Cosa resta dopo novantadue anni delle Giornate Rosse di Viareggio del 2 maggio 1920? Brevi riflessioni e una proposta concreta

di Andrea Genovali

viareggioIl 2 maggio del 1920 al termine della partita di calcio fra Viareggio e Lucchese, dopo una rissa che costrinse l’arbitro e la Lucchese a scappare per i campi in cerca di salvezza, venne barbaramente assassinato con un colpo di rivoltella sparato da un carabiniere a bruciapelo e senza nessun motivo, visto che la rissa era da tempo finita, un guardialinee della partita, di spettanza al Viareggio, che si chiamava Antonio Morganti, che con due amici parlottava a qualche centinaio di metri dal campo di Villa Rigutti. Morganti, ex ufficiale dell’esercito che risiedeva con la madre a Viareggio da alcuni anni, ebbe un diverbio con questo carabiniere che arrogantemente intimava a lui e ai suoi due tre amici di disperdersi. E quando il Morganti ribatté che non vi era motivo per alzare la voce e brandire la rivoltella il carabiniere esplose il colpo mortale che lo uccise sul colpo. Quell’assassinio, che poi rimase impunito, fece scoccare la scintilla della rivolta nel popolo viareggino. Una rivoluzione non organizzata che ebbe alimento nel sentimento di rivolta contro le ingiustizie che i viareggini covavano da ormai molti anni.

Eravamo nel 1920, due anni dopo la fine della Prima guerra mondiale che con il suo carico di morte, di mutilati, di promesse non mantenute, di povertà e mancanza di lavoro era un peso insopportabile per la società italiana. Una guerra nella quale si immolarono inutilmente generazioni di giovani, soprattutto operai e contadini mentre le classi agiate e parassite oltre a non andare in guerra fecero affari d’oro, i famosi “pescecani”. Erano anni di lotta contro il caro vita, di scioperi per ottenere una vita leggermente migliore rispetto a quella che milioni di persone vivevano. Erano anni di temperie politiche e sociali nelle quali anche Viareggio era coinvolta, malgrado una certa storiografia ha sempre preferito evidenziare gli aspetti frivoli di quella che sarà fascisticamente di lì a poco definita “La perla del Tirreno”. Nelle darsene viareggine gli scioperi non si contavano, nell’interno i renaioli, le bustaie e moltissimi altri lavoratori erano costretti a incrociare le braccia per cercare di avere un minimo di giustizia e salari migliori. Erano anni durissimi e disperati. Ma ricchi anche di speranza e fiducia. La rivolta viareggina affondava le proprie radici in quei fatti socio-politici, e anche nella rivoluzione sovietica che si era affermata da pochi anni e che concorreva a rendere frenetica l’attività dei lavoratori per ottenere salari migliori e non solo.

L’assassinio di Morganti non rappresentò che l’ennesimo e ultimo tragico episodio di sopraffazione che fece esplodere la rabbia e sollevare il vaso di Pandora nel quale Viareggio era rinchiusa. I cittadini di Viareggio ricordavano la carica a cavallo dei militari di pochi mesi prima mentre la Camera del Lavoro provvedeva alla distribuzione di generi alimentari a prezzi calmierati e popolari dopo un durissimo confronto con i commercianti della città. I viareggini si ricordavano dell’eccidio di Decima Persiceto, avvenuto pochi mesi prima, dove i carabinieri ammazzarono oltre dieci persone sparando sulla folla che assisteva a un comizio sindacale. E si ricordavano di decine di altri soprusi che avevano dovuto ingoiare in silenzio nel corso degli anni. E, con una lettura postuma, quella rivolta di Viareggio rappresentò anche l’ultimo grande scatto d’orgoglio, prima dell’epopea resistenziale di vent’anni dopo, di una popolazione per cercare di prendere nelle proprie mani il destino. Due anni dopo, infatti, prendeva corpo il male assoluto della dittatura fascista con la sua volgarità, la sua violenza, la sua perversa negazione di ogni libertà e di ogni concetto di giustizia sociale.

