Il processo Stalin. L’ultimo libro di Ruggero Giacomini

giacomini ilprocessostalinRiceviamo e volentieri pubblichiamo

di Salvatore Tinè

Il libro di Ruggero Giacomini Il processo Stalin (Castelvecchi, 2019) costituisce un importante contributo ad una riflessione critica sul ruolo e le stesse responsabilità personali di Stalin in alcuni dei momenti insieme più drammatici e controversi della storia dell’URSS degli anni ’30 e ’40.

La prospettiva da cui tale riflessione viene sviluppata si differenzia infatti radicalmente da un’ottica puramente e aprioristicamente demonizzante o criminalizzatrice della figura di Stalin, favorendo piuttosto una valutazione critica di essa non solo più oggettiva e fondata sulla documentazione storica oggi disponibile ma anche più attenta alla straordinaria complessità e contraddittorietà degli oggettivi processi storici in cui la direzione politica del dirigente comunista si dispiegò lungo quei due terribili decenni.

La serrata critica condotta da Giacomini di quel vero e proprio “processo a Stalin” post mortem, che Kruscev tentò di costruire nel suo celebre “rapporto segreto” al XX Congresso del PCUS nel febbraio del 1956, delle sue contraddizioni e delle sue stesse falsificazioni, mira in questo senso a collocare la personalità e l’opera di Stalin non solo nel contesto del più generale processo di edificazione del socialismo in Urss e delle lotte di classe che lo scandiscono drammaticamente ma anche nel quadro internazionale, insieme europeo e mondiale, segnato già nel corso dei primissimi anni ’30. dalla prospettiva, avvertita dal gruppo dirigente sovietico come ormai incombente, della guerra. È in particolare il 1932 ad essere indicato da Giacomini come l’anno addirittura “più difficile” nella storia dell’Unione Sovietica, “dopo la guerra civile del 1918-20 e prima dell’invasione nazista dell’estate ‘41”, sia per l’acutizzarsi della lotta di classe in Urss conseguente alla stessa svolta del 1928 che aveva avviato la collettivizzazione forzata dell’agricoltura e l’industrializzazione accelerata del paese, sia per il contemporaneo delinearsi della prospettiva di una guerra ad oriente con l’invasione giapponese della Cina e l’occupazione della Manciuria proprio mentre matura la svolta a destra della politica tedesca destinata a sfociare nell’avvento del nazismo al potere. E’ in questo determinato e drammaticissimo contesto europeo e mondiale che matura nel gruppo dirigente sovietico e nello stesso Stalin la convinzione che le tutt’altro che spente forze di opposizione interna al governo e alla direzione politica dell’Urss convergano almeno oggettivamente con quelle esterne miranti a distruggere l’Urss e con essa il primo stato socialista della storia anche utilizzando l’opposizione interna al partito e allo stato sovietici. Particolarmente illuminante in questo senso ci pare la lettura e l’interpretazione che Giacomini ci propone dei riassunti delle discussioni nell’Ufficio politico del partito sovietico svoltesi tra il febbraio del ’32 e il febbraio del ’33 che lo storico ceco Michail Reiman aveva trovato nell’Archivio politico della Repubblica Federale tedesca in materiali documentari provenienti dai canali dello spionaggio militare. Appare evidente infatti da tali discussioni la percezione da parte del gruppo dirigente sovietico e dello stesso Stalin non solo della estrema gravità della situazione interna e internazionale ma anche delle conseguenze drammatiche che essa avrebbe potuto avere sul piano degli equilibri interni al potere e agli apparati dello stato sovietico e in particolare nei rapporti tra il partito e l’esercito. Le difficoltà e le contraddizioni del processo di collettivizzazione nelle campagne che si evidenziano drammaticamente con la tenace resistenza antisovietica dei kulaki e le terribili carestie del 1931 e del 1932 che ad essa si accompagnano rischiano di mettere in crisi le basi stesse del rapporto tra industria e agricoltura e quindi i termini stessi dell’alleanza tra classe operaia e contadini definiti dalla linea staliniana. Non a caso la discussione tra i membri dell’Ufficio politico rileva