Lenin: un pilastro imprescindibile del comunismo del ‘900 e per le prospettive future

di Andrea Catone

LeninIl testo della relazione presentata, come direttore della rivista comunista l’ernesto, al convegno organizzato dal Partito Comunista Portoghese nel marzo 2011 a Lisbona

Centoquarantuno anni fa, il 22 aprile 1970, nasceva Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, il fondatore del movimento comunista mondiale del XX secolo, il più importante ispiratore e attore della Rivoluzione d’Ottobre, che aprì – indipendentemente dai suoi successivi sviluppi e dalla fine dell’URSS nel 1991 – un’epoca nuova nella storia dell’umanità segnando profondamente tutta la vicenda del ‘900. Oggi si tende a rimuovere figura del più importante rivoluzionario del ‘900, la si attacca o, ancor peggio, si cala su di lui la cappa del silenzio. Si possono fare molti esempi di questi attacchi da parte – ma è normale! – della stampa borghese, ma anche – e qui fa problema – da parte di partiti che si richiamano al comunismo, come la italiana Rifondazione comunista.

Vale la pena interrogarsi sulle ragioni di questo perdurante attacco alla figura e all’opera di Lenin, e alla rivoluzione d’Ottobre ancora a 22 anni dal 1989, che segna simbolicamente la data della sconfitta, in molti paesi, del primo grande “assalto al cielo”.

La prima fase di questo attacco ha puntato a far diventare senso comune – verità consolidata, di per sé evidente, indiscutibile – la visione dell’intera storia del comunismo novecentesco come una sequela essenzialmente di orrori e di disastri politici, sociali, economici, umani: disastro l’URSS, disastri le democrazie popolari dell’Europa centro-orientale. Un cumulo di maleodoranti macerie di cui non c’è nulla da salvare, di cui liberarsi quanto prima, e definitivamente. Questa visione della storia del comunismo novecentesco, una volta divenuta senso comune, esime da qualsiasi analisi differenziata, dai tentativi di studio e comprensione, bollati oramai con l’epiteto, divenuto infamante, di “giustificazionismo storico”. Questa operazione ha fatto breccia anche nella sinistra, come attestano numerosi interventi apparsi su Liberazione e il manifesto

Ma questa azione fondamentale di demolizione e delegittimazione del comunismo storico non era ancora sufficiente: ciò che andava demolito non era solo una storia, con le sue possibili varianti, alternative, percorsi contraddittori e non unilineari, ma la teoria, i principi che avevano guidato gli uomini nel loro agire: è il peccato originale che va estirpato alla radice. 

Dunque, Lenin, la figura che assomma in sé la teoria e la pratica della rivoluzione proletaria, concepita e agita come rivoluzione politica, sociale, culturale. Demolire la figura e l’opera di Lenin significa demolire in un sol colpo Marx, la tradizione rivoluzionaria che da Robespierre e Gracco Babeuf, passando per la Comune di Parigi, giunge alle rivoluzioni del Novecento, dall’Ottobre russo alla rivoluzione cinese e a quella cubana; fino alle lotte anticoloniali e antimperialiste che, grazie agli spazi aperti dalla rivoluzione d’Ottobre, si saldavano con la prospettiva socialista. 

La demolizione di un’identità comunista moderna non può essere completa senza la demolizione di Lenin, perché Lenin ha saputo analizzare i caratteri fondamentali dell’epoca in cui viviamo, l’epoca dell’imperialismo, e agire politicamente sulla base di quell’analisi.

Unità di teoria e azione politicaNella figura di Lenin si concentrano i caratteri essenziali del rivoluzionario. Fondamentale è l’unità di teoria e azione politica. Nel campo teorico, la difesa intransigente del marxismo è unita all’antidogmatismo, alla straordinaria innovazione, che sa cogliere i tratti essenziali di una nuova epoca. 

