Luciano Canfora a proposito della Prima Guerra Mondiale

prima-guerra-mondiale-soldati-russia cura di Aris Della Fontana

#Politicanuova, quadrimestrale del Partito Comunista della Svizzera Italiana, intervista il noto storico, filologo e saggista, in occasione del centenario dello scoppio del conflitto

“La vera responsabilità dell’estensione dello scontro da conflitto locale a conflitto europeo e poi mondiale è dell’Inghilterra”

1. Interroghiamo il passato per meglio conoscerci e, anche, per rispondere alle suggestioni che il presente pone. Si potrebbe affermare che un attendibile spaccato d’una società si misura in rapporto alla consapevolezza che questa ha del fondale storico sul quale si è sviluppata. E, alla luce di ciò, come si presenta, all’interno della società odierna, la percezione della prima guerra mondiale?

L’anniversario del secolo intercorso ha avuto degli effetti un po’ odiosi: si è rilanciata una sorta di nostalgia della Grande Guerra, con la celebrazione dei luoghi del combattimento. Tale prassi – sostanzialmente cerimoniale – si è manifestata in Italia, ma anche nel Nord Europa, e cioè in Francia, Germania e Paesi Bassi. Si è mescolato, sempre su questa scia, lo sbarco in Normandia (1944) con i fatti del ’14; un’operazione storiografica decisamente ambigua.

Nel caso italiano, peraltro, si è trattato di un processo di stampo quasi nostalgico-revanchista. È stato, sotto questo punto di vista, un centenario abbastanza fastidioso, nel quale – a parte qualche libro intelligente, penso ad una recente opera di Gian Enrico Rusconi1 – non si è prodotta storiografia veramente degna di attenzione.

2. Quanto aderisce alla realtà effettuale l’operazione (propagandistica) di rivestimento del conflitto con l’antitesi tra democrazie e autocrazie?

È un’impostazione manichea quella secondo cui la democrazia politica – non si capisce se di tipo liberale o quasi – sta dalla parte anglo-francese, e dall’altra, invece, vi è l’autoritarismo prussiano. L’impero tedesco e quello austroungarico costituiscono, dal punto di vista delle dinamiche politico-parlamentari, dei modelli più avanzati rispetto, per esempio, a quello italiano. La Germania, per quanto riguarda il parlamento imperiale, ha una struttura moderna; è stata tra le primissime a instaurare il suffragio universale maschile; tutto ciò, anche se smussato dalla sostanziale prevalenza dei ceti dominanti tradizionali, che nella Camera prussiana governano senza contrasti2, attesta l’energia portata dalla spinta democratica e le possibilità a disposizione dell’opposizione3. Nessun altro paese europeo, inoltre, aveva un movimento operaio e sindacale così organizzato e potente come quello tedesco. In Inghilterra, all’insegna di un conservatorismo sostanziale, si ha un meccanismo elettorale nel quale il suffragio universale non è attuato4 e vige un rigoroso maggioritario a collegio uninominale, che annulla la rappresentanza dell’opposizione tutte le volte che questa è soltanto una forte minoranza. In Francia vige una legge elettorale maggioritaria, rigorosamente penalizzante per il suffragio universale; a ciò si aggiunge la corruzione, la clientela politica e il peso dei notabili. L’antitesi in questione non regge nemmeno se volgiamo lo sguardo al rapporto intrattenuto dall’Inghilterra con la Russia – della quale tutto può dirsi tranne che fosse una «democrazia». Con l’accentuarsi e inasprirsi del conflitto, peraltro, le varie libertà politiche, di fatto, saranno ridotte dovunque.

E, pertanto, siamo di fronte ad una presentazione schematica che è, chiaramente, un prodotto della propaganda, come tale interessante perché la propaganda è interessante di per sé, purché si sappia che è falsa.

3. È sostenibile “distribuire le responsabilità”, cioè postulare, oltre la cortina delle verità ufficiali, la compartecipazione di ambo gli schieramenti nel gettare le basi del conflitto? Oppure tutte le “colpe” vanno ascritte agli Imperi Centrali?

Alla guerra si arriva per progressivi scivolamenti. Essa è quindi costituita da numerosi antefatti, che attengono a una convergenza di responsabilità sostanziali, che si è intrecciata con casi fortuiti, contrattempi, ritardi, consegne di ultimatum e così via.

