Il ricordo vivo del grande Ottobre

di Andrea Catone, direttore di MarxVentuno rivista

 

Lenin 1917-11_im_bolschewistischen_Hauptquartier_Serow-w350Ricordiamo il 7 novembre non per un esercizio retorico. Ogni anniversario di quella rivoluzione per i militanti comunisti deve essere occasione di riflessione per l’agire presente.

 

Il ricordo vivo del grande Ottobre ci dice prima di tutto che la rivoluzione è possibile, che la lotta dei popoli contro il giogo dell’oppressione e dello sfruttamento può essere vittoriosa, che il socialismo, un ordine nuovo antitetico a quello capitalista e imperialista, non è una chimera, ma il reale concreto. Questo ha un valore universale, che travalica le differenze che sono esistite ed esistono tuttora all’interno del movimento operaio. Per il solo fatto di affermare il diritto dei popoli alla rivoluzione, la possibilità concreta della rivoluzione, l’Ottobre dovrebbe essere commemorato e onorato da tutti coloro che si battono contro il capitalismo e l’imperialismo. In questo senso l’Ottobre è di tutti i popoli in lotta.

 

Ci sembra utile riproporre con lievi modifiche un testo pubblicato sul Calendario del popolo in occasione del novantesimo anniversario della rivoluzione bolscevica.

 

1917. La rottura dell’Ottobre

 

L’Ottobre russo modifica l’intero quadro geopolitico mondiale, imprime alla storia umana una svolta e un’accelerazione epocali, trasforma radicalmente il modo di concepire il mondo. Gramsci in un celebre articolo pubblicato sull’Avanti! il 24 dicembre 1917 (“La rivoluzione contro il Capitale”) coglie quest’ultimo aspetto: la rivoluzione bolscevica si è fatta contro il modo in cui il marxismo era letto e interpretato dal pensiero fortemente intriso di positivismo dei partiti socialisti della II Internazionale, che concepivano la storia, e quindi anche l’avanzata del movimento operaio, come un graduale progressivo avanzare, senza rotture né salti. L’Ottobre rappresenta invece una rottura e un salto. La rivoluzione si fa non solo contro il governo provvisorio di Kerenskij che aveva deciso la prosecuzione della grande carneficina della guerra, si fa anche contro le concezioni gradualiste, economiciste, deterministe della seconda Internazionale, rappresentate in Russia da quell’importante marxista che fu Plechanov. Il quale, insieme con tanti altri esponenti della socialdemocrazia russa – e va qui ricordato che la Russia di fine ‘800 primo ‘900 fu ricca di studi e dibattiti marxisti – riteneva che non vi fossero in Russia le condizioni oggettive per saltare la tappa della rivoluzione borghese e avviare direttamente una rivoluzione socialista, una rivoluzione cioè che desse vita ad una società in cui il modo di produzione capitalista fosse superato nella proprietà sociale dei mezzi di produzione. Con l’Ottobre irrompe sulla scena mondiale la soggettività rivoluzionaria: la rivoluzione proletaria è una possibilità concreta. Dopo il 1917 è possibile “pensare la rivoluzione”. Non è un caso che la Russia degli anni ‘20 sia all’avanguardia della cultura mondiale nelle scienze e nelle arti, con il cinema, il teatro, la poesia, la grafica, l’architettura. Essa libera energie straordinarie e per la prima volta nella cultura europea la vecchia Europa va in Russia ad imparare dalle avanguardie artistiche, da Dziga Vertov a Majakovskij.

 

Con l’Ottobre la storia assume un nuovo corso, impensabile e impensato prima. È la scelta consapevole di un partito rivoluzionario di far passare un paese arretrato, in cui il modo di produzione capitalistico non si è ancora pienamente affermato, che non ha compiuto la tappa della rivoluzione borghese, al socialismo, saltando quella tappa, o meglio, compiendola sotto la direzione della politica comunista.

 

1917. La rivoluzione è una possibilità concreta

 

Ma Lenin, l’indiscusso dirigente della rivoluzione, non era affatto un soggettivista, un volontarista visionario. Vi è una grande differenza tra soggettività rivoluzionaria e soggettivismo volontarista. Quest’ultimo ritiene velleitariamente di poter fare a meno delle condizioni oggettive, ritiene che la volontà politica soggettiva possa tutto. È l’opposto della formazione culturale e politica di Lenin, che dalle polemiche filosofiche con gli empiriocriticisti (Materialismo ed empiriocriticismo) ai Quaderni filosofici, condusse con passione e rigore una grande battaglia culturale in difesa del materialismo e dell’oggettività del reale. L’Ottobre allora è la soggettività rivoluzionaria che muove dall’“analisi concreta della situazione concreta” (Lenin), dall’analisi dei rapporti di forze mondiali e delle contraddizioni tra imperialismi che – a lungo incubate tra fine ‘800 e primo ‘900 – portano alla grande guerra mondiale. La rivoluzione può vincere perche i capitalisti sono divisi, si scontrano mortalmente tra loro. Facendo propria la lezione di Machiavelli, Lenin riunisce volontà soggettiva e condizioni oggettive e sa cogliere l’occasione storica che viene offerta.

 

La storia umana è un complesso processo, in cui lo sviluppo dei popoli, delle civiltà, delle formazioni economico-sociali è segnato dalla diversità, è sviluppo ineguale e non omogeneo. L’affermarsi del modo di produzione capitalistico in alcuni paesi del mondo accentua e non riduce lo sviluppo ineguale. Ma questo, che per la concezione positivistica e unilineare della storia costituisce un limite, per cui occorre attendere che l’intera storia umana faccia il suo corso attraverso le tappe del suo graduale succedersi, per Lenin è la condizione e la porta stretta attraverso cui passare per aprire una nuova prospettiva.

 

La rivoluzione socialista è possibile, senza attendere che forze produttive capitaliste giungano a piena maturazione in Russia, perché la Russia è l’anello più debole della catena imperialista ed esiste in Russia una grande massa di operai e contadini non più disposti a subire la guerra, perché c’è un partito bolscevico forgiato in anni di clandestinità e di lotte che si pone il fine della rivoluzione socialista. Nel pensiero e nell’azione di Lenin si fondono la soggettività rivoluzionaria, che sa “forzare” le situazioni, e l’oggettività scientifica dell’analisi sociale, che consente di combattere avventuristiche fughe in avanti.

 

Le condizioni che rendono possibile ai rivoluzionari bolscevichi di conquistare il potere statale in Russia sono nelle contraddizioni dell’imperialismo e nella debolezza del potere russo dopo la prima rivoluzione antiautocratica di marzo 1917 (febbraio, secondo il vecchio calendario ortodosso).

 

L’Ottobre apprende la lezione della Comune sconfitta

 

I bolscevichi sanno che non possono permettersi di ripetere l’esperienza della Comune di Parigi soffocata nel sangue, che devono attrezzare il potere rivoluzionario in modo da resistere alla controrivoluzione che immancabilmente si scatena e vede, come dal 1789 accade, insieme alle forze controrivoluzionarie interne, quelle degli altri paesi ad esse alleate in una internazionale reazionaria. E così fu: gli eserciti di venti paesi, dall’Inghilterra al Giappone, penetrarono in Russia a sostegno dei controrivoluzionari interni. Dopo la conquista del potere politico fu guerra civile, ma fu anche guerra di liberazione della Russia dalle armate straniere. Tre anni dopo l’Ottobre i bolscevichi possono annunciare che la rivoluzione ha vinto, che le armate bianche sono disfatte, gli eserciti stranieri si sono ritirati.

 

L’Ottobre innesca un processo rivoluzionario mondiale di lunga durata

 

La rivoluzione cambia il corso della storia mondiale. Nulla dopo l’Ottobre può essere come prima. Diventa possibilità concreta, realtà, il fatto che i proletari, gli oppressi, gli sfruttati prendano il potere statale e provino a governare lo stato e l’economia a vantaggio della loro classe e non di quella del grande capitale, degli speculatori, dei rentier o della grande proprietà agraria. “Fare come la Russia” è il grido dei lavoratori in un’Europa che vive la grande crisi postbellica, dove, come dice Brecht, la povera gente tra i vinti pativa la fame e tra i vincitori pativa la fame ugualmente.

