Marzo 1943 ore dieci

di Luigi Longo

donne sciopero 1943Prefazione a Umberto Massola, Marzo 1943 ore dieci, Editori Riuniti 1963

Gli scioperi del marzo 1943 nel ricordo del grande dirigente comunista

Umberto Massola rievoca in questo volumetto, molto opportunamente, gli scioperi del 1943 che rappresentarono, come risulta da tutte la narrazione, la prima grande manifestazione di massa contro la guerra e contro il fascismo. Massola conduce la narrazione dal posto di osservazione della classe operaia e del partito comunista. La sua documentazione è quella che allora circolava nelle fabbriche, negli uffici, nelle case operaie; è quella che arrivava ai militanti e alle organizzazioni illegali del nostro partito, legati in mille modi cospirativi alla popolazione lavoratrice; è quella che apparve allora, a pezzi e a bocconi, sui giornali e sui manifestini illegali: documentazione che l’autore di questa rievocazione conosce molto bene perché egli era allora, per incarico della direzione del partito, al centro di tutta l’attività comunista in Italia.


La narrazione di Massola ha perciò non soltanto il valore di uno studio accurato dell’attività antifascista di quel periodo, ma anche di una testimonianza diretta di chi vi ha partecipato personalmente e da un posto di alta responsabilità. Per questo il volume che presentiamo all’attenzione dei lettori non è una semplice successione di dati e di episodi sulle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia negli ultimi mesi della dominazione fascista, ma anche una rivelazione dell’attività del partito comunista in quell’epoca, della parte fondamentale che esso ebbe nell’orientare e guidare il malcontento operaio contro la guerra e contro il fascismo e nel fare del proletariato, e dei lavoratori in generale, il reparto d’avanguardia e di direzione del movimento di liberazione che doveva portare al 25 luglio, prima, e alla resistenza armata, poi.

I fatti sono presentati solo come si vedevano allora dal posto di osservazione e di direzione occupato dall’autore del libro: di qui l’immediatezza del ricordo e della narrazione e il pregio principale dell’opera. Ma il lettore si chiederà certamente, leggendo le pagine che seguono: che ampiezza e vastità ebber, nell’insieme del paese, queste manifestazioni di ostilità e di lotta antifascista? Come esse furono giudicate e affrontate dai responsabili fascisti?

A queste legittime domande noi possiamo rispondere con una informazione di prima mano, spulciando nei documenti, relativi agli stessi archivi riservati della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria. Dallo spoglio di essi, largamente incompleti per altro, risultano pienamente e largamente confermati, anche dalla parte avversa, i fatti ricordati da Massola, e risultano maggiori ancora la vastità e la portata del movimento operaio antifascista dei primi mesi del 1943 e la parte che esso ebbe nella caduta del fascismo e nel sorgere del movimento popolare di liberazione nazionale.

Da questi documenti fascisti, che sono largamente incompleti, lo ripetiamo, risulta che in soli sette mesi, dal primo gennaio al 25 luglio 1943, si ebbero in Italia ben 217 agitazioni, di cui 189 trasformatesi in scioperi.

Il numero totale dei partecipanti alle agitazioni fu di 154.691 operai, di cui 137.483 parteciparono a scioperi. Il numero delle ore di lavoro non fatte, a causa delle agitazioni e degli scioperi, fu di 253.488. Si tenga conto che tutto questo è avventuo durante la guerrà e sotto la dominazione fascista, quando protestare e scioperare significava rischiare gravemente, non solo la libertà, ma anche la vita.

Il mese di marzo 1943 fu quello che vide il maggior numero di operai in agitazione: i documenti dànno la cifra di 133.653. Il movimento operaio di protesta ebbe un’estensione nazionale, toccò tutte le regioni principali, dall’Italia settentrionale alle isole. In Piemonte si ebbero 107 scioperi con 94.543 partecipanti e con 155.794 ore di lavoro non fatte. In Lombardia gli scioperi furono 52 con 35.715 partecipanti e 73.970 ore di lavoro non fatte. Le varie categorie nei primi sette mesi dell’anno 1943 hanno partecipato: con oltre 100.000 operai i metallurgici, con 27.000 i tessili e con 10.000 circa le altre: chimici, alimentaristi, lavoranti in legno, ecc.

I principali centri del movimento furono, in Piemonte, le città e le province di Torino e Vercelli, nella Lombardia, Milano. A Torino scioperarono soprattutto le grandi aziende: Fiat, Lancia, Michelin. Così pure a Milano: Pirelli, Alfa Romeo, Innocenti, Borletti, ecc.