l’emergere sempre più evidente, sia all’interno del partito che dell’esercito, di tendenze volte a rovesciare quella linea e quindi la direzione politica che l’aveva promossa e che in tutti i modi di sforzava di garantirne una applicazione coerente e sistematica. La ricostruzione di Giacomini individua in questo tormentato passaggio storico le radici più profonde e quindi la “razionalità storica” del terrore staliniano degli anni ’30. Di fronte alle resistenze politiche che da “destra” come da “sinistra” emergevano più o meno sotterraneamente e ai tentativi di sabotaggio della linea politica del partito e del governo, apparivano del tutto irrealistiche, ovvero suscettibili di minare le basi stesse dell’edificazione socialista nel paese sia un’operazione di “riforma” del sistema sovietico che l’idea di un ritorno puro e semplice alla NEP. “I parolai di destra e di sinistra – afferma Stalin intervenendo al Politburo il 5 ottobre del 1932- inveiscono contro il piano quinquennale, la collettivizzazione e l’insieme dell’edificazione socialista. Tali invettive sono ingiustificate poiché i ‘piani’ in sé e per sé erano buoni, e se, per una ragione o per l’altra erano buoni ed erano stati elaborati con la dovuta fondatezza, e se per una ragione o per l’altra non è andata bene, ciò è avvenuto per colpa degli organi esecutivi… Noi dobbiamo fare piazza pulita sia nell’apparato del partito che dello stato: noi dobbiamo ‘sradicare’ dalle nostre file i ‘parassiti’ e riempire il partito di nuovi quadri giovani, di buoni e onesti lavoratori…” Di qui il lancio all’inizio del 1933 della campagna di epurazione destinata a prolungarsi fino al maggio del 1935. I grandi successi del primo piano quinquennale e lo stesso XVII Congresso del partito, il celebre congresso dei “vincitori”, sembrano confermare clamorosamente la giustezza della linea politica del partito e del governo sovietici e segnare l’inizio di una nuova fase relativamente pacifica del processo di costruzione del socialismo in Urss. Tuttavia, l’assassinio di Kirov, primo segretario del partito comunista di Leningrado da parte di un giovane esponente della sinistra zinovevista, il 1° dicembre del 1934, muta di colpo il clima politico in Urss e sembra confermare proprio le preoccupazioni già emerse ai vertici del partito sovietico nel 1932. È l’inizio di una nuova fase dello scontro sociale e politico in Urss destinato a sfociare nei grandi processi di Mosca del 1936-38. L’attenta e dettagliata ricostruzione storica di tali processi che Giacomini ci offre nel suo libro mira ad evidenziare il loro nesso con la vicenda della lotta politica, insieme palese e sotterranea, interna al partito sovietico, e in particolare con i rapporti tutt’altro che interrottisi tra l’opposizione clandestina e Trotskij. È qui uno dei passaggi fondamentali della critica di Giacomini ad una delle tesi fondamentali del “processo a Stalin” celebrato nel “rapporto segreto” di Kruscev, secondo cui i processi e poi il terrore di massa degli anni ’30 sarebbero cominciati proprio quando le opposizioni, già sconfitte e sul piano politico e su quello ideologico, non sarebbero più state in grado di svolgere alcuna iniziativa politica finalizzata a contrastare o anche solo a indebolire la direzione staliniana. In realtà, sia dai verbali dei processi che da numerosi documenti e testimonianze emerge un quadro ben diverso e molto più complesso e drammatico di quello che Khruscev delinea nel suo rapporto. Riprendendo alcune importanti acquisizioni del lavoro dello storico americano John Archibald Getty sulle origini delle grandi purghe, Giacomini sposa la tesi dell’esistenza di una organizzazione clandestina facente capo a Trotskij all’interno dell’Urss e sottolinea l’importanza dei suoi persistenti legami con alcuni dei dirigenti del partito, in particolare con Radek e Piatakov, imputati nel secondo dei tre grandi processi pubblici che si svolse dal 23 al 30 gennaio 1937. Ma al di là dei più controversi aspetti strettamente giudiziari riguardanti la vicenda dei processi e la certo non facile ricostruzione documentaria della verità delle accuse mosse agli