Ma l’innovazione non si fonda su una rimozione della teoria, sul suo svilimento, ma sulla sua comprensione e sul suo sviluppo. Lenin è fin troppo consapevole che la lotta teorica e culturale è parte integrante e ineludibile della lotta più generale della trasformazione rivoluzionaria. E dedica ogni sforzo per l’affermazione dell’autonomia teorica del soggetto rivoluzionario (questione, che, aperta in Italia da Antonio Labriola, fu al centro della stesura dei Quaderni del carcere di Gramsci). Lo stesso Che fare?, prima ancora che una teoria del partito rivoluzionario, che altro è se non l’affermazione della necessità dell’autonomia teorica e organizzativa del proletariato? 

Da diverso tempo la storia del marxismo non è oggetto di riflessione e dibattito teorico-politico, le grandi questioni teoriche che appassionarono i protagonisti del movimento operaio nella fase della sua costituzione e ascesa negli ultimi decenni dell’800 e i primi del ‘900, o nella fase dell’affermazione del primo stato operaio, e che conobbero in Occidente una ripresa

legata alle lotte degli anni 1960-70, appaiono oggi abbandonate in soffitta, sommerse dal gossip, dalla piccola polemica tatticistica del giorno per giorno, che si svolge in linguaggio “politichese”, soffocata dall’assordante silenzio sulla prospettiva strategica. La teoria marxista viene considerata come un optional, qualcosa cui dedicarsi, se va bene, nel tempo libero dall’“attività pratica”, dalla politica politicienne, durante le pause che essa concede, insomma come momento di otium. Lo studio di essa non è mai concepito come momento costitutivo e fondativo dell’agire politico, che in tal modo diventa cieco e monco, deprivato della sua più profonda ragion d’essere, con un “comunismo” che, nel migliore dei casi, è tutt’al più declamato e proclamato, ma non assimilato ed elaborato, col rischio di divenire solo un guscio vuoto, una bandiera che si agita al vento di qualche manifestazione, un’icona o un santo al capezzale. 

Il disprezzo per la teoria in nome di una “pratica” invischiata nella ragnatela dei fatti quotidiani non è nuovo nella storia del movimento operaio, incontrava anche il senso comune delle masse, che è, come Gramsci ci dice nei Quaderni del carcere, subalterno all’ideologia della classe dominante. Ma proprio la storia, ormai non breve, del movimento operaio, ci insegna che la lotta in campo teorico e filosofico ha accompagnato la lotta politica – meglio: è stata intrecciata e intimamente connessa con essa.

Chi ha avuto piena consapevolezza della posta in gioco intorno alle questioni teoriche, è stato Lenin, che, persino nei momenti più tumultuosi e intensi della rivoluzione russa, trovava il tempo e il modo – e qui “trovare” non ha nulla di casuale – di dedicarsi alla teoria, alla critica, in difesa del materialismo, verso correnti filosofiche come l’empiriocriticismo, che avevano fatto breccia tra importanti esponenti del movimento rivoluzionario russo (Materialismo ed empiriocriticismo, 1908), e approfondiva il rapporto tra Hegel e Marx. 

È il problema del rapporto fra lotta in campo teorico e lotta in campo politico nella storia della II Internazionale, il nesso dialettico, in particolare con i casi di Bernstein e Kautsky, tra approccio teorico e proposta di linea politica, sì che risulta chiaramente come una determinata concezione, una determinata impostazione filosofica, non sia senza conseguenze “pratiche” e finisca con l’incidere in profondità sul corso della storia. Il “pratico” Lenin, il “politico in atto”, come icasticamente lo definisce Gramsci, si occupava non occasionalmente di filosofia (anche se amava definirsi troppo modestamente un “marxista di base”). È l’opposto di una concezione e di una pratica – che nella degenerazione del movimento comunista si è consolidata – di una nefasta “divisione del lavoro”, che affida la teoria agli “intellettuali” e il “lavoro politico”, concepito prevalentemente nel suo aspetto organizzativo e di tattica immediata, o di attività amministrativa negli enti locali, ai “politici”, sancendo così anche il degrado della politica a “bassa cucina”, a “mestiere” separato dalla strategia.Lenin, “il più grande pensatore che il movimento operaio rivoluzionario da Marx in poi abbia mai avuto”, secondo una celebre espressione di Lukács, è filosofo-militante e militante-filosofo. Il che, detto in altri termini, significa che egli non separa e contrappone “teoria” e “prassi”, intese secondo il tradizionale binomio di “pensiero” e “azione”, ma concepisce l’attività teorica, l’intervento, la presa di posizione, la lotta sul fronte ideologico e culturale, come prassi. Il mantenimento della divisione tra “teoria” e “politica” è invece funzionale al mantenimento e consolidamento dell’egemonia della classe capitalistica dominante, al mantenimento dei subalterni in posizione subalterna. 