Ad Alessandria scioperò la Borsalino, a Vercelli la Reggio Emilia Le Reggiane, ecc. ecc. Ma anche le medie e piccole aziende non sono rimaste assenti né nei grandi centri (a Torino la Sima, la Schiapparelli, la Soley, la Fentreri, la Sait, la Paracchi; a Milano la Borsi, la Borelli, la Cine-Meccanica, La Bertelli, l’Olea, ecc.), né in decine di altre località minori, come Ragusa, Pistoia, ecc.

In parecchi stabilimenti le manifestazioni e gli scioperi si sono ripetuti parecchie volte; alla Fiat, nel solo mese di marzo, dal 5 al 12, si sono avuti, nei diversi reparti, ben 5 scioperi: 3 scioperi si sono avuti alla Pirelli di Milano dal 24 al 27 dello stesso mese.

Risulta dalla documentazione fascista che non sempre gli operai ricorrevano allo sciopero vero e proprio per manifestazione la loro avversione al fascismo e alla guerra e per rivendicare i loro diritti conculcati. I gerarchi fascisti adoperano, a questo proposito, espressioni varie, che tendono quasi sempre a minimizzare l’importanza degli avvenimenti, sia per ridurre la propria responsabilità, sia per compiacere ai gerarchi superiori. Ciò nonostante le espressioni che si incontrano sono abbastanza eloquenti.

Per il cantiere navale di Palermo si dice che 2.000 operai «si sono fermati di fronte ai cancelli rifiutandosi di riprendere il lavoro»; per la Cemsa di Saronno di dice che «un centinaio di operai hanno sospeso per cinque giorni il lavoro in segno di protesta». Sospensioni e interruzioni di lavoro sono denunciate anche alle Ferriere Fiat, alla Rasetti di Torino, ecc.

Ai primi di marzo il presidente della Confederazione fascista lavoratori industriali, Giuseppe Landi, invia all’eccellenza Cianetti (ministero delle corporazioni) rapporti su rapporti. In data 8 marzo scrive, a proposito della situazione tra le maestranze di Torino; «…questa mattina alle ore 10 si sono verificate effettivamente numerose interruzioni di lavoro che hanno avuto la durata di un’ora e un’ora e mezza e che si sono estese a circa 30-35 mila operai». In data 9 marzo lo stesso continua: «…questa mattina alle ore 10 si sono peraltro verificate nuove astensioni in 7-8 stabilimenti, fra i quali alcuni che non avevano manifestato ieri».

In data 11 marzo egli trascrive addirittura il fonogramma pervenuto dall’Unione di Torino: «La situazione verso mezzogiorno è sensibilmente peggiorata: astensioni dal lavoro si sono pure registrate nei reparti chimici, tessili e legno. L’episodio più grave è avvenuto alla Riv, dove tutti i 2.000 operai hanno sospeso il lavoro dalle 12 alle 14,30…, alla Lingotto fermata di un’ora; a Mirafiori è stata ritardata la ripresa dopo la refezione; alla Lancia tre reparti hanno sospeso per pochi minuti; alla Michelin 250 operai per un’ora; alla Setti 400 operai per un’ora; alla Schiapparelli (Torino) 170 per poco tempo; alla Fentrieri-Legno 200 per 40 minuti». Come si vede, tutte le principali fabbriche di Torino erano in agitazione nel marzo 1943, sospendevano il lavoro, scioperavano. I documenti fascisti perciò confermano abbondantemente la narrazione del compagno Massola.

Ma in aprile si muovono i tessili del Biellese. Spulciamo sempre dal documenti dei sindacati fascisti. «Venerdì 2 aprile, presso la ditta Fratelli Fila, lanificio ausiliare di categoria A di Coggiola, nel reparto tessitura (operai 375) alle ore 10,16 gli operai smisero di lavorare… l’estensione durava ancora alle 14… Intanto alle 14,15 anche il reparto filatura e apparecchiatura (operai 400 circa) cessò di lavorare. Presso la ditta Bozzolla e Lesna, lanificio ausiliare di categoria A, in frazione Masseranga di Coggiola, alle 14, circa 400 operai della tessitura e filatura, entrati nei reparti, non si posero al lavoro… Alle ore 15 anche la maestranza della ditta B. Ventre e Bardella di Coggiola (operai 200 circa) fermò il lavoro, riprendendolo e di nuovo sospendendolo a brevi intervalli… Sabato 3 aprile 1943, presso la Fratelli Fila già riportata, gli operai di 2 stabilimenti entrati al mattino nei reparti non iniziarono il lavoro. Nello stabilimento Bozzolla e Lesna si verificava lo stesso caso. Nel lanificio Giovanni Tonella di Pray Biellese avvenivano riprese e fermate alternative… Anche nella ditta Trabaldo Pietro Togna di Pray alle ore 11,15 gli operai smisero il lavoro». In data 6 aprile lo stesso autore dei rapporti precedenti scriveva: «…Debbo dire che il movimento assume un crescendo pericoloso, come appare da quanto è avvenuto oggi stesso a Tollegno a pochi chilometri da Biella». L’8 aprile l’agitazione nel Biellese non si era ancora calmata. Infatti nei soliti rapporti dei sindacati fascisti si legge ancora: «Nella giornata 8 aprile, alle ore 10,30, circa 280 operai della tessitura Rivetti si rifiutarono di continuare il lavoro».