imputati, ci pare che la ricerca di Giacomini abbia il merito di evidenziare con grande chiarezza la posta in gioco immediatamente e drammaticamente politica dello scontro interno al partito di cui i processi furono certo un momento fondamentale e le ragioni per le quali quello scontro finì col volgersi in una lotta mortale, ovvero in una vera e propria guerra civile destinata a coinvolgere non solo i vertici politici ma anche quelli militari dello stato sovietico. La posta in gioco di questa guerra non era soltanto il controllo e l’esercizio del potere sovietico ma di fatto la sua stessa esistenza. L’acutizzazione della situazione internazionale ha immediati riflessi nello scontro terribile che si viene consumando in Unione Sovietica. Di qui i vari e continui tentativi degli stati capitalisti di utilizzarlo e condizionarne gli esiti al fine di indebolire il potere sovietico e in prospettiva distruggerlo. Il caso Tuchacevkij efficacemente ricostruito da Giacomini appare in tal senso particolarmente significativo anche nei suoi aspetti più oscuri e controversi, probabilmente destinati a restare tali ancora a lungo fino a quando resterà secretata la documentazione riguardante il processo che coinvolse il generale sovietico accusato di tradimento insieme ad altri otto alti ufficiali dell’Armata rossa. Giacomini ci mostra come le eventuali responsabilità di Stalin nel determinare il processo e il suo esito drammatico si inseriscano in ogni caso in un quadro di manovre politiche e militari insieme interne e internazionali che si configurano già di fatto come le cause della seconda guerra mondiale determinandone in larga misura insieme gli schieramenti e perfino gli esiti: se l’accusa mossa a Tuchacevski di avere tentato un colpo di stato militare volto a rovesciare Stalin fosse vera ciò significherebbe che l’aver sventato quel presunto tentativo avrebbe evitato che si stringesse un patto strategico e non solo tattico tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica. In tal caso l’epurazione dell’esercito seguita alla condanna del generale sovietico, lungi dall’avere indebolito la forza e la capacità di resistenza militare dell’Urss nella Seconda guerra mondiale, secondo l’accusa mossa a Stalin a questo riguardo nel “rapporto segreto”, risulterebbe addirittura uno dei fattori determinante della grandiosa vittoria dell’Urss nella Seconda guerra mondiale. Furono dunque in generale il pericolo di una guerra imminente e la prospettiva avvertita come certa da coloro che si opposero alla politica di Stalin di una sconfitta dell’Urss a modificare la logica stessa della lotta politica interna al partito e agli stessi apparati del regime sovietico, rendendo di fatto antagonistiche e inconciliabili le divergenze politiche e strategiche. Del resto, la linea politica staliniana della collettivizzazione dell’agricoltura e dell’industrializzazione a tappe forzate trovava proprio nel pericolo di guerra e quindi nell’esigenza di rendere l’Urss nel tempo più rapido possibile in grado di reggere anche militarmente l’accerchiamento capitalistico a Oriente come a Occidente, la sua giustificazione storica e politica più profonda. Qualunque opposizione ad essa finiva così per configurarsi nell’ottica staliniana come una forma di convergenza e perfino di collusione più o meno consapevole col “nemico di classe”. Se agli occhi dei gruppi trockisti sia dentro che fuori l’Urss il regime staliniano appariva come una dittatura controrivoluzionaria, di stampo “bonapartista” o perfino fascista, ovvero come il “nemico principale” contro il quale avviare una lotta mortale, agli occhi di Stalin e dei suoi sostenitori il “trotskismo” e la stessa opposizione di destra e buchariniana, più o meno tatticamente convergente con esso, non potevano che apparire complice di fatto del nazismo, uno strumento di cui quest’ultimo poteva servirsi per realizzare il suo piano di conquista della Russia e di distruzione del potere sovietico. E in effetti, nell’ottobre del 1938, Trockij non esitava a individuare nella liquidazione del Komintern la premessa necessaria per aprire la strada all’”internazionalismo