Mandela e la sua contraffazione nei deliri di “Repubblica”

Nelson-Communist-610x250di Spartaco A. Puttini per Marx21.it

Il mondo sta rendendo il giusto omaggio a Nelson Mandela, una grande figura di rivoluzionario e alfiere dell’emancipazione del suo popolo dai lacci del razzismo, che è uno storico corollario del colonialismo e dell’imperialismo.

Purtroppo più che commemorare Mandela per quello che è stato e per come è stato il circo mediatico non può sfuggire alla necessità di edulcorare la sua figura di combattente e così al posto di Mandela si cerca di offrire al pubblico un santino evirato e sostanzialmente innocuo.

Mandela viene giustamente ricordato come un campione della lotta contro il regime razzista dell’apartheid ma è il contesto della sua lotta che viene abilmente taciuto.


Egli ha fatto interamente parte di quel movimento di liberazione dei popoli di colore dal suprematismo bianco e dall’imperialismo occidentale che ha scosso il mondo dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, portando alla decolonizzazione di interi continenti che nel giro di pochi decenni, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, erano stati completamente spartiti, predati e riorganizzati dalle potenze capitalistiche avanzate in base ai loro esclusivi interessi.

Quello di Mandela è il capitolo di una storia di riscossa e rinascita che affonda le proprie radici a partire dalla rottura del fronte dei paesi imperialisti a seguito della Rivoluzione d’Ottobre, rivoluzione che generò un nuovo potere statuale sulle macerie della Russia zarista. Potere che per primo si pose l’obiettivo di saldare la lotta di classe per l’emancipazione degli sfruttati nelle metropoli capitalistiche e la lotta di liberazione nazionale dei popoli che erano asserviti dall’imperialismo.

Il richiamo che la Russia sovietica, il Komintern e l’intero movimento comunista internazionale esercitarono sui popoli di colore e l’impatto del loro appoggio alla causa della liberazione dal giogo coloniale e imperialistico fu enorme. Dal secondo congresso del Komintern Lenin annunciò l’alleanza strategica del movimento comunista con le correnti del nazionalismo rivoluzionario. E i militanti nazionalisti di quello che più tardi si sarebbe chiamato Terzo Mondo presero a guardare con fiducia e simpatia verso Mosca, sicuri di aver trovato una sponda cui appoggiarsi per lottare contro l’oppressione occidentale.

Alcuni militanti nazionalisti maturarono poi convinzioni che li portarono a diventare comunisti, altri non giunsero a tanto, ma compresero l’importanza dell’Ottobre e videro nell’Unione Sovietica e nel movimento comunista internazionale un naturale alleato nella lotta antimperialista. Ancor più dopo che la costruzione della potenza sovietica permise di sconfiggere il nazifascismo e il suo ambizioso tentativo di imporre i disumani metodi di dominio e sopraffazione che le potenze imperialiste avevano già applicato nelle colonie allo stesso continente europeo, fino a progettare lo sterminio sistematico di intere popolazioni.

Il crollo della Germania e del Giappone aprì una nuova fase della storia dei popoli di colore. Anche gli imperi coloniali che erano usciti vincitori dalla guerra tremarono. Iniziava la decolonizzazione. Fu il momento della rivoluzione cinese, di quella coreana, della sconfitta dei francesi a Dien Bien Phu ad opera dei vietnamiti. Fu l’inizio della sollevazione dell’Indocina, dell’Algeria. Fu l’annuncio della rinascita araba e anche di quella dei popoli africani.

Mandela ha fatto parte di questa storia. Insieme a Nkrumah, a Lumumba, a Kabila, a Nyerere, a Neto, a Cabral, a Sankara e a Mugabe, per non citare che i nomi di alcuni protagonisti della riscossa dell’Africa nera.

In questi giorni quel foglio reazionario che risponde al nome di “Repubblica” ha riproposto, per il lavaggio del cervello dei suoi incauti lettori, un articolo tratto dal “New York Times”1. E’ noto che gli Stati Uniti appoggiarono fino all’ultimo il regime sudafricano dell’apartheid e che trattarono Mandela alla stregua di un feroce terrorista. Per quanto sia di cattivo gusto proporre un ricordo di Mandela da parte di uno degli organi di stampa ufficiali della politica statunitense alcuni rilievi dell’articolo meritano che ci si soffermi e che si abbia il coraggio di guardare il fondo della latrina.

