

Il presidente della Camera Giovanni Gronchi, esponente storico della sinistra democristiana, nel suo intervento al congresso di Napoli, sostenne, per primo, la necessità dell’apertura a sinistra, cioè dell’allargamento della maggioranza di governo ai socialisti e lesse con chiarezza le grandi contraddizioni in cui si sarebbero imbattuti i nuovi dirigenti democristiani:

“Io prevedo e temo […] un’azione incerta e frammentaria del giorno per giorno, un rassegnarsi alle soluzioni parziali e temporanee, uno stato permanente di tentazione, o di necessità, del compromesso [coi liberali e con gli ambienti più conservatori]. A tanto porterà anche in avvenire, fatalmente, il perseverare anacronistico nella politica centrista. Voi, amici di Iniziativa, continuerete a parlare di riforme di struttura, di rinnovamento della vita democratica, di redenzione della povera gente; mentre quell’incomparabile sognatore che è Giorgio La Pira additerà con gesti spirituali la nuova città terrena di Dio. Ma ugualmente continuerete ad eludere il problema dell’incompatibilità di un simile programma con le possibilità offerte da una coalizione di centro”2.

Tutto il periodo che corre dal ’54 alla morte di Mattei (’62) verrà caratterizzato sul piano interno dal tormentone della necessità dell’apertura a sinistra. Si tratterà di un transizione “difficile”3, perché osteggiata da molte forze, sia sul piano interno che sul piano internazionale, determinate a garantire la conservazione degli equilibri esistenti e il fermo ancoraggio atlantico del paese.

Uno dei momenti chiave della “difficile” transizione dal centrismo al centrosinistra è l’elezione presidenziale del 1955. Contro il candidato ufficiale di Fanfani (e di Scelba), il tecnico Merzagora, si profila infatti la candidatura di Gronchi, sostenuto in primo luogo dalle componenti di sinistra della Dc e da una parte del notabilato democristiano che osteggia le pretese egemoniche di Iniziativa all’interno del partito. Gronchi sottolineava l’esigenza di porre rimedio agli squilibri che avevano caratterizzato l’azione politica degasperiana, specie in campo sociale. Soprattutto intendeva dare al paese una prospettiva più solida di crescita nel lungo periodo grazie ad un qualificato intervento dello Stato in economia per il quale vi erano già importanti strumenti, come l’Eni e l’Iri (quest’ultima andava però sganciata dalla sua commistione coi settori della grande imprenditoria monopolistica privata). Gronchi poneva anche la questione (da vari settori sentita) di sfruttare le nuove potenzialità offerte dalla crescita economica italiana per svolgere una politica estera più autonoma (pur senza arrivare a mettere in discussione la scelta atlantica, come invece aveva fatto apertamente in passato). Dopo l’esito delle elezioni del ’53 Gronchi ravvide la possibilità di sviluppare una politica di questo tipo solo favorendo un’apertura a sinistra al Psi, come ricomposizione, sia pure parziale, dell’intesa tra i partiti di massa per allargare la partecipazione del mondo del lavoro alla vita politica nazionale. Su queste basi la sua candidatura appariva chiaramente come una rottura e una premessa dell’apertura a sinistra. Per questo socialisti e comunisti la sostennero. Di fronte all’inevitabile scenario che si andava profilando, di un presidente della Repubblica eletto con i voti congiunti di tutte le sinistre, dal Pci fino alle componenti più progressiste della Dc, Fanfani fu costretto ad accettare la bocciatura di Merzagora e l’elezione di Gronchi, che avvenne trionfalmente4.

Da allora Gronchi cercherà di influire dal Colle per favorire, nel limite dei suoi poteri, la maturazione dell’esperienza di centro-sinistra. L’arrivo al Quirinale di colui che in passato era stato uno dei principali avversari della scelta atlantica in ambito cattolico e che ora si faceva portavoce dell’intesa tra la Dc e i socialisti, ancora dichiaratamente attestati su posizioni neutraliste, non poteva che allarmare gli americani circa la piega che stava prendendo la politica italiana. A preoccupare ancora di più era la postura che Italia stava assumendo in politica internazionale, una postura che poteva vivere una radicalizzazione a causa dell’incipiente svolta a sinistra che si minacciava all’orizzonte.- Il contesto internazionale

Proprio nel 1955 l’Italia viene ammessa alle Nazioni Unite e può dirsi finita la quarantena post-bellica. Lo sdoganamento del paese che, grazie alla crescita economica, può giocare un ruolo più attivo a livello internazionale costituisce il terreno sul quale maturano convinzioni nuove e un diverso approccio agli affari internazionali. Del resto a metà anni Cinquanta sta cambiando il mondo. Il processo di decolonizzazione lo scuote. Travolge le vecchie Potenze coloniali (Inghilterra e Francia) ovunque, anche nel Mediterraneo. L’Egitto diviene paladino della rinascita araba e Nasser si afferma come uno dei leader dei non allineati. Nell’Algeria, ancora soggetta alla Francia, scoppia la rivoluzione ed inizia una cruenta guerra di repressione da parte dei governi di Parigi. L’Italia si guarda attorno e inizia a muoversi con dinamismo nella nuova corrente che si è prodotta; stringe rapporti con i paesi di nuova indipendenza sollevando molti sospetti circa la sua fedeltà alla solidarietà occidentale. Si parla pudicamente di “neoatlantismo”, cioè di un atlantismo adattato ad una fase nuova. All’estero non sono in pochi a ritenere che dietro questo slogan si nasconda un doppiogiochismo bizantino, un camuffamento di tentazioni neutraliste o di velleitarie spinte autonomiste. 