Questione, questa, al centro della riflessione di Gramsci, che si pose lucidamente il problema, già aperto con nettezza nell’Internazionale comunista, di dotare il proletariato di una propria autonoma concezione del mondo, di elaborare e sviluppare una propria filosofia, e di far sì che essa diventi patrimonio di massa e non di poche élite intellettuali, dando vita ad “un progresso intellettuale di massa”. Di qui la sua riscoperta e rivalutazione di Antonio Labriola, l’unico che, nel movimento socialista di fine ‘800 primi del ‘900 avesse posto con forza la questione di una Weltanschauung del proletariato.

Il che, però, non significa affatto fare tabula rasa di tutte le filosofie precedenti, di “buttare a mare la filosofia”, come suonava il titolo di un polemico articolo (pubblicato nel 1922 sulla rivista sovietica Pod znamenem marksizma: Sotto la bandiera del marxismo), che esprimeva una tendenza, diffusa in discreta parte nel proletariato russo, l’idea di una cesura radicale con tutta la storia passata e di un rinnovamento assoluto, di una nuova nascita, di una palingenesi completa; tendenza estremistica e distruttiva, contro cui Lenin condusse una decisa battaglia teorico-politica, ribadendo che il marxismo non nasce per partenogenesi, ma è figlio delle più avanzate filosofie e scienze del XVIII-XIX secolo. Come scrisse in un celebre testo destinato ad avere una lunga storia, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, pubblicato nel 1913 e riproposto nella Russia postrivoluzionaria per la formazione dei militanti, “la dottrina di Marx […] è completa e armonica, e dà agli uomini una concezione integrale del mondo, che non può conciliarsi con nessuna superstizione, con nessuna reazione, con nessuna difesa dell’oppressione borghese. Il marxismo è il successore legittimo di tutto ciò che l’umanità ha creato di meglio durante il secolo XIX: la filosofia tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese […]”. Filosofia classica tedesca: il pensiero dialettico di Hegel compenetra, secondo Lenin, tutto il lavoro di Marx, al punto che non si può comprendere davvero il Capitale senza aver studiato la Scienza della Logica di Hegel. La dialettica di Hegel costituisce una posta in gioco fondamentale, essa va studiata sistematicamente, come Lenin non si stanca di raccomandare ai militanti e ai redattori della “Rivista di materialismo militante”.

Non uno dei grandi problemi che continuano ad essere al centro del movimento operaio è estraneo, in modo più o meno mediato, alla posizione che si assume di fronte alla dialettica di Hegel e Marx. 

Anarco-sindacalismo e tradeunionismo

Pensiamo ad esempio una questione che è divenuta nei paesi capitalistici, e in particolare in Italia, dove i salari e le condizioni contrattuali dei salariati arretrano da vent’anni: il ruolo del sindacato, il rapporto tra sindacato e partito politico, la funzione e le condizioni dello sciopero politico di massa. Il revisionista Bernstein separa nettamente sindacato e partito socialista, assegna al primo il solo ruolo di difensore degli interessi economici, lo rinchiude in una sfera economicista che è tutta dentro i limiti della società capitalista, che non può e non vuole superarli, e lascia la classe operaia nel suo ruolo subalterno ed economico-corporativo, non si pone il problema di trasformarla in classe generale capace di produrre il passaggio ad un nuovo modo di produzione. Questa concezione della separatezza di sindacato e partito è stata ripresa e amplificata alcuni anni fa con la critica – apparentemente di sinistra, in quanto rivendicante la piena e totale autonomia dei soggetti operai aderenti al sindacato – come critica alla concezione comunista del sindacato come “cinghia di trasmissione” della politica proletaria. 

