Gramsci, Togliatti e la Costituente

togliatti gramscidi Salvatore D’Albergo

Dalla memorialistica all’attuazione “double-face”, al rilancio

(intervento inviato al convegno Togliatti e la Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro, organizzato dall’associazione “Futura Umanità. Per la storia e la memoria del Pci”, Roma, 8 novembre 2013)

1. Qualche riflessione introduttiva. Dalla memorialistica alla storiografia

La decisione di ripartire dal significato strategico della funzione costituente del Pci, già messa in rilievo in occasione del 90º dalla fondazione del partito, va colta come occasione per una puntualizzazione che offre molti spunti di riflessione, tanto più significativi al punto in cui è giunta l’offensiva ideologica e politica volta da almeno trent’anni per stravolgere – in vista di un vero abbattimento – la Carta del 1948, di cui si è quasi persa la portata politica per proiettarla in una luce storica di un superamento attenuabile solo da richiami incidentali a sue specifiche ma separate parti, facendone però impallidire una chiave di lettura unitaria e unificante della complessità dei principi che caratterizzano il nuovo tipo di strumento come spartiacque tra i modelli costituzionali degli ordinamenti dell’Occidente europeo e nord-americano in senso economico-sociale prima che istituzionale.


Tale decisione va infatti interpretata come avvio di una fase di lotta politico-culturale che si colleghi – trascendendolo – al lavoro di natura prettamente memorialistica che pure ha avuto il suo importante ruolo nella fase contemporanea all’elaborazione della Costituzione, nonché in quelle successive alla sua entrata in vigore, specialmente dal 1948 al 1983, quando dopo alcuni tentativi di colpo di Stato (bloccati dalla forte tenuta delle forze politiche che in varia misura hanno manifestato coerente attaccamento ai principi che hanno ereditato la lotta per la Resistenza e il consolidamento in essi di una fase completamente rinnovata della storia italiana), si è fatta strada anche nel Pci che si era battuto per la “riforma democratica dello Stato”, l’idea – prima nettamente respinta – che convenisse accettare il terreno di una elaborazione che andava in direzione opposta, in nome di un’artificiosa idea sospinta dalle forze moderate del centro-sinistra, secondo cui alcuni ostacoli ad una efficace funzionalità del sistema istituzionale dovessero o potessero essere rimossi correggendo aspetti dell’ordinamento della Repubblica – cui è intitolata la Seconda Parte della Costituzione – che ne insidiassero la stabilità, assunta come precondizione del funzionamento dei rapporti tra i tre poteri dello Stato.

Per riuscire a capire come una tale linea di impostazione sia valsa a coinvolgere anche il Pci in un tipo di approccio destinato nel suo incedere a lasciare alle spalle i punti nodali più significativi del concorso dei comunisti all’elaborazione della Costituzione come veicolo di un processo di trasformazione della società e dello Stato – per giungere ai travisamenti che incombono in questa fase oscura della democrazia italiana –, occorre mettere in chiara luce il progressivo e a prima vista impercettibile passaggio negli orientamenti culturali volti a rievocare il quadro dei principi con cui il Pci ha svolto il suo più cospicuo compito innovatore collaborando con le altre forze politiche testimoni della Resistenza antifascista a confinare in letture di tipo “memorialistico” la testimonianza complessiva e puntuale degli esponenti che con Togliatti hanno concorso all’introduzione degli istituti più innovativi di ogni rapporto civile, sociale, economico e politico come base di un inedito modello istituzionale della Repubblica fondata sul lavoro: con il preciso obiettivo, via via conseguito in un trentennio valso a contrapporsi al trentennio precedente (1948-1983 e 1983-2013), di scindere i Principi Fondamentali e gli istituti della Prima Parte dal modello di forma di Stato e di forma di governo segnato più specificamente nella Seconda Parte della Costituzione.

Si collocano su tale versante, oltre ai Discorsi di Togliatti alla Costituente pubblicati più volte, le ricostruzioni del dibattito sulla Costituzione di Amendola, Terracini, Laconi, risalenti alla fase precedente rispetto alla lenta ma inesorabile deviazione dalla rilettura organica di un testo che in tali termini complessivi sottolineava la stretta connessione tra le accennate partizioni della Costituzione, e perciò si configurava come il punto unificante delle lotte sociali e politiche che sono entrate in campo a partire dall’entrata in vigore della nuova Carta del 1948, assicurando sia alla Direzione e al Comitato Centrale, sia ai gruppi parlamentari del Pci la forza di legittimazione del loro lavoro di edificazione tramite il “partito nuovo” degli assetti di potere democratico in una fase subito presentatasi – a partire già dal maggio 1947 – come aspramente conflittuale, per il rèvirement dei quattro partiti succubi della Dc a favore di un rovesciamento del sistema democratico codificato nella Carta da attuare dando primato ai poteri del “mercato” con una legislazione di sostegno al meccanismo di accumulazione in nome del “boom economico” agevolato dagli USA, di contenimento dei salari e di repressione delle lotte sindacali e politiche fatte in nome della democrazia in pericolo.