Tuttavia, considererei qui una questione specifica, alquanto significativa in riferimento all’economia della responsabilità, e cioè il tentativo, da parte inglese, di trascinare la Russia nell’avventura bellica. Da una parte – è vero – la Russia è tenuta a proteggere le popolazioni slave, e quindi, nel caso concreto, la Serbia; dall’altra, però, sappiamo che, per sua tradizione geopolitica, la Russia non si impegna tanto volentieri in una guerra; vi viene trascinata, ma tendenzialmente la evita; storicamente ha subito le aggressioni: vi è, in tal senso, una sostanziosa tradizione di nazioni (i polacchi, gli svedesi, i francesi, i tedeschi) intenzionate ad invadere questo Paese. L’Inghilterra, dal canto suo, ha assoluto bisogno che la Russia – una massa d’urto formidabile – entri in guerra, e quindi è ben felice dell’incidente di Sarajevo, che costringe la Russia ad avere una posizione molto ostile nei confronti dell’Austria, la quale, in sostanza, interferisce nella gestione dell’inchiesta sull’attentato5. L’Inghilterra, al fine di far propendere la Russia verso l’entrata in guerra, le offre la possibilità d’attraversare gli Stretti6, di far transitare la flotta nel Mar Nero e di accedere al Mediterraneo. È quantomai necessario, infatti, operare un accerchiamento della Germania – da secoli l’Inghilterra era interessata, con cura quasi gelosa, affinché nessuna potenza s’insediasse sul continente europeo -, andando ad infrangere, di fatto, la politica bismarckiana, che consisteva nell’evitare il formarsi di un soggetto nemico ad est (il fatto di collocarsi tra due potenze, infatti, avrebbe significato, tendenzialmente, soccombere).

E, quindi, la vera responsabilità dell’estensione dello scontro da conflitto locale – magari aspro, ma pur sempre conchiuso – a conflitto europeo e poi mondiale è proprio dell’Inghilterra, che tanto s’impegna allorquando capisce che la Germania può essere accerchiata.

4. Qual lettura dare della sciagurata decisione da parte dei partiti socialisti di abbandonare l’internazionalismo e di votare i crediti di guerra?

I socialisti europei ebbero nel luglio-agosto del ’14 il loro grande momento, in cui avrebbero potuto fare la scelta giusta e decisiva, e invece fecero la scelta sbagliata, che agevolò enormemente lo scoppio del conflitto, il consolidarsi del conflitto. Essi furono posti dalla guerra dinanzi ad un’alternativa: aderire al conflitto e con ciò determinare una situazione paradossale dal punto di vista dell’ideologia e della pratica del movimento socialista – unito in una Internazionale, appunto, socialista – e di schierare operai tedeschi contro operai francesi, operai italiani contro operai austriaci; oppure boicottare, combattere contro i governi che la guerra l’avevano voluta e quindi porsi fuori da quel coro osannante dell’«unione sacra», in una posizione certamente difficile. La drammatica discussione apertasi fu motivo di un dilaniarsi all’interno di ciascun partito.

In Germania, il 4 agosto del ’14, il Reichstag viene posto dinanzi alla perentoria richiesta di votare a favore dei crediti di guerra. E i partiti tutti – socialisti compresi – votano a favore. Solo in un secondo momento, dinanzi all’evolversi della situazione, dinanzi alla trasformazione della guerra-lampo in guerra di posizione, in guerra di trincea, cominceranno a entrare in crisi le loro certezze. E comincerà a farsi strada un concetto di cui Karl Liebknecht in particolare, e Rosa Luxemburg sono artefici: che cioè il nemico principale (nel caso della Germania) del popolo tedesco è il governo tedesco (un concetto che ovviamente rasenta il crimine di tradimento passibile di una persecuzione giudiziaria, come infatti accade). Un’impostazione del genere rimane ultra-minoritaria – quasi una testimonianza – per varie ragioni, ivi compreso il fatto che ormai da decenni il partito socialista stesso si è messo sul terreno «legale», di adesione all’ordine costituito, e dunque non facilmente può spostare i propri militanti su di una posizione così radicale, lucida certo, fondata, ma molto impopolare rispetto al «senso comune»7. Una storia di progressiva immissione nell’ordine costituito, di adesione ai pilastri della società capitalistica, faceva inevitabilmente propendere, dinanzi all’alternativa della guerra, per l’opzione peggiore: l’opzione che andava nella direzione di rendere sempre più forte l’economia tedesca onde ottenere un benessere diffuso e quindi una maggiore possibilità di successo per il partito.