Estratti analoghi si potrebbero fare per quanto riguarda agitazioni, fermate, scioperi, accaduti nelle altre località. Dai rapporti dei sindacati fascisti risulta che spesso le donne sono le prime a dare l’esempio della protesta e della fermata di lavoro. Le manifestazioni nelle fabbriche tessil del Biellese sono state in buona parte opera delle lavoratrici. «Dall’Unione di Roma (dei sindacati fascisti) viene segnalato che il 15 corr. (aprile) a Grottaferrata venti donne, tra le 45 unità promiscue della ditta fratelli Santovetti (imballaggio) si astennero dal lavoro». Altrove si legge ancora che, presso la società cinematografica Pisorno e Tirrenia: «Il 17 marzo un centinaio di comparse, per lo più donne, essendo stato sostenso il lavoro… alzarono grida di protesta e accolsero ostilmente i carabinieri subito accorsi». «Al’’Unione di Pistoia (dei sindacati fascisti) perviene notizia che, il 17 corrente, 21 operaie, nella totalità minorenni, del sugherificio Cioli Torello di Montecatini Terme hanno abbandonato il lavoro essendosi la ditta rifiutata di aumentare la paga, e sono state arrestate.»

Quali erano i motivi immediati, oltre quelli generali dell’avversione al fascismo e alla guerra, che spingevano lavoratori e lavoratrici a manifestare e a protestare così vivacemente contro i padroni e le autorità? Anche a questa domanda i rapporti e le comunicazioni trovati negli archivi fascisti permettono di dare una risposta esauriente. «Si notano sintomi di stanchezza e di insofferenza specie per il blocco dei salari e la distribuzione dei generi alimentari», si legge in un rapporto. A Palermo, i portuali manifestano per l’«insufficienza delle tariffe e le deficienze alimentari, il lavoro notturno, il mancato pagamento del premio ventennale e inconvenienti diversi». A Torino si protesta perché «da qualche mese non veniva concesso il supplemento della razione del pane»; perché «si era sparsa la voce che la ditta (le Ferriere Fiat) non avrebbe proceduto alla liquidazione dei cottimi»; perché gli operai chiedono alle direzioni «aumenti di paga», «miglioramenti del trattamento salariale», «la scarcerazione di 4 operai arrestati». Altrove, si protesta per «l’ingiustificata sospensione inflitta dall’azienda a due operai», «contro il rincarato costo della vita», «contro la soppressione del premio di operosità», ecc. ecc.

Per ogni episodio di lotta operaia gli autori dei rapporti fascisti comunicano di essere subito accorsi sul posto a far opera di persuasione e di distensione. Ma non pare che quest’opera sia stata sempre accolta come speravano i dirigenti fascisti. In alcuni rapporti vi è persino una specie di riconoscimento delle buone ragioni che hanno gli operai a protestare. «Una ragione prevalente, si legge in uno di essi, dell’astiosità e della insofferenza che si è manifestata nel ceto operaio, è costituita dalle deficienze e storture verificatesi nel settore alimentare e in quello dei prezzi, i quali sono divenuti iperbolici.» In altri non manca la nota demagogica contro i padroni. «Il segretario federale di Vercelli – scrive il presidente della Confederazione fascista lavoratori industriali al ministro delle corporazioni – alle ore 12 parlò con fermezza agli industriali di Biella richiamandoli ad una maggiore comprensione del momento in cui viviamo, sottolineando che il malessere manifestato in questi giorni dagli operai ha una spiegazione – oltreché nell’innegabile e dimostratissima propaganda sovversiva – anche nell’assenteismo dei datori di lavoro e nel loro sfacciato tenore di vita».