Va perciò richiamato il contributo della memorialistica, con cui rimane fissato e perpetuato nel primo trentennio dal 1948 il significato che il Pci ha dato all’elaborazione del testo con un nucleo di principi assunti poi a base della lotta per l’attuazione della Costituzione, attuazione osteggiata dai partiti del “centrismo” proprio come testimonianza della qualità dei principi non riducibili alla semplice legittimazione delle “libertà” che era stata riconquistata con la lotta di liberazione, e della ricostituzione di una forma di governo consegnata al rapporto con le due Camere elettive. Risalta così la più netta contrapposizione spalancatasi tra il blocco imposto dalla Dc e i suoi alleati ai principi innovatori del “forma di Stato” sia protezionistica della fase liberal-liberista sia fascistico-corporativa sconfitta con la Resistenza, e quel nucleo di principi cui il Pci aveva contribuito decisivamente in collegamento con gli esponenti più consapevoli del mondo cattolico, riguardanti non solo la legittimità dei diritti sociali, ma soprattutto la previsione degli istituti necessari ad avviare la programmazione democratica dell’economia come asse, sia di una concezione della proprietà privata e dell’impresa disciplinate per fini di utilità sociale, sia dell’organizzazione delle prestazioni pubbliche come fondamento degli accennati diritti sociali.

E in proposito va messo in chiaro, proprio per cogliere il ruolo delle lotte guidate dal Pci nel primo trentennio di vigenza della Costituzione, che il peso della memorialistica è misurabile attraverso la massa dei contributi che hanno accompagnato tali lotte, mediante i quali si sono articolati i vari aspetti dei principi riguardanti la forma di Stato di “democrazia economico-sociale”, in quella lenta ma progressiva ricollocazione avvenuta dopo la vittoria elettorale dei partiti centristi nel fatidico 18 aprile 1948, che si è verificata negli anni ’50, segnati dalla clamorosa sconfitta dell’ormai famoso tentativo di manipolare la legge elettorale proporzionale “in senso maggioritario”, a favore dei partiti “apparentati” su una linea di assoluta polarizzazione ideologica, prima ancora che programmatica.

Quello che in termini sempre più scatenanti si è infatti verificato è che l’asse di riferimento organico della linea togliattiana accolta nel testo costituzionale è stato assunto dal partito nei passaggi più qualificanti della “democrazia progressiva”, concezione strategica invano denigrata in nome di una cosiddetta “doppiezza” denunciando la quale le forze anticomuniste palesavano l’incapacità politico-culturale di riconoscere – sia pure per contrastarla – un’impostazione programmatica in cui strategia e tattica sì susseguissero secondo moduli rivolti a non scadere mai nel congiunturalismo e nell’opportunismo, forme di operatività ben usate da altri con calcoli di breve respiro, come dimostrano i vari fallimenti prima del “centrismo” e poi del tanto controverso “centro-sinistra”. In questo quadro, lungi dallo scadere nell’economicismo, la strategia della programmazione democratica portata avanti dal Pci ha avuto una costante funzione catalizzatrice perché espressione di uno stretto intreccio tra politica ed economia, e segnatamente tra la proposta di finalizzare gli obiettivi economico-sociali (col raggiungimento degli obiettivi di intervento sulla produzione della ricchezza e della sua redistribuzione avvalendosi contestualmente degli strumenti “istituzionali” idonei a coinvolgere tutta la società) e le articolazioni dello Stato in compiti tradizionalmente affidati ai soli poteri centrali. Più precisamente, la Costituzione veniva coinvolta nella sua integralità di principi strettamente interrelati con una concezione sistematica ispirata dall’antifascismo e dalle culture di matrice cattolica e marxista, destinate queste ad incontrarsi proprio con la ricerca degli istituti più idonei a porre l’ordinamento in una prospettiva di trasformazione. Ma la controffensiva “centrista” e a suo modo quella del “centro-sinistra” sono state usate a partire da un impianto strategico-tattico se non di vero e proprio ripudio, di distacco dai principi salienti della Costituzione riguardanti i rapporti sociali, economici e politici inscritti nella Prima Parte, per limitare la fedeltà alla Carta del 1948 all’attuazione delle novità meramente organizzative della Repubblica come la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura: ma non le Regioni che dovevano attraversare l’intero assetto burocratico-amministrativo su cui si era imperniata la continuità tra lo Stato liberale e lo Stato fascista-corporativo. Ciò comporta la necessità di passare dalla pur fondante memorialistica sui caratteri della Costituzione a indagini strettamente connesse alla lotta sociale e politica il cui numero e la cui mole richiedono riassunzioni sistematiche sul piano storiografico; si vedano ad esempio i lavori di Giovanni Gozzini e Renzo Martinelli, o quello di Alexander Höbel sul Pci di Luigi Longo, che assegna un particolare rilievo all’indagine sulla strategia di lotta dei comunisti negli anni ’60, evidenziando che essa non comporta alcuna netta cesura né rispetto alla tormentata fase 1947-1960, né rispetto a quella posteriore, segnata dal ruolo di Enrico Berlinguer.

2. Gli anni ’60. La lotta per la programmazione democratica e la riforma dello Stato

È in quegli anni – mentre era in corso di definizione l’assetto della Costituzione – che si sviluppò infatti una lotta la quale dovette assumere, insieme, sia il compito di perseguire gli obiettivi riformatori segnati nell’originale modello di tipo “programmatico”, sia quello di resistere sempre nel nome della nuova Costituzione agli attacchi organizzati dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati per fare del Pci la vittima dello scontro Est-Ovest lanciato dagli anglo-americani. Ed è in quegli anni che si assiste alla ripresa dell’elaborazione sul tema gramsciano della “rivoluzione in Occidente”, sicché a una più forte iniziativa internazionale corrisponde una riflessione serrata sugli strumenti della “via italiana al socialismo”, programmazione democratica ‘in primis’. E in tale contesto, quel che più conta è l’implicazione del ruolo della Costituzione che ha tra i suoi punti più emblematici la strategia della trasformazione dei rapporti economico-sociali, che vanno ben oltre le parole d’ordine sul cosiddetto “stato sociale” i cui contenuti investono solo indirettamente il potere delle imprese monopolistiche, che hanno trovato nel “mercato comune europeo” lo strumento di antitesi alla democrazia che nel solo caso italiano trova i fondamenti costituzionali per il controllo politico e sociale del meccanismo di accumulazione della ricchezza.