Contro Bernstein che difende una concezione tradunionista del sindacato economicista e corporativa, interviene a fine 800 l’altro grande esponente della socialdemocrazia tedesca, Karl Kautsky, allora su posizioni “ortodosse”, per affermare il ruolo della classe operaia come classe generale, difendendo il valore della lotta politica e anche dello sciopero politico. Ma Kautsky, che con la dialettica non è mai andato d’accordo, non concepisce la possibilità – dialettica – di un sindacato che sia difensore degli interessi economici dei lavoratori e, ad un tempo, organismo di massa, diverso dal partito, che contribuisce all’affermazione della politica rivoluzionaria, e possa essere ancora, dopo la conquista del potere politico da parte del proletariato, soggetto attivo della costruzione del socialismo. 

Anarcosindacalismo e tradeunionismo sono due facce della medesima medaglia che rifugge dalla dialettica, sono unilaterali, l’uno sostituendo al partito politico della classe operaia il sindacato, l’altro, limitandosi al ruolo strettamente economico: non colgono la totalità dei processi. 

Lenin nelle tesi del III congresso dell’Internazionale comunista, come in scritti precedenti, affrontò la questione del rapporto tra sindacato e partito e teorizzò il ruolo dei soviet come nuova creazione del proletariato e superamento dialettico della dicotomia tra economia e politica nel sindacato.

Contro l’opportunismo e contro il settarismo

Medesimo approccio Lenin ebbe nei confronti di due tendenze, di due modi di porsi di fronte all’agire politico, che si presentano spesso in coppia apparentemente contrapposta: settarismo e opportunismo: i due scogli, Scilla e Cariddi, contro cui il movimento operaio rischia di infrangersi.

L’opportunismo non viene stigmatizzato da Lenin come una malattia morale contro la quale pronunciare anatemi. Egli cerca le basi oggettive di esso, tra cui individua anche la corruzione delle istituzioni parlamentari, dove i deputati sono eletti senza mandato imperativo. Le tendenze opportunistiche – come rinuncia, anche se mascherata, allo scopo finale della rivoluzione e accomodamento nella società borghese, di cui si diviene un puntello, organizzatori del consenso tra la classe operaia – sono un dato immanente al movimento operaio, risiedono nella sua collocazione – anche nella lotta di classe sul piano internazionale – nella società borghese. Vi è un fattore di corruzione permanente, ineludibile, rispetto al quale si possono cercare degli antidoti – che sono soprattutto nel modo in cui si struttura il partito, nel legame stretto tra parlamentari o assessori e partito, e tra vertice e base del partito, evitando che nasca un partito degli assessori, o dei parlamentari – ma che non è eliminabile e rispetto al quale non valgono tanto gli appelli moralistici, quanto le misure che si prendono, il modo in cui si organizza il rapporto partito/masse. E, ma non è certo ultimo per importanza, la concezione filosofica di cui sono armati o meno i militanti del partito.

Il settarismo è l’altro scoglio verso cui il partito operaio rischia di infrangersi, è la negazione del partito di massa proposto dal III congresso dell’Internazionale Comunista, della politica del fronte unico, dell’alleanza delle classi subalterne sotto la guida del proletariato. È la risposta unilaterale all’opportunismo. Lenin combatte decisamente le due tendenze: opportunismo e settarismo estremistico sono condannati al tempo stesso. Battaglia su due fronti, come contro il dogmatismo e il revisionismo: ad un tempo. La concezione dialettica gli consente questo approccio. Vi è in Lenin un rifiuto esplicito del blanquismo, dell’insurrezione di piccoli gruppi, del potere preso tramite congiura, del terrorismo dei populisti (narodniki). Ma, al contempo, Lenin lotta decisamente contro il gradualismo riformista, ed ha la capacità di “pensare la rivoluzione”, come scrive Georges Labica, di pensarla come processo, non come colpo immediato, né tantomeno come colpo di mano – pure se i colpi di mano sono anch’essi parte della lotta politica o militare. 