rivoluzionario”. Ma già nel 1936 intervenendo sull’intervista concessa da Stalin a Roy Howard, egli criticava duramente l’idea di Stalin secondo cui l’Urss non doveva pretendere neanche “un pollice di terra straniera”, mentre non avrebbe “ceduto un pollice” della propria, sostenendo che in alcuni congiunture proprio il mantenimento di rapporti di forza favorevoli può meglio essere garantito con cessioni territoriali al nemico. Perciò la sua stessa concezione della “difesa dell’Urss” non negava ma anzi si legava strettamente all’idea che anche nel contesto della guerra la lotta contro la direzione staliniana lungi dal cedere avrebbe dovuto ulteriormente radicalizzarsi. Nel maggio del ’39, nella formazione di una grande Ucraina indipendente da parte del proletariato ucraino, Trotskij individuava un obiettivo fondamentale di tale lotta. Se certo non possiamo assumere come senz’altro vere le dichiarazioni di Pjatakov rilasciate nel processo che lo vide imputato su un presunto accordo nientemeno che tra Hess e Trotskji finalizzato addirittura una spartizione dell’Urss, non si può non notare una sostanziale convergenza del disegno nazista di smembramento e di conquista territoriali dell’Urss con la prospettiva della lotta contro la “controrivoluzione” staliniana nei termini in cui veniva delineata da Trocki, non del tutti coerenti peraltro con la sua stessa originaria concezione della “rivoluzione permanente” e neanche con le stesse motivazioni con le quali si era opposto alle perdite territoriali della pace di Brest-Litovsk nel 1918 e tuttavia pur sempre caratterizzati da una sostanziale sottovalutazione teorica e politica della “questione nazionale” come elemento fondamentale dello stesso “internazionalismo proletario”. A ragione quindi, Giacomini lega strettamente le cause della guerra civile che lacera il partito negli anni ’30 non solo con l’avvio della collettivizzazione ma anche con la svolta dei fronti popolari e l’avvio della politica di unità antifascista, a partire dalla lettura di una pagina illuminante del Diario di Dimitrov in cui quest’ultimo riassume efficacemente l’intervento di Stalin in un incontro dedicato alle questioni cinesi svoltosi al Cremlino l’11 novembre del 1937. In esso, Stalin sostiene che “soprattutto dopo la collettivizzazione, un fatto assolutamente nuovo, mai visto nella storia” molti “elementi deboli” si sarebbero “staccati dal partito”. Essi infatti – sottolinea il dirigente sovietico – non hanno accettato in particolare la collettivizzazione (quando si trattava di tagliare sulla carne viva dei kulaki), sono passati alla clandestinità. Sentendosi impotenti, si sono collegati con i nemici esterni, hanno promesso ai tedeschi l’Ucraina, ai polacchi la Biellorussia, ai giapponesi la regione costiera di Vladivostok. Attendevano la guerra e soprattutto premevano perché i fascisti tedeschi iniziassero il prima possibile la guerra contro l’Urss”. La centralità del tema della “questione nazionale” nell’elaborazione della politica di unità antifascista che vide impegnati non solo la direzione staliniana del partito ma lo stesso gruppo dirigente del Komintern raccolto attorno a Dimitrov discende in primo luogo da questo nuovo e più complesso quadro internazionale nel quale si evidenzia tutta la profondità delle motivazione strategiche e teoriche dello scontro tra Stalin e l’opposizione trockista che avevano lacerato il gruppo dirigente bolscevico già alla fine degli anni ’20. Il nesso dialettico tra stato e rivoluzione che Lenin aveva genialmente fissato in Stato e rivoluzione nel contesto della rivoluzione russa e nella prospettiva internazionalista della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria veniva riformulato anche sul piano teorico e non solo politico e strategico da Stalin proprio in un discorso, su cui opportunamente Giacomini richiama l’attenzione, pronunciato il 7 novembre 1937, nel contesto dell’accerchiamento capitalista da parte delle grandi potenze imperialiste e nella ormai imminente prospettiva di una guerra di aggressione all’Urss. Già autore di un fondamentale scritto teorico pubblicato nel 1913 