È tenendo ben presente la questione teorica della forma di Stato di “democrazia economico-sociale” che i comunisti non hanno contrapposto – come invece insistevano a fare i partiti del centro-sinistra – la programmazione dell’economia alla creazione degli istituti del “welfare state”, come prova la lotta per l’istituzione di un Servizio sanitario nazionale e per la riforma del sistema pensionistico: tanto che le stesse preclusioni politico-istituzionali alla presenza dei comunisti sia nel governo nazionale sia nel Parlamento europeo non si limitavano all’obiettivo di tenere lontano il Pci dalla cosiddetta “stanza dei bottoni”, ma avevano di mira soprattutto la delegittimazione del partito, impegnato alla rivoluzione democratica, dalla funzione di unificazione su un fronte comune dei partiti coinvolti nel compito di regolare il meccanismo di sviluppo. In tale contesto, rivelavano la loro natura effettiva le questioni della formula di “centro-sinistra”, e della natura del ruolo delle assemblee elettive a partire dal territorio, per ricomprendere le Regioni da istituire oltre gli enti locali: donde i tentativi a partire dal 1964 di forze conservatrici e reazionarie di bloccare con conati di colpo di Stato l’evoluzione potenziale dei partiti verso rapporti politici e programmatici coerenti con le finalità della Costituzione programmatica, contrarie alle spinte involutive delle forze miranti alla “stabilizzazione” del sistema capitalistico.

L’insistenza del Pci per l’impostazione di nuovi rapporti tra governo e Parlamento, e quindi dei partiti del centro-sinistra con l’opposizione comunista, ha determinato proprio sul terreno della programmazione economica una nuova dislocazione di posizioni nel partito socialista, di cui falliva l’obiettivo di trascinare il Pci su una dislocazione riformista: come prova il cosiddetto “piano Giolitti”, che poneva le premesse per una crescente presenza dello Stato nella direzione e nel controllo di tutti gli investimenti sia pubblici che privati con l’obbligo delle grandi imprese di “comunicare” i loro progetti di investimento agli organi della programmazione in modo da verificarne la “conformità” agli obiettivi del programma: con un’indicazione non solo procedurale, e sostanzialmente implicita al rapporto tra qualità dei soggetti del piano e qualità dei contenuti, in coerenza con il tipo di discussione in corso a livello internazionale tra i vari partiti comunisti, con la rivendicazione del Pci di una propria autonomia nel definire la propria strategia di trasformazione della società e dello Stato.

In tal senso manteneva il suo rilievo il Memoriale di Yalta, che aveva fatto osservare a Togliatti che nell’Occidente avanzavano tendenze programmatrici, per piani generali di sviluppo economico da contrapporre alla programmazione capitalistica, come un mezzo di lotta per avanzare verso il socialismo: precisandosi cioè che, mentre quest’ultima è sempre collegata a tendenze antidemocratiche e autoritarie, la lotta per la democrazia viceversa viene ad assumere un contenuto diverso, più legato alla realtà della vita economica e sociale. Perciò Longo si è posto anzitutto in una linea di continuità, legando la lotta per la programmazione democratica alla lotta per la riforma dello Stato, per uno sviluppo economico in cui la spontaneità del mercato fosse subordinata agli interessi generali democraticamente espressi: avviando una politica delle alleanze finalizzata alla costruzione di un fronte antimonopolistico coinvolgente i socialisti e forze cattoliche progressiste. Infatti, nella prospettiva di un’economia mista, si punta a dare un diverso orientamento al mercato, non liquidandolo, ma subordinandone le scelte all’interesse generale, liquidando le posizioni di rendita e di super profitto: accennandosi da parte di Longo agli esiti di un “equo profitto”, in un quadro volto ad un allargamento qualificato del mercato, indirizzato allo sviluppo di mezzi di produzione e tecnologia, e soprattutto a nuovi tipi di consumo di natura sociale, nella libertà da ipoteche e dai vincoli internazionali, con una denuncia tempestiva del peso degli organismi “comunitari” sul primato del mercato.

In questo quadro, la riforma dello Stato preconizzata dal Pci era volta al rafforzamento degli enti locali e alla concreta istituzione delle Regioni a statuto ordinario per farle protagoniste della programmazione “democratica” dell’economia, con l’attivazione delle forze sociali e politiche necessarie alla socializzazione del potere, contro ogni rischio di burocratismo: mentre la conquista di sempre nuovi consensi elettorali da parte del Pci concorreva alla crisi di quel centro-sinistra che aveva stentato a decollare per la pretesa da parte della Dc di usarlo come imprigionamento dei socialisti nelle angustie di un anticomunismo pregiudiziale di ogni scelta.

