Cade il muro, continua la storia

di Rita Coitinho

Il 9 Novembre 1989 passò alla storia come il giorno del crollo del Muro di Berlino.  Non il crollo del Muro in sé, ma ciò che esso rappresentava fu il senso politico di quei giorni: la divisione cioè del mondo in due blocchi politici economici contrapposto ed inconciliabili. 

La caduta del Muro, che separava la Repubblica democratica tedesca (socialista) dalla Repubblica federale tedesca (capitalista) fu uno degli eventi che meglio caratterizzò la dissoluzione del blocco socialista, che culminerà con la fine dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) nel 1991.

Secondo l’analisi di Vizentini 1 “l’apertura del Muro e la disintegrazione dell’Urss, pur se furono simbolicamente eventi poderosi, non furono il risultato della Guerra Fredda, ma le conseguenze di questo fenomeno. Senza la rinuncia sovietica al suo ruolo politico ed al suo spazio di potere, il crollo non sarebbe avvenuto, sicuramente non in questo modo ed a questi ritmi.”

La guerra fredda terminerà tra il 1987 e il 1988; senza l’appoggio sovietico a questo processo, secondo l’interpretazione di Hobsbawn 2 , senza l’apporto coercitivo dello Stato sovietico, che dal 1980 prese ad abbandonare i paesi del Patto di Varsavia alla propria sorte, quei paesi stessi dell’Est europeo si smarrirono al momento della fine del blocco. E’ bene ricordare che di fatto, solamente la Polonia poteva contare su una reale opposizione organizzata al Partito comunista.

In un contesto di gravissima crisi economica, più grave e profonda della crisi politica che durava già da anni, la situazione divenne insostenibile già da agosto 1989 quando il governo, col consenso sovietico, si consegnò ai conservatori.

Alla caduta della Polonia seguì quella del regime ungherese, che già applicava il “socialismo di mercato” dal 1960, (in grave crisi alla fine degli anni 80) a cui seguì la formazione di un governo di centro-destra. In novembre fu la volta della Rdt e della Cecoslovacchia, entrambi in crisi finanziaria (seppur in condizioni migliori dei paesi vicini)

In seguito, in Bulgaria, l’area riformista del Partito comunista approfittò delle prime proteste per prendere il potere attraverso un Golpe. In Romania, l’Unione Sovietica sostenne un colpo di Stato militare, verificatosi dopo la repressione delle manifestazioni di protesta.

Gli eventi dell’Europa orientale, in alcuni casi, come la Romania, con passaggi anche drammatici e pirotecnici, (una guerra civile ampiamente ripresa e diffusa televisivamente, dove si mostravano le masse popolari che attaccavano i presidi della polizia politica, fino alla ripresa della condanna e fucilazione del Presidente Ceausescu, definito il Vampiro romeno) causarono grandi emozioni. La scena della popolazione di Berlino che distruggeva il muro, sotto lo sguardo passivo e inerme delle guardie di frontiera, fu ampiamente diffusa e divulgata come l’emblema della definitiva fine dell’epoca del socialismo reale.

E’ ingannevole il messaggio che analizza la caduta del socialismo all’est e in Urss come il risultato dell’azione delle masse scontente e deluse. Questa è un’interpretazione che conviene alla propaganda liberale.

In Unione Sovietica il regime contava su un ampio appoggio popolare e la direzione del Partito comunista (PCUS) non soffriva le richieste e le domande della maggioranza della popolazione. Le ragioni della fine del socialismo risiedono per lo più internamente, sebbene già dagli anni settanta l’Urss soffrisse gli impatti della crisi economica capitalista, diventandone successivamente una delle principali vittime ( fino al 1990, per lo meno, i paesi capitalistici cercavano di recuperare, più o meno rapidamente, dalla crisi economica).

Conferma Hobsbawm: “Il socialismo reale ora affrontava non solo i propri problemi irrisolti, ma anche gli effetti di una evoluzione problematica dell’economia mondiale, economia in cui esso era sempre più integrato”

Oltre al fattore economico, occorre concentrare l’analisi all’interno della sfera politica, se si vogliono davvero trovare i fattori determinanti del declino.