 

La rivoluzione russa dà il la alle lotte sociali e politiche e a tentativi rivoluzionari in Occidente, dove il “fare come in Russia” sembra a portata di mano. Nei paesi vinti, dove si disgregano gli imperi centrali: dalla Germania all’Austria, all’Ungheria, il potere delle vecchie classi dominanti che hanno portato il paese alla guerra e alla disfatta versa in grandi difficoltà, e, nei paesi vincitori, l’Italia vive una grande stagione di lotte sociali operaie e contadine, il “biennio rosso” 1919-1920; ma lotte proletarie e forti simpatie per la rivoluzione bolscevica si hanno anche in Francia e Inghilterra.

 

La sconfitta delle rivoluzioni in Occidente nei primi anni ‘20

 

Ma in nessuno dei paesi europei la rivoluzione trionfa. Tra il 1919 e il 1923 gli assalti rivoluzionari falliscono in Germania, il paese su cui maggiormente puntavano i bolscevichi per l’estensione del moto rivoluzionario, poiché il capitalismo era ad uno stadio avanzato e c’era il più consistente movimento operaio organizzato dalla socialdemocrazia e dai sindacati. Dall’Ungheria alla Baviera le rivoluzioni falliscono, sono schiacciate nel sangue o, come in Italia, il movimento prerivoluzionario delle fabbriche del nord durante il biennio rosso non ha ancora una organizzazione politica rivoluzionaria. Gramsci in carcere riflette sulle cause di questa sconfitta e, insieme con gli errori soggettivi dei comunisti – di attendismo o di avventurismo – e al tradimento della socialdemocrazia che quasi dappertutto si allea con le classi dominanti, rileva che il capitalismo in Occidente ha saputo costruire una società borghese, una “società civile” articolata in diverse associazioni private, dai partiti e sindacati al Rotary club, che organizzano la tenuta del dominio e dell’egemonia del capitale, nonché il consenso delle masse. La conquista del potere politico, premessa per una rivoluzione trasformatrice dei rapporti di produzione, non può avvenire allo stesso modo che in Russia: in Occidente occorre adottare una strategia di “guerra di posizione”, non di “guerra di movimento” e di assalti frontali, poiché questi si rivelano avventuristici e destinati alla sconfitta. In ogni caso mancarono o l’una o l’altra o entrambe le condizioni per il successo rivoluzionario: la situazione oggettiva era diversa da quella della Russia zarista, la soggettività rivoluzionaria organizzata nel partito comunista meno capace di quel che furono in Russia i bolscevichi. La sconfitta delle rivoluzioni in Occidente rappresenta anch’essa un tornante importante della storia, è un rovescio che si abbatte sulla rivoluzione mondiale e che inevitabilmente la condiziona.

 

L’Ottobre per la prima volta unifica in un unico fronte di lotta proletariato dell’Occidente avanzato e popoli oppressi dei paesi coloniali

 

Ma ciò non significò la sconfitta della rivoluzione. L’Ottobre aprì la strada non solo alla possibilità della rivoluzione in Occidente, che, sconfitta, dovette misurarsi con la controrivoluzione fascista, ma alla liberazione dell’Oriente, dei popoli oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo. E anche questo è un dato epocale, perché per la prima volta la rivoluzione unifica il movimento operaio dei paesi capitalistici con il movimento anticoloniale di liberazione dei popoli, e scrive sulle sue bandiere non solo “proletari di tutto il mondo unitevi”, ma vi aggiunge i “popoli oppressi”. Con la rivoluzione d’Ottobre si apre anche un nuovo ciclo della storia mondiale, quello della decolonizzazione dei popoli.

 

L’Internazionale Comunista, sorta nel marzo 1919 sulla scia della vittoriosa rivoluzione d’Ottobre e dei fermenti rivoluzionari in Europa e in Oriente, dedica numerose sessioni alla questione coloniale, discute delle possibili alleanze dei contadini con la “borghesia nazionale”, che intende perseguire l’indipendenza, contro quella “compradora”, che è l’agente della penetrazione imperialistica, comincia a togliere terreno all’imperialismo. La possibilità di unificazione di tutto il movimento di liberazione mondiale – proletari dell’Occidente e contadini sfruttati dell’Oriente – è possibile grazie all’Ottobre e alla teoria dell’imperialismo di Lenin, che di quest’ultimo coglie il suo dato strutturale di espressione del capitalismo monopolistico finanziario, consentendo così di pensare all’unitarietà del movimento di emancipazione mondiale sulla base di condizioni oggettive e non solo di generose aspirazioni ideali.

 

Universalismo dell’Ottobre

 

La portata dell’Ottobre sovietico dunque va ben oltre i confini di un immenso paese come la Russia, è universale. Non bisognerebbe mai dimenticare l’universalismo dell’Ottobre. Con l’Ottobre l’internazionale dei lavoratori che era solo essenzialmente europea (nell’800 gli USA sono ancora concepiti come una propaggine europea) diviene effettivamente mondiale e dà vita a partiti comunisti in tutto il mondo, dall’Asia, dove il partito comunista cinese avvierà una lunga marcia che muterà radicalmente il volto del più popoloso paese del mondo, all’America latina, e in tutti i continenti. La II Internazionale non aveva pensato in termini di alleanza del proletariato delle metropoli con gli oppressi delle colonie, aveva piuttosto accettato il colonialismo come un dato del processo storico dello sviluppo capitalistico, diverse volte lo aveva sostenuto, collaborando con le borghesie nelle sue conquiste coloniali.

 

La portata universale dell’Ottobre è negli effetti di lungo periodo, di histoire de longue durée e non solo évenementielle. L’Ottobre, oltre che aprire la strada al movimento comunista internazionale e alle rivoluzioni proletarie, ha aperto l’epoca delle rivoluzioni anticoloniali e antimperialiste su scala mondiale, e un’epoca non si misura in anni e neppure in decenni.

 

Dopo l’Ottobre il mondo capitalistico non è stato più lo stesso

 

Dopo l’Ottobre il mondo capitalistico non è stato più lo stesso, nel bene e nel male. Le classi borghesi hanno dovuto misurarsi con la rivoluzione. Dando risposte diverse. In un caso è stato il fascismo, i fascismi, che non furono solo regimi autoritari, furono reazionari di massa, non furono la dittatura pura e semplice del capitale monopolistico e degli agrari, furono anche il tentativo di irreggimentare le masse, che con l’Ottobre avevano fatto irruzione nella storia. E tentarono (e vi riuscirono anche in certe fasi e situazioni) con le loro politiche nazionalistiche e quelle che oggi impropriamente si chiamano “populistiche” di ottenere consenso di massa.

 

Lì dove il movimento operaio seppe resistere, facendo anche alleanze e compromessi con frazioni della borghesia, i fascismi non si affermarono e le borghesie dovettero cedere sui diritti sociali, sulle garanzie per i lavoratori, sullo “stato sociale”. Le conquiste operaie dell’“età dell’oro” (secondo la definizione di Hobsbawn nel Secolo breve), che va dalla fine della II guerra mondiale alla metà degli anni ’70, furono dovute anche alla presenza dell’URSS e di un “campo socialista” che si era affermato dopo la seconda guerra mondiale. La crescita del movimento operaio in Occidente, le sue conquiste sociali strappate con dure lotte, sono legate alla rivoluzione russa. Che forniva anche materialmente una retrovia, una base d’appoggio ai partiti comunisti, operai e socialisti (il Psi per un decennio, nel secondo dopoguerra, ebbe nell’URSS un solido punto di riferimento).

 

La storia non procede in modo unilinearmente progressivo

 

Ma l’Ottobre stesso insegna che il corso della storia non è unilineare e predeterminato, che scorciatoie e semplificazioni non corrispondono alla configurazione del mondo che si unifica attraverso un complesso processo storico in cui le civiltà si sviluppano in modo diseguale. La strada aperta dall’Ottobre non poteva oggettivamente – al di là delle posizioni soggettive – essere unilineare, come fosse una grande fiumana che procede tutto travolgendo nel suo correre verso l’oceano della rivoluzione mondiale e del comunismo realizzato. Ne era pienamente consapevole Lenin, e lo diranno le dure verifiche della storia. La sconfitta negli anni Venti dei tentativi rivoluzionari in Germania e negli altri paesi capitalistici d’Europa, dove la rivoluzione sembrava oggettivamente possibile per la condizione di debolezza in cui si trovavano le classi dominanti dopo la guerra perduta, costringe la rivoluzione russa a pensarsi diversamente, non più come anello della grande rivoluzione mondiale alle porte, ma come paese che avvia con le proprie forze e sulle proprie gambe una transizione socialista.