E in tale contesto tendevano a specificarsi varie problematiche tra loro collegate, da quella relativa alla famiglia e al matrimonio civile, a quella della centralità del Parlamento, da intendere in base alla Costituzione non solo come organo di controllo, ma anzitutto come sede di iniziativa politico-legislativa, senza le tradizionali contrapposizioni con il potere esecutivo: solo così infatti il rilancio della politica di programmazione poteva aprire il confronto sul ventaglio di riforme, da quella per il Servizio sanitario nazionale a quella per la riforma pensionistica, dell’equo canone e della giusta causa nei contratti.

Nello scontro politico dell’Italia di quegli anni, dietro le insuperate crisi di socialdemocratici, socialisti, democristiani (pur segnati dalla presenza di ben tre sinistre), viene inesorabilmente sconfitta quella cultura di liberal-socialismo e socialismo liberale sopravvissuta all’estinzione precoce del partito d’azione, radicatasi in una critica al totalitarismo staliniano che oscurava pretestuosamente la portata della autonomia del Pci nella strategia di transizione al socialismo, che all’Assemblea Costituente aveva indotto La Pira e Dossetti ad assumere il modello sovietico come base esemplare della creazione dei diritti sociali. Non ci fu quindi campo alla chiamata in causa di quel Calamandrei che, dieci anni dopo la sistematica elusione dei principi costituzionali diversi da quelli “istituzionali” contenuti nella Seconda Parte della Costituzione si era lagnato che fossero rimasti lettera morta le norme fondatrici dei diritti sociali, norme che in sede di elaborazione egli aveva sostenuto di essere prive del crisma della “giuridicità”, perciò irridendole in coerenza con il substrato della sua formazione politico-culturale risalente al Partito d’azione, i cui epigoni oggi sono schierati con quei partiti che stanno soggiogando l’ordinamento costituzionale italiano ai meccanismi di potere che si richiamano impropriamente all’Europa.

La distanza del Pci dai partiti di cosiddetta “terza forza” era individuabile nella rivendicazione di un sostanziale mutamento delle basi stesse del processo di accumulazione, volta a colpire la rendita e gli sprechi della spesa pubblica, sul presupposto che l’intervento pubblico nell’economia assuma una funzione antimonopolistica, per il cui conseguimento risultava necessaria l’affermazione dei diritti sindacali e del potere contrattuale nella fabbrica, con la conquista di nuove posizioni della classe operaia nella vita economica e nella gestione delle aziende, nel quadro di una più generale battaglia per lo sviluppo della democrazia.

Quanto al “no” dei comunisti al piano Pieraccini, ossia alla programmazione del centro-sinistra, esso era il portato di una concezione della Costituzione non ferma a garantire i diritti fortemente legati ad una visione degli interessi di classe della borghesia, ma volta a garantire l’attuazione di un processo di trasformazione che tardava a porsi concretamente, sino al punto di determinare una crisi del Parlamento impedendo che tutti i partiti partecipassero all’elaborazione della politica nazionale, resuscitando una divisione dei compiti per cui la maggioranza sarebbe chiamata a governare e all’opposizione rimarrebbe il diritto di dissentire e criticare: poiché – come ben osservato da Renzo Laconi – tale contrapposizione “è nei manuali di diritto di ispirazione liberale, non nella Costituzione”. Del resto, quando una questione importante sul terreno dei diritti civili ha preso corpo nell’iniziativa legislativa, i comunisti hanno potuto mettere a frutto il loro voto favorevole all’articolo 7 della Costituzione sui rapporti tra Stato e Chiesa e sui Patti Lateranensi, e poi in particolare sulla norma relativa al matrimonio di cui non è stata recepita l’interpretazione cattolica circa l’indissolubilità propria del rito religioso, nell’attestarsi su una visione autonoma del vincolo matrimoniale di rito “civile”: ponendo perciò tale questione nel quadro di una riforma complessiva del diritto di famiglia, intesa non più come “unità economica” ma come un “centro di sentimenti” sorretto alla sua origine da una libera scelta, sì che la riforma dell’istituto familiare risulti legata al “processo di liberazione della donna”. Tutto ciò senza nulla togliere alla centralità del nesso tra la programmazione dell’economia e la pressante esigenza di elaborare proposte innovatrici nel campo della sanità, della previdenza e della casa, in un quadro caratterizzato da una lotta per l’espansione del democrazia aspramente contrastato anche da gruppi di potere eversivi, come già il Sifar nel 1964, mentre il Pci allargava il campo delle rivendicazioni per l’istituzione delle Regioni che si trascinava tra rinnovati pretesti.

Il rinnovamento successivo al 1968, frutto di un’acuta contraddizione tra autonomia del partito e autonomia dei movimenti, consentì al Pci di riqualificare il suo ruolo di unificazione delle masse con il rilancio della democrazia dal basso. Al tempo stesso, nel dibattito sulla scelta di un “nuovo modello di sviluppo”, si affermava una linea sorretta da una ferma impostazione delle riforme tracciata dalla Costituzione, indice di un criterio di organizzazione della democrazia economico-sociale da cui traeva ispirazione quella prospettiva di programmazione democratica dell’economia su cui si incardinavano i vari progetti di iniziativa anche legislativa di un Pci che, dai rapporti con i movimenti, riuscì a trarre motivazioni ulteriori di allargamento degli spazi da democratizzare e delle nuove forme di organizzazione dal basso da introdurre nei rapporti tra fabbrica e Stato.