Perchè? Perchè le “novità” teoriche politiche (glasnost) e economiche (perestroika), realizzate sotto la guida del nucleo dirigente del Pcus che faceva riferimento al segretario Gorbaciov, apportate per affrontare la crisi, hanno inequivocabilmente condotto l’Urss all’economia di mercato ed all’adesione dei principi di democrazia liberale. Questo era chiaro (nel piano economico) già dalle prime riforme in direzione del mercato e divenne lampante all’ultimo Congresso del Pcus (il 28° congresso nel 1990).

Si legga a riguardo: http://www.vermelho.org.br/noticia/253127-9
http://www.vermelho.org.br/noticia/253005-9

Già Lenin, nel 1921, sostenne che “Nessuno può sconfiggerci, se non i nostri stessi errori”. E’ certo che le pressioni esterne, durante la Guerra Fredda, furono in buona parte determinanti per la crisi del modello sovietico.

Però è anche importante esplorare le cause intrinseche al Partito, la direzione ed il comando del processo; furono i dirigenti del Pcus a optare per la via del mercato, che già dal 1990 gettarono la maggioranza della popolazione russa nella miseria e nella instabilità economica; furono le risoluzioni del Pcus stesso a decretare la fine della sua esistenza.

Un compagno anziano, membro del Pcus, V.A. Tiulkine, ha pubblicato un articolo sui suoi ricordi del 28° Congresso 3 nel quale afferma che il Partito era afflitto da anticomunsmo. Nella sua analisi, questa virata iniziò sotto la direzione di Krusciov quando, nel 22° Congresso, il Partito adottò la definizione di “Partito di tutto il popolo”, orientandosi a dirigere lo Stato di tutto il popolo.

Secondo Tulkine, il Partito, pur mantenendo la sua denominazione ed il suo simbolo, intraprendeva, a partire da Krusciov, la strada del riformismo, che lo avrebbe poi inevitabilmente portato ai risultati del 1991, quando l’avvento di Boris Yeltsin portò alla definitiva conclusione dell’Urss, iniziata con la sua elezione alla presidenza della Federazione russa.

Tiulkine segnala che il 28° Congresso approvò (non senza diversi tentativi di opposizione e di interventi in senso contrario) le riforme economiche di Gorbaciov che erano già in corso da alcuni anni, come Gorbaciov stesso riconobbe di fronte al Congresso (la dimostrazione palese di come una minoranza si era appropriata della direzione del partito senza un congresso a convalidarne la linea).

I concetti di economia di mercato e la stratificazione sociale in base al reddito, furono presentate come grandi scoperte economiche, come se non fossero invece i fondamenti chiave dell’economia borghese. Il potere popolare veniva ora associato al multipartitismo e attraverso l’adozione del parlamentarismo.

Il risultato catastrofico di queste misure fu la fine del socialismo, con le conseguenze che tutti conosciamo: profonda crisi economica, privatizzazione delle grandi imprese, crescita della malavita organizzata, e grande concentrazione della ricchezza in pochissime mani. Inoltre, cruenti conflitti nazionalistici investirono molte Repubbliche dell’ex Urss.

Il collasso sovietico fu salutato con ottimismo dall’occidente capitalista. Si affermava che quella storia si era chiusa per sempre. Il libro di Fukuyama celebrava l’ordine capitalista e liberale come il punto massimo dello sviluppo dell’umanità.

D’ora in poi avrebbe dovuto solamente migliorare alcuni aspetti delle sue strutture socio-economiche. La fine della Guerra Fredda, un Nuovo Ordine unipolare e un grande villaggio globale sotto l’egida degli Stati Uniti d’America, dichiarava conclusa la lotta di classe.

La realtà però, è un pò più complessa del libro di Fukuyama e dei propagandisti del liberalismo e del modello nord-americano.

Appena dodici anni dopo il 9 novembre 1989 ( la caduta del Muro di Berlino) venne l’11 settembre 2001, quando le Torri Gemelle vennero colpite da aerei dirottati da militanti di Al Qaeda.