In realtà occorrerebbe parlare di “neoatlantismi” al plurale. Perché vi è una sostanziale differenza tra quello di Pella, che propone una sorta di piano Marshall per il Vicino oriente cui potrebbe partecipare l’Italia per legare quei paesi all’Occidente (progetto che in termini geopolitici potremmo definire un tentativo di costruire un grande spazio integrato in cui l’Italia avrebbe dovuto assumere un ruolo di rilievo su mandato Usa); quello di Fanfani che, sull’onda della crisi di Suez specialmente, inserisce il nuovo attivismo italiano nel quadro di un rapporto preferenziale con gli Stati Uniti, visto che Francia e Inghilterra si sono bruciate e sono impresentabili come alleate nella regione (vi è chi in proposito ha parlato più di un altro atlantismo che di neoatlantismo, e non a torto)5; vi è infine quello di Gronchi e di Mattei (che mi sento di accomunare anche se è maturato in momenti diversi, probabilmente) che risulta indubbiamente più spiccatamente neutralista o autonomista.

In sostanza i “neoatlantisti”, pur accettando l’alleanza, cercano di agire secondo l’interesse nazionale ma spesso, ne siano coscienti o meno i protagonisti, i due elementi divergono paurosamente.

L’Italia approfitta di aver perso tutte le colonie per presentarsi con un volto nuovo e con nuove possibilità. L’Eni ha un ruolo di punta in questa politica e svolge una sua azione diplomatica parallela. Cercando di ottenere la sovranità energetica per il paese, le cui ricchezze minerarie sono di molto inferiori alle attese maturate nell’immediato dopoguerra e i cui bisogni di idrocarburi sono vertiginosamente crescenti, Mattei si spinge a stringere contatti con i paesi di nuova indipendenza, anche quando questi sono invisi agli Stati Uniti per il loro neutralismo e per il loro nazionalismo (come l’Egitto di Nasser). Mattei non si rassegna a giocare il ruolo di rivenditore di petrolio e cerca di avere diretto accesso alle fonti, scavalcando i giganti internazionali del settore, le anglo-americane Sette Sorelle. Stabilisce così una partnership innovativa coi paesi produttori tramite consociate tra imprese statali del settore con la formula 75% degli utili ai paesi produttori, 25% all’Eni, che si impegna ad utilizzare la sua tecnologia per esplorare le zone di concessione a suo esclusivo carico, fino al ritrovamento dei giacimenti. Nel 1957 un accordo di questo tipo viene sottoscritto con l’Iran e infrange la regola del fifty-fifty, che da poco le Sette Sorelle si erano rassegnate ad adottare. In breve la formula Mattei viene estesa agli accordi pattuiti con altri paesi creando un precedente. La posizione delle multinazionali anglo-americane del settore è, in prospettiva, minacciata6.

In poche parole la politica di Mattei aiuta l’Italia mentre aiuta i paesi del Terzo Mondo e il suo effetto, voluto o meno, è di rendere entrambi più indipendenti dal condizionamento anglo-americano.

– Il nemico italiano

Con al sua politica petrolifera Mattei mina le posizioni delle Sette Sorelle nei paesi produttori, indebolendo così l’influenza indiretta degli Usa su quei paesi. Offrendo loro una sponda grazie alle partnership che instaura ne accresce la spinta autonomista. Ricorrendo alla retorica anticoloniale diviene una sorta di alfiere della liberazione del Terzo Mondo in un paese occidentale. Ma non basta. Mattei utilizza il suo potere economico per sostenere il “neoatlantismo” in politica estera e l’apertura a sinistra sul piano interno. Cioè ad un tempo una politica estera di maggiore autonomia dall’America (e spesso in collisione con gli obiettivi statunitensi nella cruciale scacchiera a cavallo tra Europa e Mediterraneo) e uno spostamento del baricentro politico del paese a sinistra, con l’ingresso dei socialisti nell’area di maggioranza che verrebbe a sommarsi alla già influente presente dei settori neutralisti della sinistra Dc. A questo quadro si aggiungano le spinte esterne che il Pci continua energicamente ad esercitare dall’opposizione. Quello appena tratteggiato risulta un contesto potenzialmente incontrollabile. Per queste ragioni per Washington, tra il 1955 e il 1961, l’apertura a sinistra risulta inaccettabile e Mattei viene considerato, a causa della sua influenza, pericoloso.