3. Il Pci di Berlinguer, il decentramento dello Stato, la risposta della P2

Alla luce di questa evoluzione meglio si comprendono le fasi successive segnate dalla direzione politica di Enrico Berlinguer, quando attraverso lotte sempre più incalzanti si introdussero nel sistema socio-economico quelli che furono chiamati “elementi di socialismo”, atti a dar corpo alla politica di transizione caratterizzante la linea togliattiana, ripresa nei termini che si sono visti da Longo, furono posti al centro di due linee destinate a segnare di sè non solo l’ascesa del Pci ad un livello capace di renderlo partito di governo non solo tramite il ruolo di potere espresso nelle nuove maggioranze parlamentari, ma anche oltre gli inarrestabili veti a dirigere lo Stato dalla sede istituzionale sua propria.

La forza dirompente maturata negli anni 1964-1969 è infatti individuabile proprio nella lotta per l’attuazione della Costituzione e dunque per la programmazione economica che, dopo il fallimento del tentativo riduzionistico sfociato nell’antitesi Giolitti-Pieraccini incentrato sul rapporto tra lo Stato e le grandi imprese, ha lasciato aperto il campo delle ipotesi, fino a sostituire l’idea di una programmazione “globale” con quella di programmazioni “articolate” in ambiti regionali: ciò che si è potuto compiere in conseguenza della creazione, alfine resasi possibile, delle Regioni a statuto ordinario, imperniate ben oltre una visione di decentramento di poteri amministrativi, e cioè sulla istituzionalizzazione del loro concorso con poteri di iniziativa alla programmazione economica nazionale, nel raccordo con la programmazione degli enti locali. Superata così, in termini reali, l’idea che la classe operaia fosse integrabile in un sistema socio-economico-politico guidato dal centro, e cioè da un governo di centro-sinistra ormai in via di sfaldamento nonostante le convulsioni dei socialdemocratici e dei socialisti per una unificazione artificiosa e ostacolata da brighe volte più al passato che al futuro, l’impostazione politica del Pci ha potuto esplicarsi a tutto campo, sorretta dal trascinamento che con l’applicazione della Costituzione coinvolgeva i principali criteri di impegno per un uso della legge – e sul piano sindacale, della contrattazione centrale e articolata – non isolando la creazione dei “diritti” dall’alveo dei rapporti economico-sociali da trasformare.

Terreno principale degli interventi riformatori in tale ambito, fu il sistema delle Partecipazioni statali, che dopo la creazione del Ministero sottoposto a controllo parlamentare, al pari della Cassa del Mezzogiorno e della politica di ristrutturazione industriale, contenendo la riserva di potere governativo valso, oltretutto, ad alimentare fenomeni di corruzione sporadicamente venuti a galla in precedenza. Il potere di direttiva attribuito inizialmente al Ministero nei confronti dell’Iri e dell’Eni per la loro natura di enti di gestione, dovette perciò fare i conti con la nuova rivendicazione di potere da parte del Parlamento, ora nelle condizioni di acquistare progressivamente quella “centralità” prevista nel modello di forma di governo e che era stata alterata dalla politica del centrismo e del centro-sinistra. Così pertanto un’ampia articolazione che il sistema democratico era venuto acquisendone negli anni 1970-1975 per la intervenuta istituzione delle Regioni quale tramite intermedio delle regole di programmazione economica, si palesò idonea a delineare un profondo mutamento, con il coinvolgimento delle forze sia sociali che politiche sul territorio, in una prospettiva di rovesciamento del ruolo dei poteri centrali dello Stato nei confronti delle regioni e degli enti locali: con un netto superamento della tradizionale subalternità di questi ultimi, sia per la riduzione degli ambiti di potere, sia per la limitazione gerarchica del loro potere amministrativo.

Su un terreno socio-politico divenuto sempre più dinamico, gli effetti elettorali a favore del Pci che già le fasi di lotta precedente avevano sancito, proprio nel 1975 – dopo la prima consiliatura regionale – manifestarono la loro forte crescita, allarmando più che mai non solo i partiti che dovettero registrare la loro inanità nella costante ricerca di isolamento politico-parlamentare del Pci, ma anche quelle forze reazionarie che, dopo i conati attentatori della democrazia, proprio nel 1975 diedero seguito alla forte vittoria comunista delle elezioni regionali e locali con il lancio di un cosiddetto “piano di rinascita democratica”, recante un preciso progetto “controriformatore” della forma di Stato e di governo disegnato nella Costituzione, attraverso un serrato attacco ai partiti, e specialmente a quello comunista disegnato come partito “orientale”: sì che da quella data nulla è stato più uguale per la capacità di penetrazione dei contenuti del piano della loggia P2 in quei programmi dei partiti che più si palesavano contrari alla rottura della cosiddetta “conventio ad excludendum”, sconfitta dal voto popolare.