 

Nei paesi a capitalismo centrale l’imperialismo mostrava ancora una grande vitalità e, come la storia del 900 mostrerà, era ben lungi dalla sua fase morente, come poteva apparire ai rivoluzionari del 1917, quando le borghesie europee si erano gettate nel grande massacro della guerra, incapaci di tenere il vecchio ordine, per cui Gramsci poteva ritenere che solo il proletariato fosse in grado di ridare ordine e, beninteso, si sarebbe trattato di un “ordine nuovo”. Il movimento comunista credette ad una crisi generale del capitalismo, che si manifestò con la grande crisi degli anni trenta con il fallimento di migliaia di imprese e l’immiserimento dei proletari americani ed europei, ma sottovalutò le virtù “proteiformi” del capitalismo, la sua capacità di trasformarsi e innovarsi, di svilupparsi sotto regimi politici diversi, dal totalitarismo nazista alla liberaldemocrazia, alla socialdemocrazia.

 

Il socialismo in un solo paese

 

Gli anni ’20 sono caratterizzati dal dibattito e dallo scontro sulla possibilità di costruire il socialismo in un solo paese. A ben guardare, non vi erano alternative per i rivoluzionari dopo la sconfitta duratura e non contingente delle rivoluzioni in Occidente. Si trattava di comprendere però come si costruiva il socialismo. Le scelte dei bolscevichi furono obbligate anche in questo caso. La nuova politica economica, avviata nel 1921 dopo il “comunismo di guerra”, che aveva fortemente limitato gli scambi mercantili e l’uso del denaro, aveva aperto contraddizioni di classe tali da rischiare di non poter essere più governate, perché – come rilevava Gramsci nella sua celebre lettera del 1926 al comitato centrale del partito comunista sovietico – il proletariato russo, che aveva il potere politico, viveva in condizioni materiali peggiori dei nepmany, i borghesi arricchitisi con la Nep. Nel 1927-28 la contraddizione città/campagna si era acuita e l’unità tra operai e contadini, simboleggiata dalla falce e martello, era fortemente compromessa, mentre nelle campagne stesse diventava ingovernabile la contraddizione tra contadini ricchi (kulaki) e poveri (bednjaki).

 

Il potere sovietico doveva correre contro il tempo assegnatogli dalla storia. Non poteva costruire un socialismo ideale, con ritmi e tempi propri, come se fosse in un laboratorio sotto una campana di vetro. Doveva confrontarsi con le contraddizioni internazionali, sapeva che la resa dei conti con la borghesia internazionale che aveva inviato i suoi eserciti per combattere la rivoluzione e che era stata costretta a ritirarli dalla vittoriosa campagna dell’Armata rossa, era stata solo rimandata, perché la borghesia nel dopoguerra aveva troppi problemi in casa propria per poter impegnarsi in uno scontro a tutto campo con il giovane paese dei soviet. Ma la rivoluzione non poteva permettersi di segnare il passo, doveva difendersi e dotare il paese di un’industria pesante che gli consentisse di camminare sulle proprie gambe.

 

Alla fine degli anni venti, di fronte alla rivoluzione bolscevica vi è una duplice difficilissima scommessa, un doppio salto mortale: i bolscevichi non solo devono superare l’arretratezza economico-sociale della Russia che alla vigilia della prima guerra mondiale era ancora un paese in larghissima parte contadino con poche isole – anche se grandi e significative – industriali nelle sue due capitali di Mosca e San Pietroburgo, ma devono industrializzare il paese provando a fare ciò che mai l’umanità prima di allora aveva tentato, cioè organizzare una società di liberi ed eguali basata sulla proprietà collettiva di moderni mezzi di produzione, con tutto ciò che questa scommessa implica, e cioè un elevatissimo livello di civiltà che consenta a tutti e non solo a pochi esperti intellettuali specialisti di occuparsi delle faccende dello stato e della produzione e distribuzione dei beni (si ricordi la celebre espressione di Lenin secondo cui nel socialismo anche la cuoca deve poter dirigere lo stato), un’organizzazione della democrazia effettiva mai prima allora tentata nella storia.

 

I tempi imposti dalla storia spingono i comunisti sovietici ad accelerare con i primi due piani quinquennali tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta, i ritmi dell’industrializzazione, dando priorità all’industria pesante, quella che consente di costruire i mezzi di produzione e dare autonomia economica al paese, e a forzare la collettivizzazione delle campagne che, superando la dispersione e frammentarietà del mondo contadino, consentirebbe di poter contare su forniture agricole pianificate utili per l’esportazione necessaria per acquistare tecnologie all’estero e a mantenere il proletariato urbano delle città, che cresce impetuosamente.

 

La rivoluzione deve confrontarsi con delle priorità, che sono prima di tutto la sua sopravvivenza stessa: superare l’arretratezza, compiere in dieci anni il cammino che altri paesi hanno compiuto in cento, scriveva Stalin, combattere l’analfabetismo, dotare l’immenso paese di strutture sanitarie adeguate, sviluppare istituzioni culturali. Questa priorità del superamento a ritmi accelerati dell’arretratezza quasi mai riesce a conciliarsi con l’obiettivo di far vivere i soviet, i consigli dei lavoratori, quali organismi effettivi della nuova e superiore forma di democrazia operaia. Lo stato d’eccezione determinato dalla corsa contro il tempo porta spesso a limitare il dibattito, ad accentrare le decisioni, a militarizzare la società come accade in una situazione di guerra.

 

Edificazione del socialismo e fuoriuscita dall’arretratezza divengono un’unica cosa anche se non lo sono. L’URSS dei piani quinquennali compie nel decennio che precede la seconda guerra mondiale una grandiosa trasformazione, il paese si popola di grandi fabbriche, di città nuove che sorgono in zone remote, e si popola di tecnici e ingegneri, di scienziati e intellettuali di estrazione operaia e contadina, l’analfabetismo scompare e le campagne vengono dotate di macchine e trattori, di tecnici che seguono l’agricoltura. Sono anni intensi, caratterizzati da un’elevatissima mobilità sociale, le città raddoppiano e triplicano in pochi anni i loro abitanti. Il paese è una grande officina in cui il lavoro ferve per raggiungere gli obiettivi ambiziosi fissati dal piano. A questo grandioso processo di trasformazione sociale partecipano attivamente le masse. Nasce il movimento stachanovista e può nascere proprio in questo contesto di grande entusiasmo per la modernizzazione del paese. Ciò che spinge il minatore Aleksej Stachanov alla metà degli anni trenta a organizzare gruppi di lavoratori per accrescere la produttività del lavoro non è un incentivo materiale, un aumento salariale, ma un incentivo essenzialmente morale: contribuire allo sviluppo della “patria socialista”. Nelle opere della letteratura sovietica degli stessi critici del regime staliniano (si veda ad esempio Anatolij Rybakov, I figli dell’Arbat) si respira l’atmosfera di grande entusiasmo e partecipazione per la costruzione di un nuovo paese, di una nuova società.