Nelle parole di Zizek 4, se “Il 9 novembre annunciava i «felici anni ’90», il sogno di Francis Fukuyama della «fine della storia», la convinzione che in linea di principio la democrazia liberale avesse vinto, che la ricerca fosse finita, che l’avvento di una comunità mondiale liberale globale fosse dietro l’angolo, che gli ostacoli a questo lieto fine ultra-hollywoodiano fossero meramente empirici e contingenti”, con l’11 settembre 2001 abbiamo “il principale simbolo della fine dei felici anni `90 clintoniani, dell’arrivo di una nuova era in cui altri muri stanno sorgendo dappertutto: tra Israele e la Cisgiordania, intorno all’Unione Europea, sul confine Usa-Messico.”

L’immersione degli Usa nei conflitti senza fine in Medio Oriente, l’apparente confusione dei suoi obiettivi, sommata all’ascesa di nuovi ( e vecchi, come la Russia) poteri sulla scena mondiale, e la conseguente nascita di una realtà multipolare sulla scena mondiale, dimostrano che sicuramente la storia continua, anche se non si sa bene dove si sta andando.

La retorica della fine della storia intanto permane nei Media, nelle Accademie, nei partiti politici, seppur in misura più sofisticata.

Pur accettando che la storia non è finita, si afferma che la democrazia liberale e il capitalismo non hanno avversari.

Come afferma provocatoriamente Zizek, “è facile ridere del concetto della fine della storia di Fukuyama, quando la cultura dominante è fukuyamana: il capitalismo democratico liberale è accettato come la migliore formula possibile per la società, possiamo solo renderlo più equo, più tollerante, ecc.”

Siamo, in ultima analisi, destinati a restaurare il capitalismo in uno stampo più umano, semplicemente perchè il socialismo sovietico è crollato (per i propri errori, come sospettiamo in questo testo e secondo alcuni eminenti autori citati qui) ? Non abbiamo alternativa?

Ma allora come spiegare la nascita di nuove prospettive in America Latina, nel nome di un socialismo rinnovato che mobilita le masse popolari, la maggior parte delle quali proveniente dai quartieri e dai settori più poveri della società?

La società liberale non sembra offrire alternative reali ai milioni di persone che vivono ai margini, disoccupati, sottoccupati e sotto-rappresentati dalle strutture del potere statale.

A noi pare che questo nuovo sviluppo sembra ritornare sulla scena storica ed è probabile che il compito principale del 21° secolo, sia molto simile a quello el 20° secolo: politicizzare e organizzare grandi contingenti di masse che non saranno mai inclusi nell’economia di mercato.

Ma organizzare per quale scopo? Per consegnare loro nuovamente il potere o per esercitarlo di fatto?

Forse capire meglio gli errori che hanno portato alla caduta dell’esperienza sovietica ci può aiutare ad individuare nuove strade per le esperienze di potere popolare, oltre l’orizzonte del liberalismo, che già mostra segni di esaurimento proprio nel cuore del sistema.

La crisi economica e politica che attualmente investe i principali paesi capitalisti, gettando nella disperazione gran parte del suo stesso popolo ( non è più possibile scaricare la crisi all’esterno, come nel passato) ci dimostra che sicuramente lo Stato liberale borghese e l’economia capitalista non sono la fine, ma semplicemente una parte della storia.

Note:

1 – VIZENTINI, Paulo G. Fagundes & PEREIRA, Analúcia D. História do Mundo Contemporâneo – Da Pax Britânica do Século XVII ao Choque das Civilizações do século XXI – Petrópolis: Vozes, 2008.
2 – HOBSBAWM, Eric. Il secolo breve, 2014, Biblioteca Universale Rizzoli.
3 – O artigo de V.A. Tiúlkine está disponível em http://www.hist-socialismo.com/docs/TiulkineUltimoCongressoPCUS.pdf
4 – ZIZEK, Slavoj. In delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, 2009 editore Ponte alle Grazie.

Rita Coitinho * per il portale Vermelho
(traduzione di Erman Dovis per http://www.pdci.it/)
Fonte originale: http://www.vermelho.org.br/noticia/253124-9

*Rita Coitinho è insegnante di sociologia, scienze sociali,dottoranda in geografia e editorialista del Portale Vermelho, organo ufficiale del Partito comunista del Brasile (PCdoB)