Gli eventi successivi a tale fase di passaggio ben documentata nei saggi di Masse e potere di Pietro Ingrao e, nello specifico della P2, dal convegno di Arezzo da lui presieduto, mentre il partito ometteva di denunciare i singoli punti di attacco del “piano Gelli”, appagandosi dello scioglimento della P2. Sono anni segnati dall’avvio rimasto sotterraneo di due diversi approcci allo sviluppo della lotta sociale e politica, determinati dal profilarsi di eventi “anomali”, come la formazione nel 1976 del governo Andreotti, con la fiducia delle astensioni come sbocco dell’esito delle elezioni nel segno “dei due vincitori” (Dc e Pci, col senno di poi vedono una prima manifestazione delle “larghe intese” in tutt’altro contesto ); il sequestro e il delitto Moro del 1978, anno “terribilis”, in cui sotto i più vari profili hanno preso corpo eventi convergenti nel preparare le basi di un processo in cui la Costituzione ha cominciato a subire la copertura di scelte e indirizzi vieppiù discostantisi dalla versione organica del suo fondamento, e delle sue precedenti applicazioni. Su tali premesse la “memorialistica” è stata poco per volta accantonata, l’interpretazione delle norme è divenuta privilegio dei giuristi fedeli a ciascuno dei partiti in campo, e nel passaggio dal 1978 al 1984, anno della sua morte, Berlinguer si è trovato solo a difendere la storica, sperimentata vocazione unitaria della Costituzione con l’ostinata fermezza tipica del segretario del Pci, limpido assertore della “diversità” dei comunisti nella funzione irrinunciabile di qualificare i rapporti con gli altri partiti per garantire democraticità alla società e allo Stato. Infatti, il delinearsi dopo la diffusione del “piano Gelli” di due linee di indirizzo già fiorite all’XI e XII Congresso – epperò amalgamatesi nel condurre il partito a colmare il distacco elettorale dalla Dc – per rivestire un nuovo ruolo con le contrapposte formule della “alternativa democratica” e della “alternativa di sinistra”, ha finito per accompagnare l’attuazione di scelte divaricantisi sotto le suggestioni di quelli che furono etichettati come “miglioristi”, in contrasto con la linea annoverata come “compromesso storico” a seguito dei noti saggi di Berlinguer sull’argomentata ripulsa della maggioranza del 51% come garanzia di un assetto stabile di democrazia politica e sociale. Bastano i richiami alla tendenza ad addossare al raccordo tra Cgil Uil e Cisl la rivendicazione dell’unità democratica sotto gli attacchi del terrorismo culminato nell’assassinio di Moro, accompagnato da comportamenti ambigui di esponenti di rilievo del suo partito; l’elezione del socialista Pertini a Presidente della Repubblica come premio a un partito in cui Craxi aveva cominciato a qualificare la sua autonomia sia dalla Dc e dal Pci; l’avvento al pontificato di quel Woitila che si era distinto per la sua convergenza con il sindacato Solidarnosc nella lotta contro i comunisti polacchi; il mutamento di indirizzo del fronte sindacale di Cgil Uil e Cisl sull’estrema essenzialità della questione del lavoro, giudicato come variabile “dipendente” e non più “indipendente” rispetto al capitale, con le conseguenze di politica economica e sociale che ne derivavano specialmente in quella fase caratterizzata dalla forza conseguita a fini di politica legislativa dal Pci.

Su quel terreno divenuto accidentato, proponendosi in termini diversi da quelli precedenti la scelta del Psi di Craxi di interporsi tra i due maggiori partiti inaugurando una linea di contrapposizione ideologica e politica al Pci, il documento della loggia massonica P2, benché sottaciuto, era destinato a incidere innanzitutto nel defilarsi dei tre partiti antifascisti e fondatori della Costituzione da rapporti e visioni unitarie, dando vita alla grave, clamorosa rottura tra sindacati e partito comunista sul decreto legge riguardante la scala mobile: contro la cui emanazione Berlinguer condusse una lotta serrata, fino alle ultime energie che lo hanno fatto scomparire dalla scena politica: benché il partito abbia indetto il referendum abrogativo, tradendone l’obiettivo con la contenuta attivazione delle sue organizzazioni, per cui non si andò oltre il 47% dei voti popolari. Tutto ciò in un contrasto nel quale, anche nei documenti congressuali degli anni ‘80, temi di fondo come quelli della programmazione economica e del mercato venivano presentati in forma disgiunta, considerando il coagularsi di due linee autonome con esiti contrastanti con le impostazioni dei congressi precedenti, quando il tema della programmazione era stato sviscerato in termini conseguenti.

4. Il tunnel degli anni ’80 e i primi attacchi alla Costituzione

A questo punto occorre fare una precisazione apparentemente solo terminologica, ma densa di significato politico, riguardante la caratterizzazione di tutta la fase successiva all’entrata in vigore della Costituzione come fase “attuativa” dei suoi vari principi: ciò che però, a partire dagli anni ‘80, sempre più si è verificato in termini opposti, di “inattuazione”, a misura degli interventi che sono andati realizzandosi o contro singole norme costituzionali, o contro interventi legislativi che concretamente si potevano annoverare come prime manifestazioni della conseguente “attuazione” della Costituzione. Non si potrebbero altrimenti cogliere gli aspetti decisivi delle contraddizioni emerse dopo la fine del centro-sinistra con le ambiguità che hanno visto il nascere del “pentapartito”, con la riesumazione di quel Pli venuto a spostare ulteriormente verso posizioni neo-conservatrici quelle forze che – sulla spinta del Psi di Craxi – puntavano già, sempre più decisamente, ad anticipare sul terreno degli indirizzi politici ciò che poi avrebbe assunto la forma della “revisione costituzionale”. In proposito, emblematica è la contrapposizione dell’emanazione della legge di contabilità che – nell’introdurre la cosiddetta “legge finanziaria” – era destinata ad anteporre gli anticorpi della “stabilità” finanziaria sia a strumenti di regolazione di democrazia economico-sociale, di una “programmazione economica” ormai subalterna alla “programmazione finanziaria”, sia ai principi di attuazione per via amministrativa dei diritti sociali, a cominciare dal diritto alla salute istituzionalizzato dalla creazione del Servizio sanitario nazionale, cinque mesi dopo quella legge finanziaria.