Nel trattare la vicenda di Mattei si è messo in risalto ora un aspetto (la sfida alle compagnie petrolifere anglo-americane) ora l’altro (l’appoggio alla resistenza algerina) ma il limite di approcci siffatti era sempre stato quello di essere parziali. Agli studi di Nico Perrone dobbiamo l’aver posto l’accento sull’effetto complessivo delle scelte di Mattei e sulla portata, potenzialmente devastante, della sua influenza nello sviluppo della politica (estera e interna) italiana. Dall’analisi che egli fa dei documenti statunitensi emerge, oltre che la grande importanza attribuita a Mattei, anche il timore statunitense derivante dal possibile e progressivo disallineamento dell’Italia dallo schieramento atlantico. Responsabili di questo disallineamento erano considerati, in misura diversa, i “neoatlantici” e i cripto neutralisti. Mattei era visto come il motore di questa tendenza che aveva per protagonisti, oltre allo stesso presidente dell’Eni, il Capo dello Stato Giovanni Gronchi e, seppur in misura minore, il leader Dc Fanfani (che tra il 1958 e il 1959 era contemporaneamente segretario del partito, presidente del consiglio e ministro degli esteri).

Se dei tre Fanfani è forse quello che incute meno timore, non per questo risulta totalmente rassicurante. Anche egli si dice sicuro di poter instaurare un rapporto positivo con Nasser, che gli Usa vedono come il demonio; si spinge (come Mattei) ad accarezzare l’idea che l’Italia partecipi ai finanziamenti per la costruzione della Diga di Assuan, che gli anglo-americani avevano deciso di boicottare; recentemente (1957) si era convertito all’idea di una progressiva apertura a sinistra. La sua stessa idea di associarsi da pari agli Usa per ritagliare all’Italia un ruolo importante nel Mediterraneo, scavalcando Francia e Gran Bretagna, non può piacere agli Stati Uniti.

Forse Fanfani non coglieva appieno alcune dinamiche. Infatti, se era vero che gli Usa non erano una Potenza coloniale tradizionale (almeno non nel Mediterraneo, altrove sì) era altresì vero che si mostravano parimenti ostili ad una accresciuta indipendenza sostanziale dei paesi non allineati. Il loro stesso essere neutrali e non accettare i patti militari che Washington proponeva in funzione antisovietica indispettiva gli Usa (e rappresentava un elemento di frizione costante con Nasser). Durante la crisi di Suez Washington aveva sconfessato l’attacco anglo-franco-israeliano all’Egitto perché votato al fallimento e controproducente. Nel contesto della partita con l’Urss per l’influenza sul mondo arabo, gli Usa non potevano lasciare ai sovietici la bandiera di difensori dei paesi arabi dal colonialismo. Ma, a ben guardare, Washington era all’origine della crisi di Suez tanto quanto gli inglesi, perché la crisi era stata innescata dal rifiuto anglo-americano di concedere prestiti all’Egitto per la costruzione della diga di Assuan, come da accordi precedenti, al fine di esercitare una pressione su Nasser e fargli abbandonare la sua politica di avvicinamento all’Est. Essendo un nazionalista Nasser non aveva accettato l’imposizione di limitazioni alla sovranità egiziana e aveva finito con il rilanciare pericolosamente la sfida nazionalizzando la Compagnia che gestiva il canale di Suez. Fino alla precipitazione, gli Usa, la Francia e l’Inghilterra erano pertanto sulla stessa barca, l’Italia già no. La proposta di Fanfani non tiene conto di questi basilari elementi.

Ancor più dirompenti dovevano risultare agli occhi statunitensi le azioni spregiudicate di Mattei e le opinioni di Gronchi.

La questione indicata dai documenti segreti statunitensi, cui Perrone fa riferimento, consiste proprio “nell’intreccio fra gli affari dell’ENI e i disegni di politica estera di Mattei, che pesano sulla linea ufficiale italiana, fino al punto di far temere, agli Stati Uniti, che potessero condurre a mettere in discussione il quadro dell’alleanza atlantica”7.

In una missiva del dicembre 1958 viene esplicitamente sostenuto che: “Il contenimento del potere di Enrico Mattei a un campo ristretto e la riduzione della sua possibilità d’influenzare illegalmente il governo allontanerebbe una pesante minaccia dalla stabilità economica e politica dell’Italia”8, laddove con “stabilità” deve leggersi “schieramento”.

Cyrus Sulzberger, columnist del “New York Times”, molto vicino agli ambienti del Dipartimento di Stato Usa tanto da essere ritenuto una voce ufficiosa del Dipartimento stesso, in un suo articolo definì Mattei “l’eminenza grigia” della politica italiana9. A Sulzberger Mattei aveva confidato, nel corso di un’intervista, di essere contrario alla Nato e per il neutralismo ed aveva aggiunto che anche Gronchi e Fanfani la pensavano come lui, ma non potevano esporre queste loro vedute in pubblico10.