 

Le contraddizioni della società sovietica e la loro soluzione violenta negli anni trenta

 

Ma la corsa contro il tempo, per forzare le tappe della storia, non può non avere i suoi risvolti drammatici. La Russia sovietica degli anni trenta risponde all’esigenza prioritaria dell’industrializzazione, ma questa forzatura del tempo storico della trasformazione economico-sociale – che non è mai soltanto mera questione di numeri che misurano le tonnellate di beni prodotti, ma implica un mutamento profondo di mentalità, abitudini, in una parola la creazione di una nuova civiltà – provoca squilibri, acuisce le contraddizioni sociali e politiche, che si riflettono nella società e nel partito stesso. La soluzione di queste acute contraddizioni è il più delle volte violenta, poiché è in gioco – o si valuta che sia in gioco – l’esistenza stessa dello stato sovietico, la sopravvivenza della rivoluzione. Ed ecco che negli anni stessi in cui la nuova costituzione sovietica (1936) dichiara conclusa la fase di transizione e costruita nei suoi tratti essenziali la base economica della società socialista, fondata sulle due forme di proprietà statale e cooperativo-colcosiana, negli anni stessi in cui l’URSS può vantare grandi successi economici grazie alla pianificazione, mentre il mondo capitalista versa nella più grave crisi che abbia mai conosciuto, si mette in moto il “grande terrore”, che si abbatte su buona parte del gruppo dirigente del partito. E, nel momento in cui la macchina della repressione è avviata, tende ad autonomizzarsi, a divenire incontrollabile, al punto che gli stessi uomini preposti alla testa dei servizi di sicurezza (il NKVD) vengono a loro volta eliminati.

 

L’Unione sovietica fattore determinante nella vittoria sul nazifascismo

 

Ma non si possono valutare gli anni trenta in URSS senza guardare il contesto mondiale: il dilagare dei fascismi in Europa preludio alla resa dei conti delle classi dominanti borghesi col bolscevismo. A un prezzo altissimo la scommessa prioritaria è vinta, il paese che nel 1941 deve affrontare l’invasione hitleriana non è più la Russia del 1905 sconfitta dal Giappone, né quella dei contadini male armati buttati nel grande massacro della prima guerra mondiale, è un paese moderno, capace di costruire carri armati ed aerei eguali o superiori per qualità e quantità a quelli tedeschi.

 

Nella “grande guerra patriottica” (1941-1945) la stragrande maggioranza dei russi si schiera a fianco del proprio governo, del partito comunista: è il sacrificio eroico di un intero popolo che sa resistere all’assedio terribile di Leningrado, che lavora 24 ore su 24 per la produzione per il fronte e rompe la temibile macchina da guerra tedesca. L’URSS è fondamentale per la vittoria contro il nazi-fascismo, furono i soldati sovietici ad entrare per primi ad Auschwitz e liberare gli internati sopravvissuti nel lager. Stalingrado (novembre 1942-febbraio 1943) è la battaglia più importante della II guerra mondiale, la prima sconfitta del nazismo, che da allora inizia il suo declino. Hitler aveva fatto male i suoi piani. Credeva di poter far leva sul risentimento di centinaia di nazionalità verso il regime sovietico, credeva che l’Urss si sarebbe dissolta in poche ore non appena fosse stata invasa dai suoi eserciti; trovò invece un paese che con eroismo e dedizione alla causa inauditi, lungi dal disfarsi, gli resistette, organizzò la lotta partigiana nelle retrovie, non gli dette tregua e inseguì le truppe naziste fino a Berlino, dove il 9 maggio 1945 la bandiera sovietica sventolò sul Reichstag.

 

La vittoria sovietica nella II guerra mondiale rilancia il processo rivoluzionario su scala mondiale.

 

Non solo perché la presenza dell’armata rossa nell’Europa centro-orientale favorisce l’ascesa al potere dei partiti comunisti, ma anche perché ridà slancio ai movimenti di liberazione nazionale, anticoloniali e antimperialisti. Grazie alla presenza dell’URSS la rivoluzione cinese guidata da Mao tse tung ha le spalle coperte per ingaggiare la battaglia decisiva, una volta vinti gli invasori giapponesi, contro Chiang kai shek e dare vita, il 1° Ottobre 1949, alla repubblica popolare cinese. Ma gran parte dell’Asia è in fermento. Si sviluppa il movimento comunista in Corea e in Indocina, dove trova in Ho chi min una guida di eccezionale levatura. La stessa indipendenza indiana, ottenuta attraverso l’azione di massa di Ghandi, va iscritta nel quadro nuovo aperto dalla rivoluzione d’Ottobre.

 

Questo ciclo lungo, in cui la lotta anticoloniale e antimperialista trapassa in diversi casi in lotta per il socialismo, continua anche se con alterne vicende – ma la storia non procede in modo unilineare ed omogeneo – fino alla metà degli anni ‘70. La rivoluzione cubana guidata da Fidel Castro e dal Che tracima in rivoluzione socialista grazie anche alla presenza dell’URSS che svolge il ruolo di preziosa retrovia e di formazione di intellettuali e quadri politici marxisti nell’Università che porta il nome di Patrice Lumumba, il militante politico congolese ucciso nella lotta contro il neocolonialismo. E questo legame negli anni ’60 tra il lontano e periferico Congo e la “patria del socialismo” ci dice quanto la rivoluzione abbia inciso su scala mondiale.

 

Il processo avviato con l’Ottobre è premiato a livello mondiale. Con il secondo dopoguerra si realizza, dopo la fase di resistenza del “socialismo in un solo paese”, l’avanzata del socialismo in diversi paesi, alcuni dei quali come Germania est e Cecoslovacchia potevano a pieno titolo essere considerati paesi capitalistici avanzati e altri, come Polonia e Ungheria, avevano già avviato lo sviluppo capitalistico. All’indomani della fine della seconda guerra mondiale e in particolare dopo il successo della rivoluzione cinese, l’Ottobre si estende all’Estremo Oriente e all’Europa centrale e balcanica, mentre in alcuni stati dell’Europa occidentale i partiti comunisti francese e italiano hanno un’influenza di massa tale da poter condizionare le politiche dei loro governi.

 

I successi della pianificazione sovietica sono studiati e presi a modello da diversi paesi di giovane indipendenza. Il nazionalismo arabo postcoloniale guarda con interesse all’esperienza dell’URSS. L’influenza comunista nel mondo è molto maggiore che all’indomani del 1917 e coinvolge effettivamente tutti i continenti. L’URSS può contare su successi indiscutibili: l’essere uscita vittoriosa da una guerra crudele e sanguinosa grazie alle sue forze, alla grande industria, al suo sistema, al consenso popolare che non si è sfaldato ad onta dei programmi di Hitler, l’aver realizzato il passaggio ad un’economia industriale cresciuta ad alti ritmi mentre il mondo capitalista languiva nella grande crisi post 1929, danno all’URSS e al movimento comunista mondiale un prestigio indiscutibile. Il quadro complessivo che si presenta all’inizio degli anni 1950 appare quello di una indubbia e rapida ascesa del movimento comunista mondiale.

 

Incrinature e divisioni nel movimento comunista internazionale

 

Vi erano tuttavia state già le prime incrinature, le prime crepe.

 

L’Internazionale Comunista (IC) era stata sciolta nel 1943. Nata nel marzo 1919 sulla scia della vittoriosa rivoluzione d’Ottobre e dei fermenti rivoluzionari in Europa, aveva svolto un importantissimo ruolo nella formazione dei partiti comunisti nel mondo, nell’impostazione delle analisi e delle strategie, aveva elaborato, dopo la fase politica dello scontro diretto con la socialdemocrazia, la strategia dei fronti popolari, che avevano resistito all’avanzata del fascismo in Europa e alimentato grandi speranze di cambiamento. L’IC era stata attraversata anche dalle contraddizioni oggettive e soggettive derivanti dall’essere inevitabilmente legata alla politica moscovita. Nell’IC si rifletterono quindi anche le lotte di frazione nel Pcus e i partiti comunisti ne furono coinvolti. La decisione di sciogliere il Komintern nel 1943 apre una nuova fase. Le ragioni di quella scelta vanno individuate nel contesto internazionale della guerra e delle condizioni che imponeva l’alleanza antihitleriana, che richiedeva una libertà d’azione dei partiti comunisti per la costruzione di alleanze antifasciste.

 

Ma una volta vinta la guerra, nasce l’esigenza di dar vita ad un nuovo collegamento di partiti comunisti, è il Cominform, l’Ufficio di informazione dei partiti comunisti, costituito nel settembre 1947 dai rappresentanti di 9 partiti comunisti europei: quello dell’URSS, di sei paesi di “democrazia popolare” (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Jugoslavia), quello francese e quello italiano. Belgrado fu scelta come sede della nuova istituzione. Non era l’Internazionale comunista, vi rientravano i partiti al potere dell’Europa orientale, salvo quello albanese, e i due più importanti partiti dell’Europa occidentale. Ma tale Ufficio, che avrebbe dovuto riunirsi a Belgrado, proprio con Belgrado ruppe. Fu lo scisma jugoslavo, sulle cui cause reali molto vi sarebbe da dire. Al di là delle divergenze sul modo di organizzare un’economia socialista, alla sua origine vi è anche la questione statal-nazionale.