La celebre affermazione leniniana dell’analisi concreta della situazione concreta, se è esplicitamente critica di ogni approccio puramente libresco (la filosofia dialettica è tutt’altra cosa dallo sciorinamento catechistico di quattro formulette ripetute come un mantra che si ritiene di poter applicare indifferentemente in ogni tempo e in ogni luogo) è parimenti totalmente estranea a qualsiasi approccio empiristico-positivistico, nella logica di una pratica fine a se stessa.

Scienza della rivoluzione 

Il leninismo è la teoria della rivoluzione nelle condizioni dell’epoca attuale; ma la rivoluzione per Lenin non si esaurisce affatto, come vorrebbe una vulgata accolta con troppa superficialità, nella mitica “presa del palazzo d’inverno”, bensì è un processo complesso, che attraversa diverse fasi, per passare al nuovo modo di produzione dei produttori associati. 

La conquista del potere politico è solo un primo passo, una leva per poter avviare la transizione. Non è certo un caso che, nel fuoco della lotta, egli continui a lavorare al “quaderno blu”, agli appunti sulla concezione marxista dello Stato e sulle trasformazioni dello Stato nel processo rivoluzionario di transizione. Una straordinaria ricchezza teorica che oggi si vorrebbe buttare alle ortiche presentando la rivoluzione d’Ottobre come un colpo di mano, il putsch di una minoranza “giacobina”, e Lenin come l’iniziatore di un potere dispotico. 

Lenin viene ancora oggi così massicciamente attaccato e denigrato perché la sua figura e la sua teoria sono ancora attuali, perché possono contribuire a guidare l’organizzazione politica e l’azione rivoluzionaria volta al rovesciamento radicale dei rapporti capitalistici. Perché Lenin, attraverso la critica puntuale ai populisti e al revisionismo di Bernstein prima e poi di Kautsky, teorico del “superimperialismo”, con la rottura netta con l’opportunismo dei partiti della II Internazionale legati ai propri rispettivi imperialismi, ci dà ancora oggi gli strumenti per rompere la cappa di subalternità all’ideologia imperialistica dominante. 

E anche perché Lenin insegna ad essere effettivamente rivoluzionari e non “estremisti”, perché, utopista antiutopico, invita a valutare correttamente la “verità effettuale”, per poterla realmente cambiare e insegna che la rivoluzione si può fare senza fare la fine dei comunardi del 1871, massacrati dalla borghesia prussiana e francese. Lenin è il realista che ci insegna a cambiare lo stato di cose presente, analizzando i rapporti di forza, per spostarne a proprio favore il peso attraverso l’azione politica. Un’analisi che non è mai fotografia statica di una situazione, ma visione dialettica di processi in corso, nella loro contraddittorietà, che l’azione politica deve saper volgere a proprio vantaggio, mirando ad approfondire le contraddizioni nel fronte avversario e ad unificare le forze che possono essere alleate. Abbiamo così la trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione e l’alleanza del proletariato russo con i contadini. 

Ma Lenin è anche, e soprattutto, la coerenza rivoluzionaria, una coerenza rivoluzionaria concreta, che guarda al fine da raggiungere non con l’attaccamento mistico e dogmatico che si deve ad una qualche icona religiosa, ma con la consapevolezza, anche tragica, che trasformazioni reali possono darsi solo sul terreno storicamente determinato di condizioni date, che la soggettività rivoluzionaria opera per trasformare. La tensione della relazione tra soggettività e oggettività attraversa in campo teorico i Quaderni filosofici non diversamente da quella che corre in campo politico ne I compiti immediati del potere sovietico, estranea al volontarismo come al cedimento opportunistico. 