L’articolo di Bill Keller congettura sull’appartenenza o meno di Mandela al partito comunista sudafricano. Ma poi, a ben guardare, si sente in dovere di scagionarlo da tale ipotetica macchia sottolineando che in fondo il leader sudafricano è stato molte cose: “un nazionalista nero e un anti-razzista, si dichiarò contrario alla lotta armata e giustificò la violenza, fu una testa calda e diede prova di calma olimpica, fu divoratore di opuscoli marxisti e ammiratore della democrazia occidentale, stretto alleato dei comunisti e, durante la sua presidenza, partner dei potenti capitalisti sudafricani”. In fondo fu compagno di strada dei comunisti solo per avere degli alleati e l’aiuto più grande glielo diedero quando crollò il campo socialista, disinnescando il pericolo rappresentato dall’ANC in Sudafrica agli occhi di Washington, perché ormai la guerra fredda era finita. Questa la tesi. Una tesi che sembra suggerire, tra le altre cose, non senza suscitare involontariamente una certa ilarità, che se non ci fosse stato il pericolo sovietico sarebbero stati gli Usa a mettersi alla testa dei movimenti rivoluzionari e di emancipazione del pianeta.

In realtà l’articolista può smetterla di arrovellarsi: Mandela è stato membro del SACP e membro del suo Comitato Centrale per giunta, come ricordato dai comunisti sudafricani nel loro necrologio ufficiale2.

Successivamente, da leader dell’African National Congress, è stato un alleato fedele del partito comunista nella lotta di liberazione contro il regime dell’apartheid, tessendo un’alleanza che dura ancora, e non a caso.

Mandela ha guardato al movimento comunista, come moltissimi altri con lui in ogni continente, perché il movimento comunista è stato il più grande fattore dei processi di liberazione ed emancipazione della storia contemporanea. E’ stato ad oggi l’unica dottrina politica che è riuscita a fondere le due questioni cardinali della nostra epoca: la questione sociale e la questione nazionale. E’ stata una proposta politica che come poche altre ha concorso a trasformare in soggetti attivi masse disperate, fino ad allora oggetto del gioco di altri. Ha innescato il più grande processo di liberazione della storia umana. Nessun altro movimento ha ottenuto e realizzato di più. Coloro che lo criticano o lo deridono fanno riferimento a culture e movimenti politici che non sono arrivati nemmeno alle anche del movimento comunista internazionale.

Certamente quello innescato dal movimento comunista è stato un fenomeno e un processo di liberazione che, come tutto ciò che ha a che fare con la materialità e la concretezza della realtà e non solo con il mondo astratto delle idee declamate nei salotti, ha avuto anche un andamento complesso, non privo di contraddizioni. Ma come ogni movimento e fenomeno storico concreto va colto nelle sue caratteristiche e nei suoi effetti salienti. Chi ne parla a partire dal gulag, senza peraltro minimamente contestualizzarlo, pretende di iniziare un pasto a partire dal caffè.

Tra l’altro il processo di emancipazione innescato dall’Ottobre continua, a dispetto dei capricci della sinistra sinistrata occidentale, convertita o meno al liberismo, sia nella sua variante liberal che in quella radical. Continua nell’ascesa dei paesi emergenti, trainati dalla Cina, continua nel nuovo corso imboccato dall’America Latina e in mille altri processi e movimenti antimperialisti, pur di altri colori e di altre estrazioni ideologiche, che stanno cambiando i rapporti di forza su scala mondiale e il volto stesso della modernità. Continua nell’erosione della supremazia statunitense e occidentale, verso le quali, anche in tempi recenti, Mandela ebbe parole durissime.

Non è dunque frutto del caso l’alleanza strategica tra Mandela, l’ANC e i comunisti. Ed è un dato di fatto che fa onore tanto a Mandela e ai nazionalisti sudafricani che al movimento comunista nel suo complesso. Ma accettare questo fatto, comprenderlo, implicherebbe il ribaltamento della ideologia “liberal” e americanista fatta propria dal fogliaccio di Scalfari e da quella porzione del panorama politico e culturale che vi vede un riferimento. Allora crollerebbe il castello di colossali frottole costruite per l’immaginario della sinistra sinistrata negli ultimi decenni, immaginario propedeutico al disarmo totale e all’integrale accettazione nel sistema valoriale del pensiero unico e del suo blocco di interessi.