 

L’estensione della rivoluzione socialista a molti paesi era segno della vitalità del comunismo, della forza delle idee, del prestigio di un’esperienza vittoriosa come quella sovietica, ma era anche gravida inevitabilmente di contraddizioni che nella questione del rapporto nazionale/internazionale avevano il loro punto focale. L’esperienza positiva dei comunisti dell’URSS, che, nonostante le immense difficoltà di mantenere in vita lo stato socialista, riescono a non farsi travolgere e a vincere la scommessa del passaggio ad un’economia industriale avanzata divenne non una delle possibili strade che i popoli percorrono per la loro emancipazione, ma il modello da seguire.

 

  1. Sviluppo e crisi del “socialismo reale”. Le prospettive del nostro presente (1950-2007)

Il quadro mondiale dopo il 1945 è profondamente mutato: gli stati imperialisti sono uniti sotto la direzione degli USA

 

Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale sono decisivi. Lo scenario del mondo è completamente mutato. La guerra europea dei trent’anni (1914-1945) che attraversa due guerre mondiali e uno scontro interno alle classi dominanti tra opzione fascista e liberaldemocrazia è definitivamente alle spalle. Le vecchie potenze borghesi e colonialiste dell’Europa sono state tutte pesantemente ridimensionate dalla guerra. Il loro declino era già in atto, ma la seconda guerra mondiale spazza via tutte le ambizioni pregresse, il dominus unico dell’Occidente è oramai oltre Atlantico. Per tutta una fase, che dura mezzo secolo e che solo con la fine dell’URSS comincia a mutare, l’imperialismo è unito sotto la bandiera a stelle e strisce. Gli USA sono i più potenti e sono egemoni, sono essi a dire sempre l’ultima parola sui conflitti che possono sorgere tra le potenze imperialiste europee. L’ultima velleità di una politica imperialista autonoma di Francia e Inghilterra è stroncata nel 1956 con la crisi di Suez, quando il governo USA impose ai due stati europei la sua politica. L’imperialismo è unito, si chiama sempre più spesso e comunemente “Occidente”, ha un modello statale che è la liberaldemocrazia nei paesi centrali (mentre in quelli periferici interviene pesantemente, dall’America Latina all’Asia, all’Africa, alla stessa Europa: sostegno alle dittature iberiche, colpo di stato dei colonnelli greci nel 1967), ha apparati di egemonia attraverso cui controlla le masse. E si contrappone compatto al mondo comunista, considerato il nemico principale e contro cui è apertamente intenzionato ad operare un roll back, a ricacciarlo indietro, dall’Europa prima di tutto.

 

La “guerra fredda”

 

La “guerra fredda” comincia già alla fine della II guerra mondiale. Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki sono lanciate contro un Giappone, già piegato militarmente dopo la sconfitta di Okinawa, e sono un pesante avvertimento all’URSS. Come Filippo Gaja ha ben documentato (ne Il secolo corto), sul tavolo degli strateghi di Washington molte volte si esaminano i progetti di usare l’atomica contro l’URSS. Il paese dei soviet non si lascia mettere nell’angolo dalla minaccia della bomba atomica, di cui riesce a dotarsi nel 1949 rompendo il monopolio occidentale. Ma il prezzo della corsa agli armamenti è inevitabilmente molto alto per un paese socialista, obbligato a sottrarre risorse ai beni di consumo.

 

Tra il 1917 e il 1945 la Russia sovietica ha usufruito delle contraddizioni interimperialistiche. Ma il mondo dopo il 1945 cambia radicalmente, perché la borghesia capitalistica mondiale ha trovato il suo modus vivendi interno, ha una guida indiscussa negli USA che la copre militarmente, ha infine superato, con le distruzioni belliche e la domanda di forniture militari, la crisi di sovrapproduzione degli anni trenta. L’Occidente ha ora davanti a sé più di vent’anni di accumulazione ed espansione.

 

È in questo quadro mondiale affatto mutato che si ingaggia, con la “guerra fredda”, una lotta di lunga durata e senza esclusione di colpi tra capitalismo e comunismo.

 

Quest’ultimo ha dalla sua parte, oltre ai paesi in cui i partiti comunisti hanno conquistato il potere statale e avviato trasformazioni strutturali nell’economia (nazionalizzazione dei principali mezzi di produzione, pianificazione), anche un buon numero di movimenti anticoloniali e antimperialisti, che, tra il 1945 e il 1975 (vittoria dei viet-cong), dall’Indocina all’Algeria, colgono significativi successi. E un successo importante e significativo è ottenuto nel “cortile di casa” stesso dell’imperialismo yankee dalla vittoriosa rivoluzione cubana che, nata antimperialista, si sviluppa nel socialismo.

 

Vi sono, è vero, anche le pesanti sconfitte, dall’Indonesia al Medio Oriente. L’URSS e il movimento comunista non seppero analizzare la questione palestinese, né compresero le contraddizioni del mondo arabo, dove, dopo una fase di sostegno alle borghesie nazionali (l’Egitto di Nasser) persero terreno fino a divenire pressoché insignificanti, mentre la politica degli USA riusciva a legare a sé le borghesie arabe o comunque a sottrarle all’influenza comunista e sovietica.

 

Nello scontro a tutto campo tra comunismo e capitalismo la partita nel “terzo mondo” (che si chiamò così poiché non apparteneva né al mondo capitalista né a quello socialista) è comunque aperta e procede attraverso avanzate e ritirate, sconfitte e vittorie. E lo scontro non si svolge solo sul piano politico e militare, ma anche su quello economico.

 

Il campo socialista non riesce, se non molto parzialmente, ad essere economicamente competitivo con quello capitalista. Molto spesso l’influenza dell’URSS viene meno perché il paese non può competere con la potenza economica dell’occidente. L’Unione Sovietica ha fatto passi da gigante, ma il confronto economico con gli USA la vede sempre indietro in diversi settori produttivi e in rapporto ad alcuni fondamentali indicatori economici, quali la produttività del lavoro.

 

Tuttavia, l’area di maggior frizione è l’Europa, il cuore della guerra fredda, simboleggiata dalla città divisa di Berlino, che l’Occidente usa come testa di ponte per la propaganda e la politica del roll back. L’Occidente considera come provvisori i confini della seconda guerra mondiale, bisognerà attendere 30 anni perché la conferenza di Helsinki (1975) li riconosca.

 

Se la Russia era l’anello debole della catena imperialista, ora i paesi dell’Europa orientale costituiscono l’anello debole del campo socialista. Su di essi l’Occidente esercita il massimo di pressione economica, psicologica, propagandistica, militare. E gioca anche sul nazionalismo, su tradizionali sentimenti antirussi. La storia delle società dell’est non può essere fatta come se fosse un blocco unico, in ognuno di questi paesi vi sono peculiarità nazionali, determinate da una storia millenaria di impronte diverse date dai diversi dominatori, Asburgo o Ottomani.

 

Le “democrazie popolari”

 

La scelta del gruppo dirigente sovietico di trasformare tra il 1945 e il 1949 in socialisti – o “democrazie popolari” – i paesi in cui era giunta l’armata rossa fu gravida di conseguenze. La costituzione del “campo socialista” non agevolò l’URSS, anche se allora sembrò un’inarrestabile avanzata. Pose sulle spalle di un paese fortemente provato dalla guerra un fardello pesantissimo, che la guerra fredda, avviata e condotta dagli USA con estrema determinazione, rese ancora più grave e dispendioso. Il potere dovette essere difeso spesso con la violenza. Il distacco tra dirigenti e masse fu accentuato. In questi paesi l’azione controrivoluzionaria poteva trovare un elemento catalizzatore nel nazionalismo, giocando sull’identificazione dell’URSS con la vecchia oppressiva autocrazia zarista, “prigione dei popoli”. E su questo faceva leva anche la propaganda occidentale.