È la scienza della rivoluzione: rifiuto netto del determinismo positivistico della seconda Internazionale, che portava i partiti operai all’inazione, all’attendismo, ma rifiuto anche delle fughe precipitose in avanti e ricerca delle possibilità concrete di modificare il quadro dei rapporti esistenti. Il che significa ancorare sul terreno dell’analisi materialistica avveniristiche avanzate e dolorose ritirate: il rivoluzionario che, ritornato in Russia da un lungo esilio, “spiazza” i suoi compagni con le Tesi d’aprile (passare dalla rivoluzione democratica alla rivoluzione socialista) è lo stesso che perora qualche anno dopo il passaggio alla NEP, cercando di stabilire un nuovo rapporto tra operai e contadini, prospettando una transizione ben più complessa e lunga di quella che poteva apparire nel “comunismo di guerra”.

Teoria della transizione socialista

È proprio rispetto a quest’ultima che il pensiero di Lenin è particolarmente ricco e articolato. Basterebbe solo guardare l’azione teorica e politica che egli svolge nei concitati e difficilissimi anni successivi all’ottobre 1917, in un paese distrutto da una doppia guerra (dopo la guerra mondiale, la guerra civile): il potere politico è sempre pensato in relazione alla possibilità delle masse di esercitarlo effettivamente. Altro che “dispotismo”! A differenza che nelle rivoluzioni borghesi, dove il compito principale delle masse lavoratrici consisteva nello svolgere l’azione negativa di spazzar via il feudalesimo, mentre l’azione positiva di organizzare la nuova società era svolta dalla minoranza possidente borghese, nella rivoluzione socialista “il compito principale del proletariato e dei contadini poveri da esso diretti è il lavoro positivo o creativo per fondare un sistema estremamente complesso e delicato di nuovi rapporti organizzativi, che abbracciano la produzione e la distribuzione pianificate dei prodotti necessari all’esistenza di decine di milioni di uomini. Questa rivoluzione può essere realizzata con successo solo se la maggioranza della popolazione, e innanzitutto la maggioranza dei lavoratori, è capace di un’attività storicamente creativa e autonoma”. E tutta la tensione politica e ideale è nella ricerca delle condizioni in cui questa azione creativa delle masse possa effettivamente dispiegarsi. Una ricerca continua che va dalla proposta di ridurre la giornata di lavoro a sei ore, in modo da consentire effettivamente al lavoratore di occuparsi della politica, ai sabati comunisti di lavoro volontario, dalla rivoluzione culturale, senza la quale le masse rimarranno subalterne, alla cooperazione. Sempre nella consapevolezza che la transizione si iscrive nell’oggettività delle condizioni ereditate dalla società capitalistica: “Sappiamo che dal cielo non ci piove nulla, sappiamo che il comunismo sorge dal capitalismo, che solo dalle sue vestigia si può costruire il comunismo. Sono cattive, è vero, ma non ve ne sono altre”. Né ci sono scorciatoie, se non nell’illusione messianica, o nell’autoinganno che si possa sostituire al vecchio mondo un altro mondo buono e santo, nato chissà come e chissà dove.

L’imperialismo

Coniato in Francia ai tempi del II Impero in riferimento ai disegni egemonici di Napoleone III, il termine imperialismo si affermò in Inghilterra alla fine degli anni 1870 per indicare il programma di espansione coloniale del governo Disraeli ed entrò poi nell’uso comune come sinonimo di politica di potenza e di conquista territoriale su scala mondiale. Questo imperialismo, che a partire dal 1880 conosce un ulteriore sviluppo con la rapidissima spartizione di gran parte dell’Africa tra le potenze europee, è nuovo rispetto alla politica di colonizzazione perseguita dagli Stati europei nei secoli XVII e XVIII all’insegna del protezionismo mercantilistico, dello sfruttamento delle materie prime delle colonie, delle guerre commerciali per la limitazione della potenza straniera. La novità, che ne costituisce profondamente il tratto caratteristico, è data dal suo essere espressione del capitale finanziario nella sua fase monopolistica: la politica delle cannoniere, la politica di potenza, fino alla guerra –  sia  nei confronti dei paesi capitalisticamente meno sviluppati che delle altre potenze capitalistiche concorrenti – è un’implicazione necessaria del capitalismo dei monopoli, dei cartelli, dei trust