Mandela, proprio come i suoi compagni di lotta comunisti, non è stato tenero in un’epoca e contro un nemico con il quale teneri non si poteva essere. Non siamo solo noi a scegliere, a volte sono altri a spingerci verso determinate scelte, come sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le reciprocità che caratterizzano un sistema di interazioni.

Allora andrebbe anche contestualizzato il regime dell’apartheid e il suo operato. Il suo battesimo nel 1948 e il patto d’acciaio “per la giustizia” con lo Stato d’Israele, suo eterno alleato. Un alleato che avrebbe fornito al Sudafrica tutti i sistemi d’arma di cui questi abbisognava3 (dai missili Jericho in poi) per condurre una spietata guerra contro i suoi vicini dell’Africa australe. Un particolare su cui i media, a partire da “Repubblica”, edizione italiana del “Jerusalem Post”, sorvolano volentieri.

Il Sudafrica razzista non fu feroce solo con la propria popolazione nera, fu feroce anche con i paesi limitrofi che aggredì e occupò a più riprese. La decomposizione dell’impero coloniale portoghese in Africa australe e l’affermarsi di movimenti di liberazione nazionale di ispirazione marxista in Angola e in Mozambico erano visti dal regime sudafricano come il fumo negli occhi. Le fiamme della lotta di liberazione stavano incendiando la prateria e il fuoco attizzava il risveglio della popolazione della Namibia (occupata dal Sudafrica dalla fine della prima guerra mondiale) e della stessa popolazione nera sudafricana in tumulto.

In quell’angolo di mondo la guerra fredda divenne calda, come ha scritto con dovizia di particolari Vladimir Shubin, in un saggio che ricostruisce quella guerra e che incredibilmente non ha ancora trovato un editore italiano4. Da una parte il regime sudafricano appoggiato da Israele, dagli Usa e dalla Gran Bretagna e affiancato sul terreno dalle contras costituite dalle bande armate controrivoluzionarie dell’UNITA e dalla RENAMO; dall’altro campo l’Angola, il Mozambico, i partigiani namibiani della SWAPO sostenuti dai volontari cubani e dagli aiuti diretti dell’Unione Sovietica, che inviò uomini e materiali in un gigantesco sforzo logistico.

E’ una guerra la cui storia meriterebbe ben altra trattazione. Una guerra in cui la divisione degli schieramenti già dice tutto, più di mille parole. Una guerra della quale non si parla volentieri.

Una guerra che finisce allorquando il Sudafrica subisce una disfatta militare irreparabile a seguito della battaglia di Cuito Cuanavale nei primi mesi del 1988, la più grande battaglia della storia africana dopo quelle del secondo conflitto mondiale. Determinante l’aiuto cubano all’Angola. Determinante la solidarietà internazionalista tra i movimenti di liberazione dell’Africa australe. Determinante, per il risvolto sudafricano della vicenda, il patriottismo con cui Mandela e l’ANC sono andati fino in fondo senza mai arrendersi alle avversità.

Dopo Cuito Cuanavale diviene chiaro che il regime razzista dell’apartheid non può vincere e che non ha più prospettive. Il compromesso che sta alla base della liberazione di Mandela e della nascita del nuovo Sudafrica è a quel punto un risultato strappato con le unghie e con i denti e accettato, per realpolitik, come il male minore dagli Usa, che però impongono al paese la rinuncia all’arma atomica, progettata in comunione con Israele.

Mandela ha riconosciuto il peso determinante avuto dagli eventi angolani e soprattutto dall’impegno cubano nel conflitto australe nell’avergli aperto le porte della prigione: “Cuito Cuanavale segna la virata nella lotta per la liberazione del continente africano e alla sferza dell’apartheid nel nostro paese […] La sconfitta dell’esercito razzista a Cuito Cuanavale diede la possibilità all’Angola di godersi la pace e consolidare la propria sovranità […] permise al popolo combattente della Namibia di conquistare finalmente la propria indipendenza […] e servì da ispirazione al popolo combattente del Sudafrica”5.