Un intelligence report dell’Office of Intelligence Research and Analysis (IOR), Division of Research of Western Europe, del Dipartimento di Stato dal titolo: Neo-Atlanticism’ as an Element in Italy’s Foreign-Policy del 10 gennaio 1958 sostiene tra l’altro:

“L’asse Gronchi-Mattei è divenuto ora uno dei fattori più importanti nello sviluppo della politica italiana nel Medio Oriente”11. Ed aggiunge: “Presi separatamente, come pure insieme, i due uomini appaiono toppo ingombranti per poter essere controllati dal leader del partito, Fanfani; piuttosto che combatterli, e comunque probabilmente condividendone le vedute generali sulla politica estera italiana, egli ha costituito un’alleanza di lavoro con Gronchi”12.

Un altro report tratta esplicitamente del “Ruolo di Enrico Mattei nella politica interna e internazionale dell’Italia”. In esso viene sostenuto che: 

“Nell’attuale scena politica italiana, è assai improbabile che la politica di Mattei e il suo potere vengano distrutti, o almeno seriamente ridimensionati. […] Poiché è ritenuto uno dei più rilevanti erogatori di contributi al partito della Democrazia Cristiana, al momento sarebbe molto difficile, per la leadership italiana, interferire seriamente con le sue attività. Inoltre ha molti amici e sostenitori all’interno della leadership democristiana. […] Verosimilmente le attività di Mattei non saranno ridotte finché Gronchi e Fanfani rimarranno politicamente importanti, in quanto entrambi condividono il convincimento di Mattei circa gli ‘interessi’ e le ‘competenze’ italiani nell’area mediterranea. […] Una coalizione di governo conservatrice tenterebbe probabilmente di regolare le attività di Mattei in campo interno, ma persino una coalizione conservatrice è inverosimile che possa tentare di esercitare un serio contenimento delle attività di Mattei all’estero. Il petrolio più a buon mercato, e i richiami al nazionalismo, si uniscono nello sviluppo dell’impero di Mattei, una combinazione di fattori che rende la sua ‘politica estera’ al tempo stesso popolare e pressoché immune da attacchi”13.

Il quadro appariva assai preoccupante per Washington. Si tenga conto che le azioni dell’Eni e, parallelamente, dell’Italia dovettero risultare sempre più spregiudicate e pericolose agli occhi degli americani, sia a causa dei contratti firmati dall’Eni con l’Unione Sovietica, che portavano nel 1960 l’Italia a veder soddisfatto il suo fabbisogno di petrolio per circa il 20% dall’URSS, sia a causa della visita di Stato del presidente Gronchi a Mosca. Il tutto nel paese con il più grande partito comunista dell’Occidente! 

Incontrando Mattei dopo il contratto sovietico Nenni annotò sul suo diario in data 18 novembre 1960: “una operazione quasi rivoluzionaria che ha suscitato attacchi in America e ripercussioni in Italia […]. Mattei dice di aver voluto dare un avvertimento all’America perché capisca che non può più continuare a sfruttarci facendoci pagare prezzi esosi sul petrolio del Medio oriente. Tutto ciò deve cambiare e Mattei sembra deciso a farlo se non gli stroncano le gambe. Lo dobbiamo aiutare nell’interesse della nazione”14.

– La sfida perduta

Si è sostenuto che l’atteggiamento statunitense nei confronti del varo di una maggioranza di centro-sinistra cambiò in concomitanza con l’ascesa del democratico Kennedy alla Casa Bianca. La tesi aggiunge un tassello all’icona, in realtà un po’ idealizzata, del presidente americano15. La questione appare assai più sfumata. All’inizio degli anni Sessanta, proprio mentre la minaccia di Mattei si faceva più pericolosa, l’apertura a sinistra non poteva più essere rimandata. Nel 1960 il tentativo di bloccare lo spostamento a sinistra dell’equilibrio politico italiano con il governo Tambroni (paradossalmente nato proprio per aprire al Psi), formatosi grazie ai voti determinanti dei neofascisti, aveva prodotto una polarizzazione politica pericolosissima. Da tale polarizzazione poteva derivare una riedizione di fronte popolare allargato alla sinistra Dc, che avrebbe sdoganato il Pci e che avrebbe potuto avere un impatto sugli assetti italiani ancor più devastanti dello stesso centrosinistra. Ciò era evidente a chi, all’interno dell’Amministrazione Kennedy, si occupava delle vicende italiane e cominciò pertanto ad operare per preparare il terreno all’ormai inevitabile ingresso del Psi nell’area di governo16. Secondo Schlesinger, nonostante tutto, il Dipartimento di Stato era ostinatamente contrario all’apertura soprattutto per gli effetti che questa avrebbe potuto avere sulla politica estera italiana.