dedicato a Il marxismo e la questione nazionale, Stalin riformula e sviluppa il leninismo accentuando il nesso tra stato e questione nazionale e spingendosi fino ad inscrivere la stessa rottura rivoluzionaria del 1917 nella continuità profonda della nazione russa così come sul lungo periodo essa si era venuta definendo nell’ambito e nella dimensione territoriale dello stato zarista. “Gli zar russi – afferma Stalin- hanno fatto molte cose cattive. Hanno rapinato e soggiogato il popolo. Hanno condotto guerre e si sono impadroniti di territori nell’interesse dei grandi proprietari fondiari. Ma una cosa buona l’hanno fatta: hanno creato uno Stato enorme, sino alla Kamchatka. Noi abbiamo avuto in eredità questo Stato. E per la prima volta, noi bolscevichi abbiamo reso coeso e rafforzato questo Stato come Stato unitario e indivisibile, non nell’interesse dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, bensì a vantaggio dei lavoratori, di tutti i popoli che costituiscono questo Stato. Noi non abbiamo unificato lo stato in modo tale che ogni parte si staccasse dal comune Stato socialista, non solo procurerebbe un danno allo Stato, ma non potrebbe esistere autonomamente e cadrebbe inevitabilmente sotto schiavitù straniera. Pertanto, chiunque tenti di spezzare questa unità dello stato socialista, chiunque punti alla separazione da esso di singole parti o nazionalità, è un nemico, un nemico giurato dello Stato, dei popoli dell’Urss.” Il “patriottismo” staliniano che emerge chiaramente già da questo intervento è il medesimo che ispirerà nel ’39 la decisione del patto di non-aggressione con la Germania finalizzata sia alla riacquisizione dei territori russi perduti a Brest-Litovsk che a prender tempo nella prospettiva di una guerra giudicata inevitabile. Ma è nella capacità di generalizzare questa impostazione teorica e strategica anche sul piano della prospettiva della “rivoluzione mondiale” e non solo su quello più immediato della lotta contro il fascismo e la guerra che si misura tutta la lucidità della direzione politica staliniana non solo nel corso degli anni ‘ 30 ma anche nel contesto della Seconda guerra mondiale. Molto più lucidamente di Trotskij, Stalin comprende come la prospettiva della rivoluzione mondiale, nel contesto determinato dell’Europa e del mondo tra le due guerre si definisse in termini radicalmente diversi da quelli della Prima guerra mondiale. Non si trattava più esclusivamente di trasformare la guerra imperialista in guerra civile come continuava astrattamente a predicare il trockismo, secondo una impostazione che avrebbe condotto la IV Internazionale a continuare a rivendicare l’obiettivo degli “Stati Uniti Socialisti d’Europa” perfino di fronte all’aggressione hitleriana alla Cecoslovacchia, ma di sviluppare una politica certo difficile e tortuosa e tuttavia ineludibile per evitare o ritardare lo scoppio della guerra. In tal senso la politica di massa, di unità antifascista e di lotta per la pace che vide impegnato il Komintern particolarmente dopo il VII Congresso del 1935 coincideva totalmente con le esigenze della difesa dell’Urss e quindi con la politica di sicurezza collettiva che essa si sforzava di condurre nei rapporti con le potenze imperialiste “democratiche” anche allo scopo di ostacolare i loro tentativi di scaricare sull’Urss l’aggressività dell’imperialismo nazista. Ci pare perciò che dal complesso della ricostruzione di Giacomini emerga nitidamente l’enorme potenziale espansivo ed egemonico di questa politica sia sul piano interno che internazionale. Nello stesso periodo in cui le repressioni si intensificano a tutti i libelli del partito come dello stato e acquistano una sempre maggiore dimensione quantitativa, il processo di transizione al socialismo conosce alcuni importanti sviluppi sia politici che istituzionali: è al culmine di un lungo processo scandito da discussioni e lavori di commissioni emendative in tutte il paese che il 5 dicembre del 1936 viene varata la nuova costituzione sovietica. In un contesto europeo e mondiale che vede l’avanzata del fascismo e della reazione, la nuova Costituzione si distingue