 

La storia delle democrazie popolari non può essere assunta in un unico blocco e andrebbe elaborata paese per paese, tenendo conto delle tradizioni nazionali, del radicamento sociale dei partiti comunisti, delle diverse forze politiche, del livello di sviluppo economico raggiunto prima dell’instaurazione del potere comunista. La nascita pressoché simultanea all’indomani della seconda guerra mondiale, e la loro simultanea fine nel 1989, fa dimenticare le differenze specifiche e li accomuna in un unico blocco amorfo e indistinto, ma bisognerebbe ricordare che come non fu uguale la loro nascita – in alcuni casi dovuta prevalentemente a forze rivoluzionarie autoctone, in altri alla presenza determinante delle truppe sovietiche vittoriose sul nazismo – così anche la loro fine è stata determinata in alcuni casi da preponderanti forze interne della controrivoluzione, in altri da forti pressioni esterne, esercitate questa volta dal gruppo dirigente gorbacioviano verso i partiti comunisti che si opponevano alla perestrojka (è il caso della Cecoslovacchia, della DDR, e, in parte, della Romania).

 

La storia delle democrazie popolari non può essere ridotta ad appendice della storia sovietica, o a quella di periferie dominate di una potenza dominante. I comunisti puntarono a trasformazioni socio-economiche radicali, conseguendo indubbi successi, soprattutto nell’abolizione dei residui feudali, nello sviluppo di un’agricoltura moderna, nella costruzione di grandi infrastrutture e industrie, nella scolarizzazione di massa e nello sviluppo culturale. In alcune situazioni essi potevano conquistarsi il consenso di massa che non avevano al momento dell’ascesa al potere politico. E per certi versi ciò accadde. Le profonde trasformazioni della struttura economico-sociale di quei paesi produssero grande mobilità sociale, crearono una classe operaia di tutto rispetto e fortemente garantita e favorirono lo sviluppo di gruppi intellettuali che cominciarono a lavorare nelle scienze sociali e umane attraverso le categorie marxiste.

 

Problemi e divisioni del “campo socialista”

 

Tuttavia, il “campo socialista” era minato da grandi problemi, non riuscì a diventare una struttura omogenea. L’organismo economico di cooperazione e mutua assistenza tra i paesi socialisti, il Comecon, amplificò i limiti di una pianificazione nata in una particolare fase storica di emergenza e ratificata come modello permanente.

 

Il campo socialista europeo non raggiunge mai una piena stabilità ed è attraversato da crisi profonde – accentuate dal fatto che se uno sciopero operaio è normale nei paesi capitalistici, diviene scandalo e delegittimazione del potere in un paese socialista – e scandite da alcune date-simbolo, che non ci parlano certo di un unico problema, ma attestano l’esistenza di contraddizioni irrisolte: 1948, rottura con Tito; 1953, rivolta di Berlino; 1956, rivolte in Polonia e Ungheria, con il ricorso all’armata sovietica per reprimere la controrivoluzione in corso a Budapest; 1961, erezione del muro di Berlino; 1968, intervento militare sovietico contro la “primavera di Praga”; 1970, sciopero operaio ai cantieri di Danzica; 1981, stato d’emergenza in Polonia.

 

Il controllo dei gruppi dirigenti e della situazione politica nei paesi dell’Est rappresentò sempre un problema per il comunismo centrale di Mosca. La “cintura” dell’est era considerata una fascia di sicurezza sulla base di una concezione militare che poggiava ancora molto sulla territorialità.

 

Ma ancor più difficili si presentano le cose nel rapporto tra i due più grandi partiti comunisti al potere, in URSS e Cina. Iniziato nella seconda metà degli anni ’50, dopo il XX Congresso del PCUS, come contrasto ideologico contro il “revisionismo di Chrusciov”, in merito alla concezione dello stato e del partito e alla politica di “coesistenza pacifica”, diviene sempre più acuto negli anni ’60, fino allo scontro militare al confine tra i due stati nel 1969. Negli anni ’70 la politica della repubblica popolare cinese giunge a considerare l’URSS come potenza “socialimperialista” più pericolosa dell’imperialismo USA e a sostenere, in collaborazione diretta o indiretta con quest’ultimo, i movimenti politici e militari antisovietici, in Africa e Asia. E nel febbraio del 1979 è guerra, decisa dalla direzione cinese, contro il Vietnam, paese che con una lunga e gloriosa guerra popolare di liberazione aveva sconfitto gli USA. A livello mondiale la divisione tra Cina e URSS ha un effetto a catena e rende più difficili le lotte di liberazione antimperialiste.

 

A differenza che nella prima metà del ‘900, quando i comunisti erano stati capaci di inserirsi con successo nelle contraddizioni capitalistiche, nella seconda metà del ‘900 avviene il contrario, ed è l’imperialismo che si muove in modo sostanzialmente compatto contro il comunismo. Il colpo da maestro riesce nei primi anni ‘70, quando la contraddizione politico-ideologica tra Cina e URSS diviene un punto di forza della politica degli USA.

 

Declino e crisi del campo socialista europa

 

Alla metà degli anni ’70 – vittoria del Vietnam sugli USA; fine del regime di Salazar e avvio di un processo rivoluzionario in Portogallo; avanzata dei movimenti anticoloniali anche nell’Africa meridionale; sviluppo di movimenti di lotta sociale e politica in alcuni paesi dell’Occidente come l’Italia – il fronte antimperialista e socialista mondiale sembra aver toccato il suo apogeo e le forze capitaliste arretrare.

 

Ma in realtà le cose stanno diversamente. Il capitale mondiale si sta riorganizzando e individua una strategia a tutto campo che impone il controllo più diretto del capitale sul salariato in Occidente, disgrega le organizzazioni operaie, riesce ad imporsi con una propaganda martellante e insinuante. Fa egemonia. Si presenta col volto democratico dei “diritti umani” contro la “dittatura comunista”. L’URSS comincia pesantemente a perdere le sue battaglie sullo scacchiere internazionale, e adotta una strategia (che si rivelerà estremamente costosa e poco sostenibile) di confronto sul piano militare. Il tracollo del 1989-91 giunge tuttavia rapido e inatteso. Ma era stato preceduto da altre sconfitte. La più grave è la rottura dell’unità del campo socialista, tra Cina e URSS, e la mancanza di un centro internazionale comunista, che coordini le lotte su scala mondiale. A ciò va aggiunto l’arretramento dei partiti comunisti in Occidente, la loro rinuncia ad un progetto alternativo di trasformazione socialista della società. Le forze comuniste sono state disgregate e disperse, oppure hanno abbandonato la prospettiva di costruzione di una comunità di stati socialisti. L’egemonia capitalista si è potentemente rafforzata negli anni ottanta, in tutti i paesi. Ai programmi di Reagan e Thatcher i comunisti rispondono debolmente, e lì dove affrontano lo scontro, sono sconfitti.

 

L’URSS, dopo grandi progressi e ritmi di sviluppo accelerato nella ricostruzione postbellica e negli anni ’60, incontrava crescenti difficoltà nell’organizzazione economica, nella realizzazione effettiva dei piani, e nella mobilitazione politica delle masse, che aveva caratterizzato i primi decenni postrivoluzionari. Il sistema, figlio di una rivoluzione che aveva dovuto confrontarsi quotidianamente con l’emergenza, era rimasto come congelato, l’apparato amministrativo, che in un’economia determinata dalla proprietà pubblica è inevitabilmente più ampio che nelle società private, appariva dominato da esigenze di carriera e quieto vivere. Direttori e maestranze nelle fabbriche avevano poco interesse a realizzare prodotti di qualità, ciò che guidava il loro agire era prima di tutto ottenere l’approvazione degli apparati superiori, cui si inviavano spesso e volentieri informazioni “ritoccate” e truccate. La disciplina del lavoro era allentata e precaria. La società sovietica aveva perso il suo dinamismo e viveva un periodo piuttosto grigio, in cui il relativo benessere raggiunto, la sicurezza di servizi sociali, di assistenza, di un salario, l’accesso gratuito alle scuole e università, compensava i vuoti degli scaffali dei magazzini. Il sistema si era seduto su se stesso e la classe dirigente sovietica appariva una gerontocrazia autoperpetuantesi. La stessa grande capacità scientifica, frutto della rivoluzione socialista, che aveva lanciato lo sputnik e portato il primo uomo nello spazio, rivelando al mondo incredibili capacità e apparato tecnico industriale, appariva in declino, i brevetti non venivano utilizzati. Il gap economico rispetto alle impetuose trasformazioni nei paesi capitalisti si approfondiva: se Stalin aveva industrializzato la Russia degli anni ‘30 comprando sul mercato estero le nuove tecnologie disponibili, ora l’apparato industriale sovietico è parzialmente obsoleto. Queste difficoltà interne non consentirono all’URSS di cogliere sul piano internazionale il successo della sconfitta USA in Vietnam e dell’avanzata del movimento anticoloniale e antimperialista.