Durante una visita di Fanfani negli Usa, Kennedy disse al suo interlocutore che “in futuro gli Stati Uniti avrebbero assunto una posizione di ‘prudente simpatia’”17 verso l’apertura. La sottolineatura “in futuro” e la scelta del termine “prudente” lasciano inevitabilmente intendere che ovviamente Washington non si rassegnava a vedere l’Italia andare per la sua strada e, accettato obtorto collo il centrosinistra, voleva delle garanzie. Da qui l’ipotetico suggerimento a preparare il terreno con cura (“in futuro”) affinché la nuova formula di governo potesse essere messa in campo senza rischiare di distruggere equilibri e interessi consolidati. In questo caso gli Stati Uniti avrebbero visto di buon occhio una raggiunta stabilità governativa con l’isolamento dei comunisti (“simpatia”) e forse anche qualche riforma non troppo lesiva dei settori monopolisti tramite cui si esercitava una presa indiretta sul paese da parte dei capitali transatlantici. Ma tutto lascia intendere che non veniva contemplata la possibilità che l’Italia continuasse a coltivare una sua autonomia. Insomma, ciò che era accettabile era un centrosinistra svuotato.

Data la preoccupazione che emerge dai documenti statunitensi circa gli effetti dell’apertura è inverosimile ritenere che gli Stati Uniti cambiassero indirizzo solo in virtù della supposta (e tutta da dimostrare) apertura mentale del nuovo presidente. Resta un dato di fatto che Nenni accettò il patto atlantico e che il neutralismo del Psi evolse nell’accettazione piena degli equilibri internazionali correnti. E’ ancor più evidente che i governi di centrosinistra che si sarebbero succeduti dal 1963-1964 sarebbero stati effettivamente svuotati persino in confronto a quello inorganico (cioè con l’appoggio esterno socialista) di Fanfani che era in carica proprio nel 1962 (questo è ciò che ammette quasi tutta la storiografia sull’argomento).

Ma per depotenziare dalle sue componenti più pericolose l’apertura era necessario neutralizzare i protagonisti ritenuti più determinati. Si può notare che Gronchi, in parte bruciato dalla scelta Tambroni del ’60, perse la sua influenza perché non rieletto al Quirinale nel 1962 (nonostante la sponsorizzazione di Mattei). Così, l’uomo che più di tutti aveva lavorato per far maturare il quadro politico italiano verso l’apertura a sinistra veniva messo da parte proprio quando il suo impegno decennale stava dando frutto. Presidente della Repubblica sarebbe poi divenuto Segni, grazie all’appoggio dei settori più conservatori della Dc, i dorotei, che guidati da Moro avevano preso il controllo del partito alcuni anni prima per fermare Fanfani quando questi aveva mostrato la sua propensione ad aprire al Psi, propensione formulata al convegno di Vallombrosa18. Ma dopo il luglio ’60 anche i dorotei si erano ormai rassegnati a intavolare trattative coi socialisti, pur con tutte le cautele del caso.

Il destino di Mattei sembrava invece deciso in un vertice del Dipartimento di Stato, tenutosi il 17 marzo 1962. In precedenza Mattei aveva incontrato Averell Harriman, ambasciatore itinerante di Kennedy, e l’incontro non era stato propriamente un successo. Stando a Cazzaniga, rappresentante della Esso in Italia, “Harriman si fece l’idea di Mattei come di un individuo ‘un po’ esaltato’, e [sostenne] che quell’uomo poteva essere pericoloso ‘se fosse stato sostenuto da una politica estera un po’ aggressiva’”19. Il Dipartimento di Stato decise di tentare la strada di un accomodamento e per questo giunse a fare pressioni sulla compagnie petrolifere affinché appianassero le loro divergenze con l’Eni. Il vicesegretario di Stato Ball, concluse che “forse egli [Mattei] non desidererebbe essere addomesticato, ma noi non ci perdiamo niente a tentarlo”20.

E’ assai dubbio ed incongruente con la figura del personaggio ritenere che Mattei avrebbe accettato di essere addomesticato, ma il fatto stesso che Mattei fosse sul punto di cominciare trattative con gli americani ha fatto sostenere che non vi era interesse da parte statunitense ad eliminarlo. 

In un primo tempo queste voci, che circolarono subito dopo la morte di Mattei, erano servite per depistare dall’attentato, insieme alle altre, malevoli e infondate, indiscrezioni circa la crisi che attraversava l’Eni e che la obbligavano alla composizione dei contenziosi con le compagnie seguendo la linea che poi avrebbe adottato il successore di Mattei, Eugenio Cefis, e consistente nella resa alle compagnie stesse. Giorgio Galli, che a lungo si è occupato della vicenda e del caso Mattei, ha ampiamente raccolto testimonianze che destituiscono di fondamento queste voci, sia circa la presunta crisi dell’Eni (che era anzi in espansione alla morte di Mattei), sia circa la continuità con cui la gestione Cefis è stata a lungo presentata, sottolineando che la nuova dirigenza smantellò ciò che Mattei aveva costruito limitandosi ad accettare di lavorare il petrolio delle compagnie anziché divenire produttrice in proprio21. Galli sottolinea che lo stesso Cefis era stato allontanato dall’azienda alcuni mesi prima della morte di Mattei e sostiene lecito ritenere che con Mattei in vita le trattative con le compagnie avrebbero seguito altri binari.