Fu un colpo mortale per il movimento socialista il fatto che il maestro dei socialismi, cioè il partito tedesco, si comportasse in questa maniera; la sua scelta, quindi, si riverbera sulle altre formazioni nazionali. L’Internazionale si suicida nel momento in cui ogni partito opta per il suo rispettivo governo: così agiscono tedeschi e francesi; gli italiani, invece, per diverso tempo mantengono una posizione cosiddetta di “guerra alla guerra”. Lenin, che rappresenta una piccola frazione dello schieramento politico – praticamente illegale, nonostante le riforme e la Duma – è senza alcun dubbio, fino e dove può – a Zimmerwald (1915)8, a Kienthal (1916)9 – contro la guerra, e quindi appoggia quelle frazioni dei partiti socialisti europei che hanno una posizione di contrarietà rispetto alla guerra. Queste ultime, tuttavia, sono tutte soccombenti, soprattutto dopo l’uccisione di Jean Jaurès10, un personaggio autorevolissimo che avrebbe potuto imporre un diverso orientamento, perlomeno ai socialisti francesi, ove è forte la componente sciovinista.

5. Nel concorrere delle cause, quanta centralità occupa l’aspra concorrenza tra i grandi interessi spartitori ed egemonici nell’ambito coloniale? La diagnosi leniniana è esauriente nell’indagare le cause prime scatenanti del conflitto?

La spartizione coloniale è pienamente in atto negli anni che precedono immediatamente la guerra, e anche le piccole potenze, se possibile, vi compartecipano. Con ciò si comincia a profilare la situazione che fa da sfondo al conflitto: le potenze europee sono sul piede di guerra e stabiliscono alleanze di convenienza funzionali ai fini spartitori. E, dunque, la compartecipazione alle responsabilità belliche va suddivisa fra tutti, perché tutti sono protesi a non lasciare che il contendente si avvantaggi.

L’interpretazione che Lenin presenta circa la cause del conflitto è acuta poiché va al fondo delle cose, e vede alla radice il primum movens di scontri di questa portata. È l’idea di una compartecipazione di tutti – non solo della Germania – alle responsabilità. Egli ha incentrato i suoi molti saggi a proposito della questione sulla nozione secondo cui l’imperialismo in quanto tale – fase ultima dello sviluppo capitalistico – produce conflitti inter-imperialistici, e quindi, immancabilmente, guerra. Si tratta, per così dire, di una predisposizione fisiologica al conflitto, e ciò in virtù del fatto che l’imperialismo è fondato sulla competizione tra i grandi paesi protesi alla spartizione del globo al fine del controllo delle materie prime, dei mercati e delle aree di investimento.

6. Quale relazione, in Russia, è intercorsa tra guerra e rivoluzione? Con quale margine il ribaltamento che matura in Russia ha esercitato un’influenza all’interno dei contesti nazionali europei?

L’Inghilterra – dicevamo – agisce, energicamente, al fine di portare al suo fianco la Russia. Ma ciò che non poteva prevedere sono gli sviluppi politici inediti, cioè, per esempio, il fatto che la guerra – e questo nel Novecento è accaduto più volte, e peraltro già ricorse nella guerra franco-prussiana (1870-1871) – genera movimento rivoluzionario, come all’interno di un intreccio; non poteva prevedere il crollo dell’impero zarista: poteva pensare che la Russia sarebbe uscita ammaccata, che poi avrebbe compartecipato all’eventuale vittoria, che avrebbe dovuto accontentarsi di quanto ottenuto e che, infine, nei suoi confronti sarebbero state disattese le promesse offertegli sullo scacchiere mediterraneo. Invece l’inedito è che, dall’interno, questo gigante si comincia a sgretolare, con la Rivoluzione di febbraio, con l’abdicazione dello Zar, con la caduta della monarchia e con il governo provvisorio, il quale tuttavia continua ad essere alleato delle potenze occidentali e, anzi, vi si riconosce ancor più e ritiene di potersi assimilare – un po’ alla Eltsin, si potrebbe dire – con queste. Ma è un equilibrio che non regge. E, così, all’interno delle potenze tradizionali comincia un processo decisamente inedito. La socialdemocrazia tedesca, già nel settembre del 1917 – e quindi ancora prima dell’Ottobre -, si divide, a seguito, da una parte, del crollo dello Zar e, dall’altra, del disagio interno alla Germania. E, quindi, nasce il Partito Socialdemocratico Indipendente (USPD), che poi confluirà nel Partito Comunista (KPD). Un analogo processo inizia a manifestarsi in altre formazioni nazionali, per esempio in Italia all’interno del Partito Socialista (PSI), che solo dopo la Battaglia di Caporetto11 sceglie la linea patriottica. Abbiamo quindi un panorama frastagliato che comincia a ruotare intorno alla Rivoluzione di Ottobre quale punto di riferimento capace di coagulare tutte queste posizioni.