Con il pretesto della nomenclatura, che non poteva che articolare la legge finanziaria come propaggine dei principi del bilancio regolati dal diritto finanziario, e quindi rientranti nel novero dei principi di diritto amministrativo, la dottrina costituzionalistica si asteneva intanto dal prendere posizione sulla legittimità della legge finanziaria, e leader politici del Pci come Napolitano esaltavano con l’enfasi sulle priorità di di un conclamato “risanamento della finanza pubblica”. Così, sotto l’interessata spinta dei liberali, già a partire dalla sua prima applicazione, la riforma sanitaria come prima e unica riforma sociale e amministrativa subiva anno dopo anno le contromisure destinate a sollevare una crescente ostilità popolare contro le Usl, poi trasformate in Asl, in nome del principio finanziario di efficienza come tale assunto quale antitesi alla universalità e socialità dei diritti alla salute.

Ma quel che più strettamente conta a proposito della inattuazione “attiva” della Costituzione – da non confondere con quella “passiva”, raffigurabile nell’inerzia volta al consolidamento dei vecchi istituti di cui si rinviava la riforma – è la politica delle “privatizzazioni”, che ha approfondito i contrasti tra i partiti uniti alla Costituente sui principi di democratizzazione dell’economia, privatizzazioni che hanno assunto il modello della “società per azioni” per organizzare in modo efficiente apparati amministrativi come l’azienda ferroviaria, e sono state nel contempo usate come pretesto per allontanare i poteri pubblici dall’economia reale, particolarmente contro l’Iri, come quadro di un complesso di imprese tendenti ad dare rilievo a finalità sociali comprese quelle dei diritti dei lavoratori.

Pertanto, solo la rottura dell’unità costituente tre partiti di massa poteva far degenerare progressivamente una strada antiriformista, che peraltro non era agevole percorrere fin quando si fosse mantenuta la più stretta coerenza tra i principi “sostanziali” della Prima Parte e i principi “operativi” della Seconda Parte della Costituzione: donde l’avvio della Commissione Bozzi come primo strumento di un complicato tentativo di inserire nella Seconda Parte della Costituzione principi destinati prima o poi a togliere ogni originalità alla forma di governo destinata a fare i conti con il pluralismo sociale e politico, imperniato su leggi elettorali proporzionali “pure” e non manipolate, e sulla ricerca convergente da parte dei partiti delle forme di collaborazione discendenti da un pluralismo non alterato con il ben noto principio della “conventio ad excludendum”.

Anche qui, nel condurre in porto una svolta decisiva di un Pci che sino a quel momento aveva respinto ogni tentativo di operare revisioni costituzionali che non fossero solo “emendamenti” coerenti con tutto l’impianto costituzionale, esponente di spicco è stato Napolitano, con la collaborazione di Augusto Barbera reso “responsabile” al posto di Ingrao – presidente del CRS – della Commissione Affari costituzionali per conto del Pci: sì da dar luogo ad una commistione di linee propositive destinate a indurre poi i comunisti a non partecipare al voto sul progetto di relazione al Parlamento predisposto dal presidente Bozzi, non senza riaffermare che ciò non stava tuttavia a marcare un disimpegno del Pci, un suo ritrarsi “dinanzi all’esigenza di un’incisiva opera riformatrice, che invece continuiamo a perseguire e ci auguriamo possa essere intrapresa”.

5. L’Italia di Berlusconi e del Pd. Tornare a Gramsci

Di lì si sono diramate le prospettive del tutto sganciate da una visione unitaria di revisioni di parte della Costituzione valutate separatamente dai partiti, nonché da singoli loro esponenti, in condizioni di “parallelismo” tali da impedire sia nel 1985 che in occasione delle successive “commissioni bicamerali” succedutesi negli anni ‘90 sino ai nostri giorni, l’incancrenitasi impossibilità di trovare una qualunque soluzione volta al “bipolarismo”, per sua natura imperniato sulla contrapposizione da parte di partiti protesi alla ricerca in forza del bipolarismo di un ruolo dominante del sistema politico (se non esclusivo, come nel caso del “bipartitismo” britannico e nord-americano, benché l’uno nelle vesti del “premierato”, e l’altro del “presidenzialismo”).

Nel frattempo, mentre solo la maggioranza “berlusconiana” riusciva a perfezionare un modello verticista di forma di governo respinta dal referendum “confermativo”, la “disapplicazione” dei principi costituzionali procedeva partire dall’emanazione della legge del ‘90 sul mercato e la libera concorrenza, che sanciva il rovesciamento dell’interpretazione dell’art. 41 sull’antitetico principio della programmazione economica implicitamente volta a contrapporre la funzione del “lavoro” a quella del “capitale” – nello spirito ben richiamato da Paolo Ciofi nel suo libro sul Lavoro senza rappresentanza e nella sua riflessione sulla Costituzione come “via maestra” –, addirittura considerandola impropriamente come norma di rilevanza costituzionale; tutto ciò, in collegamento con le norme dei Trattati di Roma su cui si è innestato l’ordinamento comunitario, escogitato sin dagli esordi per spostare dall’ambito “nazionale” a quello “esterno” dei paesi “europei” il primato della “Costituzione economica” sulla Costituzione “politica” dei singoli Stati, con l’obiettivo da tal punto di vista di escludere dalla direzione della Comunità europea i partiti esterni al governo, cioè il Pci ed il Pcf, almeno sino al 1979.