In effetti sappiamo che Mattei era sul punto di firmare un’importante accordo con l’Algeria ormai indipendente22. Il suo sostegno alla lotta algerina era sempre stato fortissimo. Ancora oggi in Algeria lo si ricorda con affetto e riconoscimento. Nel dicembre del 2010 si è tenuto un convegno ad Algeri in suo onore, sponsorizzato addirittura dal presidente Buteflika, dal titolo: “Enrico Mattei e l’Algeria durante la guerra di Liberazione nazionale”. Mattei, tramite la sua diplomazia parallela, aveva fornito al GPRA (Governo Provvisorio della Repubblica Algerina) gli elementi e i consigli per quelle rivendicazioni sovrane sulle ricchezze minerarie del Sahara che gli algerini fecero proprie durante le trattative coi francesi ad Evian. Con la vittoria dell’FLN algerino diventava possibile stringere quella partnership che avrebbe dato all’Eni una posizione contrattuale fortissima in vista delle trattative con le compagnie americane.

Ma, quando Mattei morì, di trattative si parlava e basta. Non erano ancora state imbastite e, come sempre in casi come questi, dove le divergenze strategiche delle parti sono rilevanti, il loro esito era tutt’altro che scontato. Sappiamo solo che gli americani erano disposti a trattare. 

Fino alla crisi di Cuba, quanto meno.

– A un passo dalla guerra

Merito di Perrone è anche quello di aver messo in relazione l’uccisione di Mattei nell’ottobre 1962 con la crisi dei missili a Cuba, che scoppia parallelamente e che porta il mondo a un passo dalla guerra termonucleare. Le vicende della crisi sono note. Gli aerei-spia Usa scorgono le rampe di missili sovietici a Cuba il 16 ottobre. Il 22 viene decretato l’embargo all’isola. Il 27 (!) un altro aereo spia viene abbattuto e si è sull’orlo della catastrofe23. Meno noto è che il comitato di crisi statunitense discute dell’ipotesi di bombardare l’isola e congettura sulla possibile rappresaglia sovietica sulle basi missilistiche americane in Turchia o in Italia.

Proprio la tenuta dell’Italia nell’attuale crisi doveva apparire dubbia. Non solo per la presenza di inevitabili cliché legati al cambio delle alleanze e ai giri di valzer di cui il paese aveva dato prova in altre epoche. Quanto per la congiuntura che il paese attraversava nell’ottobre ’62, con il peso delle correnti cripto neutraliste di cui si è trattato e proprio con un governo Fanfani che si giovava dell’appoggio esterno del Psi (il centrosinistra inorganico). 

L’essere nel mirino non poteva che aumentare le spinte neutraliste. Lo stesso discorso di Fanfani alla Camera al momento della crisi era apparso tiepido.

Durante quel braccio di ferro e in previsione del peggio gli Usa non potevano permettersi tentennamenti. In quel caso, non in modo necessariamente coordinato, alcuni ambienti dell’intelligence americana potrebbero aver avuto la tentazione di ricorrere ad una di quelle operazioni coperte che generalmente vengono studiate ma che nella maggioranza dei casi sono destinate a restare nei cassetti. Proprio per far fronte alla sfida costituita da Cuba la Cia aveva avuto ampio margine discrezionale per le sue attività. E’ stato addirittura sostenuto da più parti che spesso lo stesso presidente veniva informato a cose fatte. Tale libertà aveva in passato spinto l’Agenzia ad approfittare dei propri addentellati con il crimine organizzato per imbastire operazioni coperte. La figlia del boss mafioso Giancana aveva raccontato di come la Cia avesse assoldato manodopera mafiosa per attentare alla vita di Castro.

La stessa cosa è ipotizzabile sia accaduta con Mattei, che partì con il suo aereo dalla Sicilia, prima che la sua vita venisse spezzata a Bascapè24. 

Schlesinger stesso nota che in caso di crisi internazionali ciascun livello operativo si riteneva libero di coltivare le sue preferenze25. 

La tesi della manodopera mafiosa è ripresa e arricchita da Galli che, pur accettando la tesi di Perrone, tuttavia mi pare talmente incline a sottolineare questo aspetto della vicenda da limitare il quadro all’Italia; quadro che così perde il suo aspetto più significativo: il condizionamento internazionale. 

Un’altra pista, non necessariamente alternativa, è quella che punta su complicità nei servizi e nella stessa Eni, attorno alla quale di uomini di intelligence ne giravano notoriamente parecchi. 