 

Il sistema economico e politico degli stati socialisti europei, costituitosi all’indomani della grande vittoria sovietica sul nazismo, viveva anch’esso notevoli difficoltà. Diversi paesi dell’Est europeo conobbero nei primi decenni della loro costituzione un grande sviluppo economico che li trasformò da prevalentemente agricoli in industriali. Tuttavia, il rapporto tra paesi socialisti era ancora un problema irrisolto. Il “campo socialista”, attraverso il COMECON, riuscì a coordinare in parte lo sviluppo economico, ma le deficienze della pianificazione in URSS e negli altri paesi socialisti si riflettevano inevitabilmente ampliate nel coordinamento tra questi paesi. In queste contraddizioni si inserisce la politica degli USA, facendo leva sul nazionalismo degli anelli più deboli per incentivare spinte centrifughe e rompere il “campo socialista”.

 

Tuttavia, alla metà degli anni ’70, con tutti i limiti sommariamente su esposti, il sistema sovietico si presentava ancora solido e stabile, i movimenti dei dissidenti erano marginali e non avevano, salvo che in Polonia, influenza di massa, mentre l’URSS brezneviana, come riconosceva da posizioni radicalmente antisovietiche lo stesso Viktor Zaslavsky, appariva una società del “consenso organizzato”. Né si manifestavano problemi etnici particolarmente gravi, in un paese che contava oltre 140 diverse nazionalità, unite nella comune patria sovietica. Né i dati economici, né quelli politici interni e internazionali lasciavano trapelare la possibilità di un collasso del sistema.

 

Il crollo del socialismo reale

 

Quando nel 1985 Michail Sergeevic Gorbaciov assume la carica di segretario generale del PCUS (circa 21 milioni di iscritti) l’URSS è in una situazione internazionale difficile, ma non disperata. Gli USA l’attaccano e l’incalzano con la corsa agli armamenti, ma non tutti i paesi europei seguono gli USA su questa strada. Dopo la morte di Breznev nel 1982, l’ascesa a primo segretario di Juri Andropov dà una forte scossa all’apparato amministrativo e politico, propone alcune riforme del sistema economico, vara la legge sui collettivi di lavoro dell’impresa, che rilancia la partecipazione dei lavoratori alla realizzazione del piano e alla gestione dell’impresa socialista. L’esigenza di una riforma della direzione economica e politica è profondamente sentita da molti dirigenti del partito. L’arrivo di Gorbaciov, dopo la prematura fine di Andropov e il breve intermezzo di Cernenko, viene dunque salutato come segno di volontà di rinnovamento, confermata dall’età stessa, 30 anni di meno della media dei “gerontocrati”.

 

E nei suoi primi discorsi da segretario generale è questo che Gorbaciov dichiara di voler fare, riproponendo un termine già familiare nei rapporti di partito, “perestrojka”, quale ristrutturazione, rinnovamento della società socialista, i cui capisaldi storicamente definiti – proprietà statale e cooperativa, pianificazione, ruolo dirigente del PCUS – non vengono assolutamente messi in discussione, al pari dell’atto fondativo dello stato sovietico, la rivoluzione d’Ottobre, ancora commemorata con rispetto nel discorso del 70° anniversario.

 

L’ideologia di Gorbaciov

 

Ma, al di là dei primi discorsi, vi è una pratica reale nella politica estera – condotta da Edvard Shevardnadze – che capovolge totalmente l’impostazione che lo stato sovietico si era data da decenni (col ministro degli esteri Andrej Gromyko, licenziato da Gorbaciov). Gorbaciov rifugge da una lettura di classe delle relazioni internazionali e parte dal presupposto dell’unità del mondo “interdipendente”, che postula l’accordo a qualsiasi prezzo, fino al disarmo unilaterale e alla resa senza condizioni. È una rottura di continuità con tutto il passato sovietico: Gorbaciov sostiene che non vi sono contraddizioni antagonistiche tra capitale e lavoro, né contrapposizione tra il sistema capitalistico e quello socialista, ma che si può pensare ad una convergenza. Nel suo libro, La perestrojka e il nuovo modo di pensare per l’URSS e il mondo intero, scompare la categoria di classe e si pone al centro un uomo generico, destoricizzato, al di fuori di una visione dialettica. Il socialismo non viene più posto come prospettiva dell’umanità, si tratta invece di trovare una via di mezzo tra capitalismo e socialismo. Nel complesso, una paccottiglia di buone intenzioni, una sequela di luoghi comuni, l’abbandono dell’arma della critica marxiana. Un generico umanitarismo condito con buoni sentimenti, incapace di fare analisi di classe, di individuare i termini del conflitto, i rapporti di forza. Un disarmo ideologico stupefacente, se solo si confrontano i discorsi gorbacioviani con i classici del marxismo. Scompare anche la categoria di imperialismo, sostituita da quella di “impero”. La teoria gorbacioviana rifiuta lo scontro, predica il disarmo unilaterale, e preferisce la resa. Si tratta di un vero e proprio passaggio di campo teorico che disorienta ideologicamente il paese. Questo approccio alle questioni internazionali fu deleterio per l’URSS: la “non violenza” di Gorbaciov lasciò campo libero alla violenza unilaterale degli USA (le prove generali furono fatte nella prima guerra del Golfo contro l’Iraq agli inizi del 1991) e a quella del mercato capitalistico, che distrusse il sistema di protezione sociale, lasciando sul terreno milioni di immiseriti e morti per fame.

 

Se si guarda anche molto sommariamente alla politica estera sovietica condotta da Gorbaciov e Shevardnadze, molti sono gli interrogativi che si pongono, primo fra tutti quello relativo alla perdita del “campo socialista” in Europa: essa infatti non solo non fu ostacolata, ma fu favorita e organizzata dal gruppo dirigente gorbacioviano, che accettò praticamente senza contropartite persino la modifica dei risultati della seconda guerra mondiale, faticosamente riconosciuti nel trattato di Helsinki (1975), e aprì la strada – come se si fosse combattuta e persa una terza guerra mondiale – alla ridefinizione della carta geopolitica europea con l’annessione della repubblica democratica tedesca alla Germania di Bonn e la disgregazione violenta della Jugoslavia.

 

Gorbaciov operò attivamente per delegittimare e scalzare tutti i dirigenti politici dei paesi dell’Europa Orientale che, da Praga a Berlino a Bucarest, non accettavano la sua svolta politica. In questo modo fu creato il terreno per le “rivoluzioni” del 1989. Il loro segno di classe è chiaro, si rovesciarono i regimi dell’Est in nome del mercato e della proprietà privata capitalistici. Queste “rivoluzioni” condurranno questi paesi in ruolo subalterno nelle braccia della NATO e della Unione Europea.

 

Demolizione di 70 anni di vita sovietica

 

Il “fattore soggettivo”, la direzione politica, l’orientamento ideologico e culturale, hanno giocato qui un ruolo di primo piano. Non era assolutamente scontato, né tantomeno determinato dai rapporti di forza internazionali, che questi paesi dovessero passare armi e bagagli nel campo occidentale. Se ciò accadde in modo straordinariamente rapido e inusitato, lo si deve al combinarsi di due fattori che agirono prepotentemente sulla coscienza di massa: da un lato, un’azione culturale promossa dall’alto di delegittimazione non solo delle deformazioni del socialismo, ma del socialismo in quanto tale; dall’altro l’azione consapevole e organizzata di gruppi ben sostenuti dalle centrali esterne, impegnate a promuovere la sovversione nei paesi dell’Est: mentre gli aggressori demolivano, i difensori si autodemolivano. Nessun potere può reggere in queste condizioni.