Il quadro è venuto assestandosi in senso contrario al modello originario della Costituzione a tal punto che, proprio di recente, è stato modificato l’articolo 81 sul bilancio dello Stato con la maggioranza delle cosiddette larghe intese nate già con il governo Monti, in termini tali da precludere il ricorso al referendum confermativo. Così, dalla fase in cui il richiamo al ruolo di Togliatti e del Pci alla Costituente ha accompagnato le lotte sociali e politiche per l’attuazione dei principi della “Costituzione-programma”, alla fase in cui la Costituzione ha potuto assolvere solo ruolo di garanzia dei più irrinunciabili dei diritti civili è politici, il passaggio inopinato alla fase odierna in cui il leader comunista e il prodotto dell’azione unitaria dei partiti antifascisti paiono piuttosto un reperto storico sollecita un impegno rigoroso di natura politico-culturale per uscire dalla stagnazione in cui gli eredi del Pci si sono trovati per il concorso di quei fattori che risalgono all’abiura del 1989, alla conseguente abrogazione della legge “proporzionale pura” su cui si era eretto il pluralismo sociale e politico, sino al momento in cui il ricorso al principio “uninominale” (“mattarellum”) e poi al tanto deprecato proporzionale con premio di maggioranza (“porcellum”), hanno concorso affare del “bipolarismo” lo strumento di delegittimazione di quella governabilità per cui è stato impiantato.

Si si è così venuto ossificando un sistema istituzionale in cui anche le forze più lontane da progetti bipolaristi, come i residui comunisti ed ex comunisti, hanno finito per orientare le loro pur esigue prospettive di partenza a logiche bipolari estranee alla loro cultura, e tali perciò da logorarne anche le modalità organizzative e di azione, oltre a impostazioni programmatiche deboli perché misurate sulla inconsistenza palesata dal Pds/Pd, a sua volta incapace di cogliere nel “berlusconismo” il ruolo pericoloso di un’accanita cupidigia di potere di un capitalista sfruttatore delle istituzione per sottoporle alle sue pretese, e preferendo viceversa che si consumasse davanti alla giustizia la somma di responsabilità sperperate come “single”, più che come uomo politico. Il compito di affrontare partendo da Togliatti costituente in questa fase di pericolo corso dalla Costituzione come blocco organico di principi è quindi immane: e, mentre è pienamente valida la parola d’ordine che la Costituzione “va attuata”, è indispensabile domandarsi come e con quali forze ciò sia possibile al punto di degrado in cui è stata ridotta la fedeltà alla Carta del 1948.

Va considerato, infatti, che l’opera di delegittimazione della Costituzione più originale del mondo occidentale –altri ha preferito chiamarla “bella” o “sana”, qualifiche allettanti ma sfuggenti la qualità democratico-sociale del testo – rappresenta la vittoria non solo dei partiti che la contrastano per il ruolo che i comunisti hanno esercitato con Togliatti ai fini della sua elaborazione, ma anche di quegli eredi di Pci, Dc e Psi che oggi, nel Pd come nel Pdl, combattono battaglie di assestamento di singoli pretendenti a guidare il bipolarismo, l’un contro l’altro armati: in spregio degli obiettivi di governo, comunque affidati ai condizionamenti che ormai incontrollabilmentre vengono dal sistema “comunitario”, cioè dai vertici degli Stati-Nazione i cui sistemi di governo sono – pur se diverse tra loro – tutti contrari al modello della Costituzione italiana, che con la revisione della Seconda Parte rischia di essere riassorbita in una “omologazione” che sbarra la strada ad ogni processo di socializzazione del potere, in nome del “mercato” e della “moneta”.

L’assetto che l’ordinamento comunitario sta consolidando, non è che la somma di vertici incontrollabili, che operano per via sempre più “informale”, approfittando del fatto che si parli impropriamente di “Europa” in assenza di un “popolo europeo” che non giustificherebbe l’esistenza di “cupole” insensibili ad altro che non siano le istituzioni finanziarie mondiali e transnazionali.

L’impegno che perciò la rimeditazione della funzione costituente del Pci oggi ci impone è di risalire alle origini della prospettiva costituente, quale fu pensata e lanciata da Gramsci negli anni ’20 e ’30, quando con tale parola d’ordine era stata colta l’esigenza di attribuire ai comunisti un ruolo di portata storica, ponendosi alla testa di un arco di forze democratiche di diversa ispirazione, con l’obiettivo di aprire una fase nuova in un’Europa allora soggiogata dalla dittatura di classe e politica dei fascismi e del nazismo. Oggi, un’apertura di tale segno si impone di fronte al fatto che – pur fuori da un quadro apocalittico come quello degli anni ’30 – la comunità europea non solo si compone di Stati i cui sistemi di governo sono “bipolari” con tendenza alla omologazione al “presidenzialismo” francese (denominato “semi” presidenziale, perché in verità a duplice vertice, Capo dello Stato e Presidente del Consiglio), ma a causa delle loro miopi politiche stanno facilitando il diffondersi di frange xenofobe che non esitano a presentarsi con simboli e parole d’ordine di natura fascista e nazista.

Pur in costanza della Costituzione con timbro togliattiano, ai comunisti incombe oggi di rilanciare i presupposti ideologici di una rinnovata politica delle alleanze, che deve ripartire dal ripudio di ogni versione “bipolare” della lotta politica, rilanciando il pluralismo e lo strumento suo peculiare che è la legge elettorale proporzionale “integrale”, con un lavoro politico volto su tali basi a produrre nuove alleanze, in un confronto politico che riabiliti il ruolo delle masse nel compito di costruire una democrazia oggi ridotta a un mero “flatus vocis'”.