Il rappresentante della Gulf Oil in Italia, Niccolò Pignatelli, ha raccontato a “L’Espresso” che la sera della morte di Mattei era a cena proprio con l’attaché della Cia a Roma, Karamessines (che in seguito sarebbe divenuto famoso per la cattura del Che in Bolivia):

A Pignatelli “Karamessines ‘parve singolarmente teso’; alla cravatta si era attaccato un piccolo microfono”26.

– Una sfida dal futuro

Per concludere può essere utile riportare ciò che scrisse alcuni giorni dopo la tragedia di Bascapè, nel necrologio del “New York Times” (sotto il titolo “Morte di un’eminenza grigia”), un avversario di Mattei, il già citato Sulzberger:

“Vi sono occasioni in cui la morte di un singolo uomo, che non sia particolarmente famoso, può tuttavia rivestire un significato mondiale. Tale potrà forse essere il caso di Enrico Mattei, ucciso [killed] alcuni giorni fa in un incidente aereo.

Mattei, per quanto fosse conosciuto soltanto come il capo del complesso monopolio dei combustibili del suo paese, era forse l’individuo più importante in Italia. Tuttavia egli preferiva rimanere dietro le quinte, nel ruolo di una éminence grise.

La sua influenza spaziava nella politica italiana, nell’equilibrio della guerra fredda fra Oriente e Occidente e, indirettamente, nei rapporti diplomatici di un’importante potenza della NATO con il blocco comunista e i neutrali afroasiatici. 

Mattei era un uomo di grande fascino, intelligenza e coraggio. […] Egli non era né comunista né loro compagno di strada, sebbene avesse sviluppato, durante gli ultimi anni, una forte deviazione antiamericana e anti NATO. …”27

La questione che qui preme sottolineare non è tanto quella del caso e delle piste. Di piste ne sono state segnalate forse troppe in questa disgraziata vicenda, tante da poter far parlare di un involontario depistaggio. Molte crollano da sé, per l’inconsistenza di cui si nutrono (quella francese, perché Mattei aveva trovato un accomodamento con i francesi grazie alla svolta anticoloniale e filoaraba di De Gaulle; quella inglese, che ignora che il declino dell’egemonia britannica nelle vicende mediterranee era già conclamato agli inizi degli anni Cinquanta; addirittura quella, impalpabile e assai fragile, israeliana, sulla quale non vale la pena soffermarsi…).

La ricostruzione più completa ed esaustiva resta indubbiamente quella, qui richiamata, di una seria preoccupazione statunitense verso la situazione politica italiana, complessivamente intesa, con un forte apprezzamento del ruolo di Mattei come motore delle correnti “neoatlantiste” o neutraliste che minavano la tenuta atlantica dell’Italia. A Perrone va riconosciuto il merito di aver posto al centro questo complesso intreccio, di averne basata la ricostruzione su documenti statunitensi di prima mano e di aver scorto nella crisi di Cuba il momento di precipitazione di un antagonismo che, a parere di chi scrive, appariva comunque irriducibile.

Ciò che è stato tentato in queste righe, al di là del bilancio storiografico sulla vicenda di Enrico Mattei, le cui vedute di politica economica e internazionale appaiono modernissime, è una maggiore sottolineatura delle implicazioni che sull’allineamento dell’Italia minacciava di avere potenzialmente l’apertura a sinistra.

Oltre alla modernità di cui sopra, resta da riflettere anche sulla relazione che storicamente è corsa tra le riforme strutturali tentate dalle forze progressiste sul piano interno e i vincoli internazionali dell’Italia. Ogni qualvolta il cambiamento prospettato rischiava di investire sia il piano interno che quello internazionale, invero interrelati, si è cercato di condizionare lo sviluppo politico italiano a suon di bombe. Quando questa correlazione veniva invece artificiosamente negata e si propendeva per barattare alcune riforme sul piano interno con l’accettazione degli obblighi atlantici del paese (da Nenni a Berlinguer), non si è mai riusciti ad incidere davvero su nessun piano significativo e, soprattutto, il rapporto di forze tra il fronte progressista e il blocco delle forze conservatrici si è sempre spostato in breve tempo a favore del secondo.

La vicenda di Enrico Mattei, vista con lo sguardo rivolto a tutta la storia repubblicana, sviluppi successivi inclusi, forse suggerisce proprio questa reciprocità, la difficoltà del rebus. 

Un sfida dal futuro.