per la proclamazione dei diritti economici e sociali dei lavoratori come elemento fondamentale di una concezione non puramente formale e borghese della stessa democrazia. Non a caso nel nuovo quadro istituzionale fissato dalla Costituzione staliniana, le elezioni del 12 dicembre del 1937 sembrano segnare una nuova tappa del processo di sviluppo e di consolidamento della democrazie e della legalità socialiste attraverso l’attribuzione da parte di una nuova e più avanzata legge elettorale anche ad organizzazioni, associazioni legalmente esistenti e assemblee di operai e contadini dell’Armata Rossa della possibilità di presentare canditati al Soviet dell’Unione come a quello delle Nazionalità anche non iscritti al partito comunista. Si trattò di un grande processo di partecipazione democratica ma anche del primo tentativo di definizione anche sul piano legale e formale di un nuovo, più stabile assetto della democrazia socialista, in modi e forme non più coincidenti con il tipo di stato di transizione caratterizzato dalla “dittatura del proletariato” che aveva segnato la storia del potere sovietico nella fase della sua nascita e del suo consolidamento. Certo, la riflessione di Giacomini non ignora la simultaneità di tali processi con il Terrore di massa. E tuttavia è proprio questa simultaneità a segnalarci il carattere tutt’altro che lineare e pacifico del processo di transizione, l’intreccio complesso e contraddittorio di egemonia e dittatura, di forza e consenso che ne ha segna le forme giuridiche come i concreti sviluppi storici. E’ in fondo questo intreccio che la dura requisitoria contro Stalin condotta da Krusciov al XX Congresso sembra almeno a tratti smarrire del tutto, attribuendo alle “paranoie” di un singolo individuo errori e crimini che certo non furono commessi dal solo Stalin e che in ogni caso non possono essere giudicati e valutati né sul piano politico, né su quello storico prescindendo da una attenta considerazione dei caratteri e dei concreti sviluppi di quella gigantesca “guerra di posizione” internazionale tra “rivoluzione” e “reazione” che segnò l’Europa e il mondo tra le due guerre e che avrebbe costituto il tema di fondo della straordinaria ricerca teorico-politica di Gramsci in carcere. Quel complesso fenomeno che proprio dopo il rapporto segreto di Krusciov e il suo “processo a Stalin” ci siamo abituati a chiamare “stalinismo” fu in realtà il tentativo dell’Urss e del movimento mondiale da essa diretto di definire una strategia e una politica adeguate ad affrontare un’intera fase storica insieme di duro scontro e di aspra lotta per l’egemonia contro un avversario tremendo e immensamente più forte, nel contesto di un conflitto che Gramsci in carcere avrebbe definito di tipo “totalitario”. Tale tentativo ha rappresentato un momento fondamentale nella vicenda complessiva del movimento comunista mondiale del Novecento, fornendo a quest’ultimo le basi e le premesse materiali della stessa fase straordinariamente espansiva che il comunismo mondiale conoscerà nell’Europa e nel mondo del secondo dopoguerra. In tal senso, la gigantesca vittoria riportata dall’Urss nella seconda guerra mondiale, resa possibile da una immensa capacità di mobilitazione patriottica della totalità dei popoli sovietici e dell’insieme delle loro risorse materiali come politiche e perfino morali si presentano immediatamente nella ricostruzione di Giacomini come una vittoria e un successo storico-mondiale della strategia e della politica di Stalin già tracciate almeno nelle loro linee fondamentali già nella prima metà degli anni ’30. Ma proprio in conseguenza di essa e del nuovo quadro europeo e mondiale che si sarebbe determinato con la sconfitta del nazismo, la direzione di Stalin del partito e dello stato sovietico sarà posta di fronte a problemi e compiti in larga parte nuovi. L’inizio della trasformazione del campo socialista in un ampio e differenziato “sistema mondiale”, particolarmente dopo la vittoria della rivoluzione cinese nel 1949, determinava una guerra di posizione di tipo nuovo, radicalmente diversa da quella che l’Urss aveva dovuto combattere nelle