 

L’impatto della perdita del “campo socialista” in Europa orientale segna un punto di non ritorno per la situazione in URSS, dove l’agonia dura ancora due anni. A partire dal 1988 la politica del segretario del PCUS non si muove più in direzione di una riforma del socialismo, contro le sue degenerazioni, evidenti sempre più nel rapporto dirigenti-diretti e nella gestione dell’economia, ma agisce come una clava contro tutto ciò che si era faticosamente realizzato nel corso di 70 anni di sacrifici e lotte. Il risultato è la paralisi e la disgregazione dell’economia, che non ha più un piano centrale, un disorientamento di massa rispetto alla propria storia e ai valori socialisti, il radicalizzarsi delle spinte nazionalistiche separatistiche, alimentate, in particolare nelle repubbliche baltiche, dagli USA e dal Vaticano.

 

La storia degli ultimi convulsi anni di vita dell’URSS è tutta ancora da scrivere. Evidenti sono risultate negli sviluppi storici successivi le connivenze con alcune centrali occidentali di Boris Eltsin, il demagogo che, favorito dalle aperture della politica gorbacioviana e dai suoi mutamenti istituzionali presidenzialistici, conquista il controllo della più grande e importante repubblica sovietica, la Federazione russa, usata come grimaldello per smantellare l’URSS, il PCUS e quanto di sovietico e socialista ancora rimaneva.

 

Perché l’URSS si dissolve

 

La crisi dell’URSS e del campo socialista è stata soprattutto culturale e politica. Il fattore soggettivo, la capacità di direzione politica e culturale giocano nelle società di transizione dal capitalismo al socialismo un ruolo determinante. Poiché i paesi in cui si è affermato un potere politico che si propone di operare per trasformazioni socialiste non sono che “casematte”, “avamposti” nello scontro mondiale tra capitalismo e socialismo, essi hanno bisogno di una costante direzione politico-culturale e della mobilitazione consapevole delle masse per combattere l’avversario di classe nel mondo capitalista che li circonda e che punta a prendere queste “fortezze” dall’esterno e dall’interno.

 

L’esito dei tentativi di transizione al socialismo non è predeterminato, molto dipende dai fattori soggettivi, dall’ideologia, dal grado di civiltà, di cultura politica e capacità critica dei gruppi dirigenti e delle masse; il che richiede un sistema politico che favorisca quello che Gramsci chiamava “progresso intellettuale di massa”, e che nell’URSS degli ultimi decenni si era invece grandemente appannato.

 

In controtendenza rispetto a letture economicistiche, si può affermare che la caduta dei regimi politici e sociali del “socialismo reale” in URSS e nell’Europa orientale (con tutte le differenze e specificità dei singoli casi, che non vanno dimenticate) è dovuta a cause prevalentemente politiche (includendo nel politico anche i fondamenti ideologici e culturali di un progetto politico). La crisi dell’economia sovietica e di alcuni paesi dell’Est (in particolare Polonia e Ungheria, fortemente indebitate col FMI e necessitate a seguire le sue ricette) non era catastrofica, né di dimensioni tali da portare al disfacimento di uno stato. La crisi economica diviene grave in seguito allo smantellamento, per decisione politica, della direzione pianificata. Ma ciò che è determinante per il collasso dell’URSS – un paese che aveva saputo affrontare nel suo passato rivoluzionario situazioni molto più gravi, dalla guerra civile e le carestie all’invasione hitleriana – è la direzione politica, la mutazione genetica del PCUS.

 

La decadenza politico-ideologica del PCUS non comincia con Gorbaciov, Shevardnadze, Jakovlev, Eltsin e tutto il gruppo d’assalto della perestrojka, che ricorrono talora ad una fraseologia marxista da operetta, ma sono profondamente egemonizzati dall’ideologia borghese. Bisognerebbe interrogarsi sul come sia stato possibile che personaggi simili siano ascesi alle cariche più alte di un partito che era riuscito a compiere la rivoluzione più importante del XX secolo e aveva aperto con la forza delle sue idee e delle sue realizzazioni un’epoca nuova nella storia. Il marxismo – il marxismo vivente e creativo, non la selezione di quattro formule – non abitava da tempo le stanze del comitato centrale e del politbjuro dell’URSS. Era stato sostituito nel migliore dei casi dal pragmatismo dei tecnici e degli ingegneri dell’epoca di Chrusciov, Podgorny, Kosigin, Breznev.

 

Oggi, sulla via dell’Ottobre, continua il cammino dell’emancipazione in forme inedite

 

All’indomani della dissoluzione dell’URSS e il passaggio dei paesi che furono democrazie popolari nell’orbita dell’Occidente (con la sola eccezione della Serbia che non a caso fu pesantemente punita con 78 giorni di bombardamenti della NATO nel 1999) si levarono cori sulla fine del comunismo, l’Ottobre fu buttato nella spazzatura della storia. Anche quello che era stato il più grande partito comunista dell’Occidente, il PCI, decise il suicidio cancellando ogni riferimento all’Ottobre.

 

Eppure la storia non finisce. Oggi, alla grande rivoluzione del 1917 non guardano solo i tanto vituperati “nostalgici” con lo sguardo rivolto al passato, ma anche i popoli che in forme inedite si incamminano sulla strada dell’emancipazione e della trasformazione dei rapporti di proprietà, come sta accadendo in America latina, dal Venezuela alla Bolivia, dove, grazie anche alla resistenza di Cuba, si sviluppano nuove rivoluzioni antimperialiste che tendono ad assumere caratteri socialisti. Rivoluzioni di massa, in cui si unisce alle condizioni oggettive la soggettività rivoluzionaria: la volontà collettiva e organizzata delle masse diventa una potente forza materiale.

 

L’Ottobre russo ci insegna anche ad apprendere dal lungo e tormentato procedere della storia del comunismo. E se ad essa guardiamo con mente libera dall’ossessiva propaganda che grida soltanto “totalitarismo” e “gulag”, se ad essa guardiamo senza retorica, senza fare assolutamente dell’Ottobre una icona o un santo al capezzale, ma cogliendo tutta la sua portata e i suoi effetti oggi, consapevoli che la storia del movimento di emancipazione non è un progressivo lineare andare diritti verso la meta, ma è fatta di salti clamorosi, di rotture rivoluzionarie e di controrivoluzioni, e anche di disfatte ingloriose e di terribili errori, vediamo che nella storia del comunismo vi sono i momenti più alti in cui le masse sfruttate e oppresse hanno preso coscienza, imparando nei giorni della rivoluzione quanto non si riesce a fare in anni di studio e assaporando l’esperienza dell’autogoverno, l’invenzione di nuove forme di organizzazione sociale.

 

Con l’Ottobre la storia dell’emancipazione non finiva, ma era appena agli inizi. La transizione dal modo di produzione capitalista a quello dei produttori associati non è questione di qualche decennio, come pensarono volontaristicamente i rivoluzionari russi negli anni trenta, ma abbraccia un’intera epoca storica, in cui si fronteggiano il vecchio e il nuovo, e nel momento in cui si fronteggiano, si trasformano determinando situazioni nuove che richiedono nuove analisi concrete. Il processo della trasformazione sociale è complicato anche dal fatto che i soggetti si trasformano in corso d’opera. Con l’Ottobre inizia l’epoca delle rivoluzioni socialiste. Ma si è solo agli albori. Nessuno aveva mai fatto l’esperienza di un’organizzazione pianificata dell’economia di un intero grande paese, né della gestione sociale. Nessuno aveva mai provato a superare la divisione del lavoro tra dirigenti e diretti, tra lavoro esecutivo e di comando. Chiunque voglia avviare un processo di trasformazione socialista – e la configurazione del mondo oggi ci dice che il socialismo è molto più di ieri necessario alla vita dell’umanità e del pianeta -, non può buttare alle ortiche un secolo di storia del movimento comunista, lo deve studiare attentamente, senza le scorciatoie di giudizi sommari.

 

L’Ottobre ha ancora molto da insegnarci.