7. È possibile intendere il ’14-’18 quale culla del decadimento reazionario degli ordinamenti liberal-democratici e della riconfigurazione delle collocazioni politiche?

Alla fine del ’17 si ha l’intervento statunitense, che è decisivo – è inutile, in tal senso, fingere che la guerra è stata vinta dagli Stati europei contro la Germania. Con il crollo della Russia zarista e con la pace di Brest-Litovsk (1918), la Germania, ad est, non ha un nemico nel governo sovietico, e quindi può riversare le forze sul fronte occidentale, puntando sull’offensiva nelle Ardenne, che viene fermata – appunto – con l’intervento statunitense. Dato che questo costituiva l’ultimo sforzo bellico realisticamente possibile per la Germania – dissanguata dall’interno, divisa da conflitti sociali, colpita dagli scioperi nelle fabbriche delle munizioni -, la richiesta della pace si imponeva quale unica soluzione. Il fatto che l’azione statunitense fu causa determinante del crollo verticale germanico, fece presagire qualcosa che non accade subito, ma che era comunque destinato a concretarsi: lo Stato nordamericano comincia ad assumere le sembianze del convitato di pietra della politica europea; Wilson vorrebbe addirittura pilotare la fuoriuscita dalla guerra, con i 14 punti, con la Società delle Nazioni; e nel contempo appoggia l’aggressione contro l’Unione Sovietica, che viene attuata subito. Ma poi, tutto ciò, non viene a concretizzarsi, ed è uno scacco terribile: gli Stati Uniti si chiamano fuori dal trattato di Versailles (1919-1920), lasciando alle grandi potenze europee, essenzialmente Francia e Inghilterra, la libertà di giocarsi tutte le carte della pace a proprio vantaggio. Si giunge, in tal modo, all’umiliazione della Germania, in una maniera inaudita, tale che in altri casi avrebbe messo in ginocchio, definitivamente, il Paese; si concedono delle briciole all’Italia, che essa pretende, ma che, in rapporto alla complessiva condotta di guerra, “merita” ben poco. La politica inglese e, in particolare, quella francese (si pensi alla decisione di occupare la Ruhr con la motivazione del mancato rispetto dei pagamenti dovuti dalla Germania in virtù dei risarcimenti di guerra) – “a noi la parte del leone” – si è appoggiata su una visione abbastanza miope. Il quadro, in questa luce, è tale da preparare il nuovo conflitto: gli Stati Uniti se ne sono andati e quindi l’Europa, di nuovo, è lasciata al suo permanente dinamismo conflittuale; il movimento comunista sembra essere in grande espansione e ciò spinge ad una serie di reazioni su quel versante, che s’incontrano con la volontà punitiva nei confronti della Germania; e, in più, abbiamo una piccola potenza inquieta – il fascismo, infastidito e scontento del trattato di Versailles – che sta già preparandosi ad una svolta politica di tipo aggressivo-imperiale. Tutti gli elementi per un nuovo conflitto sono pronti: questo, i diplomatici occidentali a Versailles, non lo capirono, complice il naturale conservatorismo della diplomazia, la quale non pensa guardando in avanti, ma crede che la storia si ripeta perennemente: conseguentemente si ritenne doveroso, uscendo da una guerra vittoriosa, umiliare lo sconfitto. Tanto più se ciò avesse tolto di mezzo, definitivamente, lo Stato germanico, che costituiva un grande problema, per la sua capacità organizzativa e di ripresa, per le sue risorse, per il suo stile di lavoro e per tante altre ragioni.

8. Concretamente, quali dinamiche involutive ha generato l’approccio altamente penalizzante – potremmo dire “distruttivo” – nei confronti della Germania?