Ma, tornando ai fatti del 1920, possiamo tranquillamente affermare che la rivolta viareggina non nacque dal niente e non nacque neppure dalla rivalità del derby con la Lucchese. Quello fu solo il casus belli. Essa ha motivazioni e ragioni ben più profonde e nobili. Fu una rivolta senza dubbio spontanea ma che grazie all’azione della Camera del Lavoro assunse una valenza politica che le permise di non terminare come da secoli finivano le rivolte improvvise dei contadini: affogate nel loro stesso sangue. La rivolta di Viareggio, o meglio la rivoluzione da cui nacque la Libera Repubblica Viareggina, non terminò affogata nel sangue proprio grazie alla Camera del Lavoro, che era una piccola struttura nata solo pochi anni prima, e al deputato, allora socialista e l’anno dopo comunista, Renato Salvatori che riuscì a contrattare efficacemente con il governo regio la fine della rivolta e la non persecuzione dei suoi leader. Oltre a non far cancellare la città da parte dalle cannoniere della marina che stazionavano al largo e dall’esercito che la cingeva da ogni angolo di entrata. In quella situazione solamente una grande capacità politica e un palese e forte consenso nella popolazione insorta poteva permettere ai sindacalisti e al Salvatori di guidare una rivolta che non poteva avere altri finali che la repressione. E lo fanno non tradendo quel popolo insorto, anzi, tentando fino all’impossibile di non far cadere quelle proteste e quella repubblica, almeno fino a quando capiscono che sono al punto di non ritorno e l’andare oltre sarebbe stato un salto nel buio tragico. E quei marinai, quei contadini, quella povera gente non poteva essere mandata allo sbaraglio senza neppure una speranza di vittoria. Per questo il Salvatori e i sindacalisti spiegheranno, in piazza, davanti alla loro gente, dopo il gigantesco funerale del povero Morganti al quale partecipò tutta la Viareggio che lavorava e soffriva, la decisione di sospendere lo sciopero generale. Decisione non facile, sofferta e da alcuni anche contestata ma alla fine accettata da tutti perché consapevoli della realtà e della forza dei fatti. In questo senso, penso che la descrizione che Mario Tobino fa di quelle giornate sia in parte ingiusta e sicuramente ingenerosa con chi, dopo il suo scoppiò, la organizzò ed evitò lo spargersi di altro sangue innocente. Tobino, infatti, descrive, sostanzialmente, lo scoppio della rivolta e i tre giorni della sua durata attraverso il ricorso al vino che in varie parti del suo racconto afferma “scorrere a fiumi”. Pensare che un mucchio di ubriachi avesse potuto tener testa alla marina e all’esercito regio, tenendo rinchiusa la guarnigione di carabinieri di stanza a Viareggio e fraternizzando poi con i giovani militari di leva mandati dal governo a domare la rivolta, risulta davvero impensabile e, permettetemi, anche un po’ offensivo. Senza contare poi il ruolo strategico che ebbero le donne che non erano certamente avvezze al vino e non andavano per osterie. 