condizioni di una fortezza assediata lungo l’intera fase della costruzione del socialismo in un solo paese, e tuttavia, non meno difficile e complessa. E la stessa oggettiva funzione di guida del movimento comunista mondiale che il partito russo aveva svolto a partire dalla fondazione dell’Internazionale Comunista avrebbe ora continuato a svolgersi in modi e forme radicalmente mutate, vincolati proprio alla formazione di un più vasto campo socialista e alla cristallizzazione della divisione dell’Europa in due blocchi politico-militari contrapposti. È di nuovo il nesso tra “guerra” e “rivoluzione”, ovvero tra difesa dell’Urss e del campo socialista da un lato e prospettiva della “rivoluzione mondiale” al centro della politica di Stalin e dell’elaborazione strategica ad essa sottesa. In polemica con la ricostruzione kruscioviana della rottura sovietica con Tito nell’estate del 1948, tesa a sostenere che nessun problema non risolvibile con una “semplice discussione di partito tra compagni” fosse emerso in quella drammatica vicenda, Giacomini rileva come tutt’altro che infondate fossero in realtà le preoccupazioni di Stalin sui pericoli di guerra che potevano discendere da una iniziativa avventuristica di radicalizzazione dello scontro col campo imperialista del tipo di quella apparentemente promossa dai comunisti jugoslavi. Il carattere in larga parte nazionalista delle rivendicazioni jugoslave, la loro incompatibilità di fatto con gli accordi che l’Urss aveva stabilito con le grandi potenze capitaliste sia durante che dopo la Seconda guerra mondiale era del resto emerso con la questione di Trieste e il rifiuto da parte degli Alleati sia della cessione alla Jugoslavia della città che della proposta sovietica di concedere l’autorizzazione ai partigiani di Tito di occuparla. Cominciava già allora a manifestarsi un dissidio destinato ad evidenziarsi di fronte al disegno di allargamento dell’egemonia jugoslava nell’area balcanica attraverso la costituzione di una Federazione che inglobasse anche l’Albania e la Bulgaria. Opportunamente, Giacomini mette in relazione questo dissidio destinato a volgersi in aperta rottura, ai tentativi di Stalin di evitare in ogni modo qualunque iniziativa interna al campo socialista che potesse giustificare provocazioni da parte americana tese a rafforzare il blocco occidentale in chiave antisovietica e anticomunista. In questo senso, la stessa creazione del Cominform, nell’autunno del ’47, corrispondeva nelle intenzioni di Stalin non solo al tentativo di rafforzare l’unità del blocco sovietico di fronte alle provocazioni e alla politica di guerra dell’imperialismo americano ma anche di inquadrare dentro il nuovo organismo internazionale e quindi dentro i rapporti con i partiti comunisti europei sia del blocco dell’est che di quell’ovest il radicalismo e il dinamismo a tratti avventurista dei comunisti jugoslavi. Il tentativo di disciplinare dentro una rafforzata unità del movimento comunista in Europa il ruolo dei comunisti jugoslavi si evidenzia peraltro nello stesso ruolo fondamentale che ad essi fu conferito dai comunisti sovietici nella fase costitutiva del Cominform. Di nuovo come negli anni ’20 e ‘30 di fronte all’opposizione interna, preoccupazione fondamentale di Stalin fu quella di evitare l’emergere anche sul piano internazionale di una tendenza di “sinistra” che potesse incrinare la compattezza del campo socialista e dello stesso movimento comunista internazionale e ostacolare l’accorta politica insieme di sicurezza e di pace che egli si sforzò di condurre di fronte all’aggressività e alle minacce di guerra dell’imperialismo americano. Di nuovo come nella fase della costruzione del socialismo in un solo paese, la politica di Stalin fu ispirata allo sforzo di tenere insieme l’unità internazionalista del movimento comunista e rivoluzionario mondiale che anche dopo lo scioglimento del Komintern nel ’43 aveva pur sempre il suo centro a Mosca e le esigenze di una politica “globale” di pace tesa adesso non solo alla più inflessibile difesa delle frontiere dell’Urss e del campo socialista ma anche alla salvezza del genere umano.