La miopia di cui sopra è stata letale perché ha prodotto uno stato di pre-guerra strisciante, di cui i vari episodi che si susseguono sono il sintomo (persino l’impresa fiumana12, in un certo senso, è un’avvisaglia del fatto che la guerra può ricominciare; per non parlare dell’occupazione della Ruhr e dei Freikorps13 in Germania, che continuano la loro guerra privata senza che nessuno prenda seri provvedimenti). Oltre a ciò, seguendo la via intrapresa, si tiene a battesimo il nazionalismo tedesco. All’inizio un tale movimento è incerto, poiché vi sono grossi partiti di destra più o meno tradizionali e squalificati. Nell’ultimo anno di guerra era nato il Deutsche Vaterlandspartei, che era diventato in breve tempo un partito di massa, dalla forza pari a quella dei socialisti; questo, con la fine del conflitto, si era poi sgonfiato; ma risorse sotto-forma di Deutschnationale Volkspartei, il partito tradizionale della destra, rapidamente in posizione tale da condizionare il governo, per poi addirittura entrarvici, dato che i socialisti, molto presto, perdono la maggioranza, sfiorata solo nella costituente del 1919. E però, questo tipo di destra, non è tale da galvanizzare quelle masse scontente, che sono proletarizzate, che non si riconoscono nel movimento comunista, che non hanno fiducia nei socialisti che sono stati al governo non offrendo la prova di voler cambiare veramente le cose. Il germe del nazionalismo comincia lì; nel ’24 fallisce il putsch di Monaco, ma poi vi è una vera e propria scalata elettorale, aiutata dall’inflazione galoppante e, più in generale, dalla crisi economica (alla quale l’intervento degli Stati Uniti – che avevano compreso il futuro inquietante che poteva sorgere su un tale terreno – cerca di porre rimedio: più volte – nel ’24, nel ’26 e nel ’27 – e in tutti i modi il tentativo è quello di aiutare la Germania weimariana). Ma, di fatto, la destra tedesca, anche per la complicità del presidente Hindenburg, della Chiesa e degli industriali (il principale aiutante di Hitler è Alfred Hugenberg, il capo degli industriali), vede la propria ascesa segnata; i comunisti, nel ’30, hanno ancora 100 deputati nel Reichstag, e cioè sono una forza notevole; ma il cancellierato viene affidato ad Hitler nel gennaio del ’33, quand’egli non detiene ancora la maggioranza; e con la provocazione dell’incendio del Reichstag vince le elezioni nel marzo dello stesso anno, massacrando violentemente l’opposizione in capo a poche settimane.

9. Quanto è aderente alla realtà storica il concetto di «guerra civile europea»? Si può postulare un’unità del conflitto almeno all’interno della prima metà nel Novecento europeo, le cui fasi sono intimamente concatenate – in virtù di una vera e propria «seconda guerra dei Trent’anni (1914-1945)»?

È corretto, alla luce di quanto sopra, parlare di “un’unica guerra”; in essa, tuttavia, i soggetti cambiano – anche se, tutto sommato, si ha lo stesso tipo di schieramenti: mentre in apertura è il conflitto tra gli imperi contrapposti, in seguito, invece, comincia a diventare quella che – appunto – Ernst Nolte ha definito «guerra civile europea», nell’ottica di fotografare non soltanto una guerra di potenza, ma anche un fenomeno di contrapposizione alla rivoluzione, che è ormai diventata un soggetto centrale. Occorre tuttavia rettificare la periodizzazione: Nolte, infatti, individua nella rivoluzione comunista la discontinuità che innesca il conflitto; conseguentemente, in quest’ottica, prima il fascismo italiano e poi quello tedesco non sono altro che la risposta a questo evento. L’errore, in questa analisi, consiste nel non capire che la rivoluzione d’Ottobre è essa stessa la risposta a qualcosa di precedente, e cioè al ’14, un conflitto avversato sin dal primo momento dai rivoluzionari russi; essa fornisce l’alternativa rispetto ad una società e ad un assetto mondiale che hanno causato la guerra, portando alla catastrofe. Il concetto di “sfida e risposta”, quindi, si può applicare, ma dobbiamo essere consci del fatto che la “sfida” si presenta nel ’14, questo sciagurato anno, con cui si infrange un equilibrio dal quale non ci si riprende se non con convulsioni sempre più forti.