La cosiddetta «propaganda sovversiva» è, agli occhi dei gerarchi fascisti, la causa prima ed essenziale di ogni manifestazione operaia. «L’organizzazione comunista appare perfetta, perché nulla era assolutamente trapelato», scrive il responsabile dell’Unione provinciale di Cuneo al presidente della Confederazione fascista dei lavoratori industriali. L’Unione provinciale di Vercelli precisa: «Abbiamo ragione di pensare che tale stato d’animo (nervosismo tra le maestranze di qualche settore) sia in relazione soprattutto con la propaganda comunista, la quale, se fino a qualche tempo fa non aveva raccolto segni di adesione, oggi, per una tale depressione o stanchezza degli animi, fa maggior presa sulla massa… Fra le maestranze degli stabilimenti citati vi sono degli strumenti inconsapevoli e consapevoli di una preordinata e sotterranea organizzazione, la cui finalità è quella di incrinare la compattezza del popolo, approfittando abilmente di varie situazioni». La stessa Unione aggiungerò, poi: «Oggi ancora si sono trovati manifestini sovversivi ciclostilati in più località: notevole e sintomantico quello a stampa, trovato affisso in una via di Biella e che qui vi accludiamo in copia. Tutto quindi lascia supporre che i moti odierni non siano che i prodromi di più vasti esperimenti da svolgersi sulle piazze». Ma il gerarca fascista non è tranquillo, certo, a causa degli operai, ma nemmeno si fida dei suoi colleghi di partito. Infatti egli termina constatando che «il verbo comunista e la solidarietà del popolo si espande come una epidemia» e ripete quello che ha già detto al segretario federale: «Sarà opportuno guardarsi bene in faccia tra fascisti».

Che cosa diceva il manifestino trovato affisso per le vie di Biella e che, a quanto sembra, impressionò tanto il gerarca fascista? Constatava semplicemente fatti che erano a conoscenza di tutti. Ma erano fatti eloquentissimi e impressionanti per chi aveva la coscienza inquieta. Diceva il manifestino: «Le armate di Stalin marciano vittoriose verso l’occidente. L’Armir è annientato, l’impero crollato; i tedesche spadroneggiano a 60 lire al giorno in Italia… Il popolo vuole la pace e più pane». Quello che del manifestino deve aver spaventato il gerarca sarà stato certamente l’appello ai «fascisti onesti»: «Fascisti dingannati – invitata l’appello – alla lotta, all’azione, in piazza col popolo e non contro il popolo. Sarà questo il solo modo con il quale dimostrerete di non essere più fascisti».

Le manifestazioni operaie, le dimostrazioni e gli scioperi che nascevano dallo stato generale di disagio causato dalla guerra e dalla insofferenza dei regime fascista, assumevano subito carattere apertamente politico e di lotta contro il fascismo e la guerra. Infatti, in molti rapporti si legge, oltre che di manifestini e di giornali illegali distribuiti, di scritte trovate sui muri, sui vagoni ferroviari e ovunque fosse possibile manifestare la soffocata volontà popolare. «Abbasso il Duce», «Viva la Russia», «Abbasso Mussolini e le camicie nere che ci fanno morire di fame», suonano le frasi che si incontrano più spesso riportate nei rapporti ricordati.

Nei quali rapporti non appare mai, nemmeno velatamente, un tentativo di dare una spiegazione politica e sociale, e non solo poliziesca, al successo dell’attività comunista tra gli operai e tra i lavoratori in generale. L’«attività sovversiva», il «sobillatore» comunista, per gli estensori di questi rapporti, sono causa e spiegazione di tutto.

Il riconoscimento, da parte dei nostri avversari, dell’importanza e dell’efficacia del lavoro svolto, nelle più dure condizioni, dai comunisti farà giustamente piacere a quanti, in quei giorni, parteciparono direttamente o indirettamente al lavoro; farà piacere, certamente, a Massola che di questo lavoro ha voluto ricordare, nella sua narrazione, i tratti essenziali e i responsabili maggiori.

Ma noi non possiamo non ricordare, a quanti oggi ragionano a proposito delle agitazioni operaie e dell’attività dei comunisti allo stesso modo dei gerarchi fascisti, che se il lavoro dei militanti comunisti ha dato ieri, come dà oggi, così larga messe di simpatie, di adesioni e di successi, è perché esso risponde sempre agli interessi e alle aspirazioni delle masse lavoratrici e degli italiani onesti, è perché esso non è lavoro di isolati «sovversivi» o di «sobillatori», ma azione illuminata di guide e di dirigenti di migliaia e di milioni di lavoratori.