NOTE

1 Anni dopo, nel corso della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università di Camerino il 27 aprile del 1960, Mattei ebbe modo di sottolineare i motivi che rendono necessario l’intervento pubblico:

“Lo stato italiano è intervenuto nel settore degli idrocarburi per due ragioni essenziali. Innanzitutto per evitare che il mercato nazionale del petrolio rimanesse sotto il controllo di poche grandi organizzazioni estere. In secondo luogo, per dare impulso alla ricerca di idrocarburi nella quale i privati […] non avevano ritenuto conveniente impegnarsi. […] L’evoluzione del pensiero economico ha fornito ulteriori ragioni delle necessità dell’intervento dello stato. […] Gli stati più progrediti hanno dovuto assumere il sostegno di vasti settori economici […] che condizionavano la vita stessa del paese o di grandi masse di lavoratori. La teoria economica è venuta via via chiarendo sia i principi generali sia le applicazioni concrete delle attività economiche degli enti pubblici, e precisando quei settori che, in mano allo stato, possono esercitare una funzione propulsiva dello sviluppo economico. In questi settori viene da tutti compreso quello delle fonti d’energia”.

2 G. Gronchi, Una via nuova; Roma Ed. Politica sociale 1955, p.59

3 P. Di Loreto, La difficile transizione: dalla fine del centrismo al centro-sinistra, 1953-1960; Bologna Il Mulino 1993

4 Per avere un’idea del clima e del significato politico dell’elezione di Gronchi a Capo dello Stato si veda “L’Unità” del 29 e 30 aprile 1955 che parla di una sconfitta di “incalcolabili proporzioni” per l’asse Fanfani-Sceba e per gli ambienti conservatori.

5 E. Martelli, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana, 1958-1963; Milano Guerini 2008

6 “Il Dipartimento di Stato è preoccupato, e le grandi società petrolifere americane sono adirate, circa la probabilità che l’Iran, all’inizio di questo mese, rompa il solido fronte degli accordi con la partecipazione fifty-fifty ai profitti fra i governi del Medio Oriente e le società petrolifere occidentali.” Si veda: “The New York Times”, 2/9/1957

7 N. Perrone, Mattei il nemico italiano; Milano Leonardo 1989, p.99

8 Ibidem, p.102

9 C. Sulzberger, The Long Shadow of a New Condottiere, in: “The New York Times”, 29/11/1958

10 Nel caso di Gronchi era nota da tempo l’ostilità verso l’Alleanza atlantica, nel caso di Fanfani tuttavia è assai poco probabile.

11 N. Perrone, op. cit.; l’Autore riporta il report in Appendice, pp. 132-135

12 Ibidem

13 Ibidem, Appendice 2, pp.136-142

14 P. Nenni, Gli anni del centrosinistra: diari 1957-1963; Milano SugarCo 1982, p.148

15 Per una critica della costruzione del mito di Kennedy, specialmente per quanto riguarda la guerra in Vietnam, si veda: N. Chomsky, Alla corte di re Artù: il mito Kennedy; Milano Eleuthera 1994

16 Esplicito è in proposito Arthur Schlesinger, collaboratore di Kennedy e costruttore del suo mito storiografico. Si veda: A.M. Schlesinger, I Mille giorni di John F. Kennedy alla Casa Bianca; Milano Rizzoli 1966, pp.874-875. Schlesinger sostiene anche che “Il presidente Kennedy aveva una certa familiarità con i problemi italiani”, Ibidem, p.871

17 Ibidem, virgolettato nel testo.

18 Si veda G. Di Capua, La via democristiana al socialismo: l’apertura a sinistra da Vallombrosa a San Ginesio, 1957-1969; Milano Edizioni della Libreria [1970]

19 N. Perrone, op. cit.; p.180

20 Ibidem, p.182

21 G. Galli, Enrico Mattei: petrolio e complotto italiano; Milano Baldini Castoldi Dalai, [2005]

22 Ibidem. All’accordo avrebbero partecipato anche i francesi che con De Gaulle avevano ormai liquidato la politica colonialista della IV Repubblica e dei putschisti di Algeri.

23 Una ricostruzione della crisi di Cuba è offerta da L. Nuti, I missili di ottobre : la storiografia americana e la crisi cubana dell’ottobre; Milano Led 1994

24 “[…] la figura di Mattei, agli occhi di diverse personalità di vertice dell’establishment, ebbe una dimensione che esulava da quella del petroliere e una valenza che la faceva pesare sugli equilibri internazionali.

Nell’eccezionale emergenza della crisi cubana (in cui l’amministrazione operò in modo disordinato, asistematico, ma non per questo inefficiente) non appare inverosimile l’ipotesi che un progetto di covert action (previsto come puramente eventuale e magari destinato a rimanere altrimenti congelato) si sia dovuto mettere frettolosamente in esecuzione come azione preventiva, per offrire ai politici, a cose fatte, il campo sgombro da pericoli collaterali, che sarebbero divenuti immediatamente assai gravi se ci fossero stati sviluppi bellici”. Si veda N. Perrone, op. cit.; pp. 206-207

25 A.M. Schlesinger, op. cit.; p.874

26 “L’Espresso”, 1 luglio 1984; la citazione qui fatta è in: N. Perrone, op. cit.; p. 211

27 “The New York Times”, 5/11/1962; citato da N. Perrone, op. cit.; p.217. La sottolineatura è mia