La rivolta di Viareggio, pienamente inserita nel Biennio Rosso del 1919 e 1920, divenne un fatto nazionale e non solo. Come recentemente ha evidenziato Riccardo Mazzoni, con la sua solita acutezza e precisione, persino il New York Times, oltre alla stampa nazionale, il 4 maggio 1920 pubblicò la notizia dei fatti viareggini. E lo stesso Mazzoni ripropone la notizia, per molti sconosciuta, che a Livorno a seguito di una manifestazioni di solidarietà con la popolazione viareggina i carabinieri fecero un morto fra i manifestanti. Quella rivolta, dunque, non fu uno dei tanti fatti che sono accaduto alla nostra città. Essa segnò uno spartiacque. Pensiamo ad una città di 20 mila abitanti che insorge, si organizza, alza barricate, occupa i luoghi del potere cittadino. Gestisce la vita sociale, così come fecero gli occupanti della Fiat a Torino, perché comprende che la vita in città non può fermarsi e le persone patire la fame e per questo organizzano la distribuzione dei viveri, la confisca dei magazzini dialogando con i commercianti, spiegandone le ragioni. Roma si mosse allarmata di questo episodio. No, non fu uno dei tanti episodi viareggini, non fu un fatto normale fu un avvenimento enorme che fa ancora tremare le vene ai polsi a pensarci bene a novantadue anni di distanza. E’ la presa di coscienza di un popolo che vuole decidere del proprio destino, alla fine non ci riuscirà ma il messaggio che proviene da Viareggio in quel lontano mese di maggio è forte e chiaro. Specie per le classi dirigenti e agiate. Forse è anche per questo che quei fatti sono relegati in un angolo oscuro della memoria collettiva cittadina. Forse quell’antica rivolta desta ancora inquietudine e per questo nel corso dei decenni, specie gli ultimi, spesso la si è banalizzata, esorcizzata, resa innocua con il fiume di vino che scorse nelle vie viareggine. Ma difficilmente la si è indagata realmente per quello che fu, per quello che tentò di fare e di dimostrare. Ma nonostante quasi un secolo di distanza la sua eco non è definitivamente morta come forse alcuni vorrebbero. Quei nostri antichi concittadini con le loro gesta continuano a parlare di sé e di noi e questa è la grandezza di quella rivoluzione mancata.

Ma cosa resta oggi di quei fatti? Si potrebbe dire poco o niente a parte alcuni studiosi che hanno cercato nel corso degli anni di alimentare, per quello che hanno potuto, la luce su quei fatti. Le istituzioni, purtroppo di qualsiasi colore politico, non hanno negli ultimi decenni fatto cose rilevanti per mantenere viva la storia e un’analisi, non necessariamente agiografica, di quei fatti. Semplicemente li hanno ignorati. Molti giovani forse neppure conoscono quella storia; i più anziani, figli o nipoti di quei nostri lontani concittadini, non ne parlano più. Ma perché le scuole cittadine – avanzo una proposta concreta – non dedicano seminari di approfondimento e di conoscenza a questi fatti? Perché non si stimolano in modo continuativo gli studenti a ragionare e riflettere sui grandi avvenimenti della nostra storia? Sarebbe bello che se si facessero queo lavori poi tutta la città fosse chiamata a discuterne insieme agli studenti. E’ necessario tornare ad alimentare il dibattito sulla storia cittadina, ma non per fini meramente accademici ma per comprendere il nostro passato e con esso costruire il nostro futuro. Non servono folklorismi inutili e nefasti sensi di orgoglio cittadino sulla falsa riga di quello fasullo padano: occorre che i giovani prendano in mano la propria storia per capire da dove vengono e come quei lontani loro concittadini abbiamo plasmato molto più di quello che crediamo la storia della città. Tutto questo fa parte del nostro presente e del nostro futuro. Non credo che ci vorrebbe molto, al di là della buona volontà. Ma forse Viareggio oggi è distratta, forse affaccendata in altre cose oppure non crede più nella conoscenza della propria storia come strumento per andare avanti e migliorarsi, schiacciata dalla mediocrità che la soffoca ad ogni livello. Certamente, in ogni caso, di quelle lotte di quei nostri lontani concittadini rimane ferma l’idea di giustizia sociale e di libertà che dovrebbe animare anche le nostre odierne azioni. E’ evidente che non si possono fare parallelismi, o equazioni di alcun tipo, ma non possiamo non evidenziare che quei viareggini si ribellarono al malgoverno del re, alle prepotenze e alle ingiustizie del tempo avendo molti meno strumenti e molta meno conoscenza e consapevolezza di quella che possediamo noi oggi. Ma a differenza di noi avevano passione, ideali e voglia di costruire un mondo diverso e migliore. Ritrovare quello spirito sarebbe sicuramente funzionale a riprenderci in mano il destino della nostra città e forse anche quello del paese.