Il Sudafrica di oggi resta un paese attraversato da molte contraddizioni, che si trova nell’esigenza di approfondire il suo percorso di liberazione. Ma è un paese migliore. Saldamente ancorato nel fronte antimperialista anche tramite la scelta di aderire al gruppo BRICS con la Cina, il Brasile, l’India e con la Russia di Putin. Un altro elemento su cui molto ci sarebbe da riflettere, infierendo sulla visione astratta del mondo fatta propria da “Repubblica” e dalla sinistra sinistrata liberal e radical.

Oggi Mandela ci viene presentato come un santino senza storia. Lo si mette volentieri nel pantheon dei benpensanti e del politicamente corretto. Magari accanto a Gandhi e a quel predicatore visionario, generoso e un po’ fanatico di Martin Luther King. E’ fargli un torto. Accostarlo a Obama, che si era recato come un avvoltoio in Sudafrica già tempo fa per sfruttare mediaticamente l’evento della morte del grande rivoluzionario per lustrare un po’ la sua immagine, alquanto ammaccata nonostante la santificazione di cui è oggetto da parte della sinistra-destra occidentale, è fargliene due.

Sarebbe meglio ricordarlo con le sue parole:

Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani […] l’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo6.”

Ma non pretendiamo che lo faccia “Repubblica”.

Forse dovremmo essere indulgenti con questi alfieri della sinistra che sta in fondo a destra e che più che sconfitte storiche e leader farlocchi non hanno contribuito a confezionare. Ma è più opportuno tenere a mente quanto diceva Gramsci quando ammoniva a non comprare i giornali antioperai, perché ogni soldo dato dal lavoratore per comprare il giornale del nemico di classe è una pallottola nel fucile della reazione puntato contro il movimento operaio:

[…] l’operaio deve negare recisamente qualsiasi solidarietà col giornale borghese. Egli dovrebbe ricordarsi sempre, sempre, sempre, che il giornale borghese (qualunque sia la sua tinta) è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un’idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all’ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione.

Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell’opera di difesa spietata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi pagare …dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente, generosamente.

Centinaia di migliaia di operai, danno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo così a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete nel tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: ‘perché ho bisogno di sapere cosa c’è di nuovo’. E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possono essere esposti con un’arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso. […] E non parliamo dei fatti che il giornale borghese o tace, o travisa, o falsifica, per ingannare, illudere, e mantenere nell’ignoranza il pubblico dei lavoratori.

Malgrado ciò, l’acquiescenza colpevole dell’operaio verso il giornale borghese è senza limiti. Bisogna reagire contro di essa e richiamare l’operaio all’esatta valutazione della realtà. Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia”7.

Sono in molti a dare ancora credito alla “Repubblica” in quanto giornale di riferimento del centrosinistra (nonostante quello che è concretamente oggi il centrosinistra) o addirittura “di sinistra”. Un credito ampiamente immeritato, come mostrano gli articoli su quasi tutti i temi più importanti: dalla glorificazione di Monti prima e Napolitano poi, alle prese di posizione sulla politica estera nei riguardi della Russia, dei recenti avvenimenti golpisti in Ucraina, della tragedia libica e di quella siriana. Tutti argomenti sui quali “Repubblica” si è mostrata addirittura più retriva e reazionaria del “Giornale” di Berlusconi.

La sua magnificazione di Obama, del mito americano e di questa Unione europea avida e tirannica e del miraggio cosmopolita col quale far digerire un futuro di emigrazione e miseria per i nostri figli costituiscono ormai il suo distintivo. Anche in merito allo snaturamento dei riferimenti storici della sinistra svolge assai bene il suo ruolo e disgraziatamente la figura di Mandela non poteva sfuggire al trattamento.

NOTE

1 “La Repubblica”, 9 dicembre 2013

4 V. Shubin, The Hot Cold War: the USSR in Southern Africa; London Pluto Press, 2008

7 A. Gramsci, I giornali e gli operai; in: “Avanti!” ed. piemontese, 22 dicembre 1916