NOTE

1 Gian Enrico Rusconi, 1914: attacco a Occidente, il Mulino, Bologna 2014
2 «Accanto al parlamento del Reich, il Reichstag, per il quale i socialisti concorrono con grande successo, esiste […] il parlamento prussiano, la cosiddetta Camera Alta prussiana, nella quale però il sistema elettorale è completamente diverso – non solo un sistema maggioritario ma addirittura una rappresentanza per “ceto”». Luciano Canfora, 1914, Sellerio, Palermo 2006, p. 36
3 «È vero che la camera imperiale, il Reichstag, era un luogo dove si faceva soprattutto discussione politica; e però è altrettanto vero che era importante per le forze di opposizione avere una sede così autorevole dove manifestare dinanzi a tutta la nazione le istanze dell’opposizione». Ivi, p. 39
4 «In Inghilterra è elettore chi sia o proprietario di una casa, o titolare di un affitto di casa; gli altri non lo sono: il che esclude una quantità notevolissima di persone». Ivi, p. 42
5 «L’inchiesta ufficiale dell’impero austriaco sul delitto di Sarajevo fu realmente un’inchiesta superficiale; gli esiti che essa diede erano tutti già preordinati, era una verità già conosciuta che veniva resa pubblica. In particolare l’inchiesta dimostrò – fra molte virgolette – che a Belgrado il delitto era stato preparato politicamente; […] in sostanza questo tipo di diagnosi era rivolta unicamente a incastrare in una responsabilità ineludibile il governo della Serbia». Luciano Canfora, 1914, cit., p. 66
6 «Il termine Stretti o Stretti Turchi si riferisce ai due stretti (Dardanelli e Bosforo) che uniscono da una parte il Mar di Marmara con il Mare Egeo e dall’altra il Mar di Marmare al Mar Nero». Il Piccolo Rizzoli Larousse, dizionario-enciclopedia, 2004
7 «Ricordiamo il famoso romanzo di Heinrich Mann, Der Untertan, Il suddito: aiuta a capire come il cittadino attraverso la scuola, attraverso l’esercito, attraverso la disciplina civile particolarmente forte nella Germania, è portato naturalmente all’obbedienza, al conformismo, a fare quello che il governo gli dice di fare». Luciano Canfora, 1914, cit., p. 132
8 «Conferenza internazionale dei partiti socialisti, tenutasi in Svizzera su iniziativa italiana ed elvetica, per ritrovare la perduta unità d’azione tra socialisti di fronte alla guerra. Approvò un manifesto, redatto da Trockij per una pace senza annessioni. Priva di effetti concreti, offrì una platea internazionale alle posizioni dei bolscevichi». Dizionario di storia moderna e contemporanea online
9 «Convocata nella cittadina svizzera dalle componenti socialiste della seconda Internazionale ostili alla Prima guerra mondiale, riaffermò la proposta di una pace senza annessioni e senza indennità, ma vi guadagnarono anche largo consenso le tesi di Lenin sulla trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe». Dizionario di storia moderna e contemporanea online
10 «Uomo politico e storico francese. Deputato nel 1885, dapprima di opinioni moderate, si andò poi interessando a questioni sociali. Prese perciò posizione, nelle legislature alle quali partecipò, per una politica di riforme, dopo il 1905 con radicale intransigenza. Nella crisi europea del luglio 1914, schieratosi tra gli oppositori alla guerra, in nome dell’Internazionale socialista, fu ucciso con un colpo di pistola da un certo R. Villain».Enciclopedia Treccani online
11 «La dodicesima battaglia dell’Isonzo (24 ottobre 1917), durante la Prima guerra mondiale. Le divisioni austro-tedesche inflissero presso Caporetto, centro dell’odierna Slovenia, una pesantissima sconfitta alle truppe italiane, guidate dal generale Cadorna, le quali furono costrette a ritirarsi, attestandosi poi sul Piave (9 nov. 1917). Centinaia di migliaia di prigionieri caddero in mano al nemico, insieme a migliaia di cannoni e a grandi depositi di materiali da guerra e alimentari. La rotta subita dalle truppe italiane provocò un vero e proprio trauma nell’immaginario collettivo e nella memoria storica del Paese». Enciclopedia Treccani online
12«(settembre 1919 – dicembre 1920). Essendo rimasta inevasa la richiesta italiana (suffragata da un plebiscito) alla Conferenza di Versailles (1919) di annettere la città dalmata, assegnata invece alla Croazia dal patto di Londra (1915), Gabriele d’Annunzio la occupò con una legione di volontari instaurandovi il comando del “Quarnaro liberato”». Enciclopedia Treccani online
13 «(corpi franchi). Unità di volontari che si distinsero per la prima volta, in Austria e Prussia, nelle guerre antinapoleoniche. Nel 1919 lo stesso nome presero i corpi paramilitari dell’estrema destra che repressero il tentativo rivoluzionario della Lega di Spartaco. Sciolti dalla repubblica di Weimar, svolsero però un ruolo primario nel putsch di Monaco (1923) e nel partito nazionalsocialista». Dizionario di storia moderna e contemporanea online