Il nesso tra economia capitalistica e politiche imperialistiche di espansione e spartizione del mondo – con tutti i mezzi, fino al ricorso alla guerra – viene individuato con chiarezza già nel 1902 ne L’Imperialismo dell’inglese Hobson, riformista fabiano: le cause economiche dell’imperialismo inglese vanno ricercate nella sovrapproduzione di merci e capitali che cercano occasioni di investimento all’estero. Hobson, tuttavia – e come lui numerosi altri teorici che nei primi decenni del ‘900 indagano sull’imperialismo, tra i quali Schumpeter (Sociologia dell’imperialismo, 1919) – nega il rapporto di implicazione necessaria tra capitale monopolistico e imperialismo che caratterizza, anche se tra divergenze rilevanti, l’analisi marxista, da Rosa Luxemburg (L’accumulazione del capitale, 1913) a Bucharin (L’economia mondiale e l’imperialismo, 1915) al “saggio popolare” di Lenin (Imperialismo fase suprema del capitalismo, scritto nel 1916). Hobson ritiene che l’imperialismo sia il risultato della politica disastrosa di determinati circoli finanziari e industriali e che sia errato ritenere inevitabile l’espansione imperialistica come sbocco necessario per il progresso dell’industria. “Non è il progresso industriale che richiede l’apertura di nuovi mercati e di nuove aree di investimento, ma la cattiva distribuzione della capacità di consumo che impedisce l’assorbimento di merci e capitali all’interno del paese”.  

Analisi simili (che riappaiono anche alla fine del XX secolo) tendono a vedere la politica imperialistica come fenomeno relativamente autonomo dal capitalismo. Per Schumpeter l’imperialismo è una tendenza contraddittoria rispetto al capitalismo industriale e non una fase necessaria dello sviluppo capitalistico: l’uso da parte di trust e monopoli della potenza dello Stato per una politica di militarismo aggressivo non sarebbe che una deviazione rispetto all’attività razionalizzatrice dell’imprenditore nel quadro della concorrenza. L’imperialismo sarebbe frutto della sopravvivenza di tendenze legate a situazioni precapitalistiche, alla mentalità di caste feudal-militari, agli interessi dinastici e ad interventi perturbatori dello Stato, quindi ad elementi politici e sociologici che ostacolerebbero il dispiegarsi della razionalità capitalistica.

Per Lenin, invece, l’imperialismo si qualifica essenzialmente non come qualcosa di strutturalmente diverso dal capitalismo e nemmeno come una conformazione fissa e stabilizzata dei rapporti economico-sociali, ma come stadio monopolistico del capitalismo. Diverso dal colonialismo tradizionale, che è sorto in una fase storica anteriore all’imperialismo, esso presenta i seguenti aspetti:

1. Concentrazione (orizzontale e verticale) della produzione. Nasce così il capitalismo monopolistico: in esso ogni settore della produzione capitalistica diventa monopolio di pochi o anche di un solo gruppo di imprese. Ciò determina una profonda modificazione del mercato capitalistico con i “sovrapprofitti” di monopolio.  

2.  Massiccia incorporazione della scienza nella produzione capitalistica, con lo scopo di accrescere ulteriormente la produttività del lavoro. 

3. Nuova funzione delle banche, che forniscono all’industria non solo capitale di esercizio ma una quota di capitale fisso. Formazione del capitale finanziario: capitale che, pur investito nell’industria, appartiene non agli imprenditori industriali ma a finanziatori esterni all’impresa.

4. Esportazione di capitali – e non più soltanto di merci – sia verso i paesi capitalisticamente non (o poco) sviluppati che verso quelli capitalisticamente avanzati. I grandi investimenti compiuti dalle maggiori potenze capitalistiche introducono il capitalismo in nuove regioni del mondo, un capitalismo dipendente.

5. Spartizione del mondo tra i gruppi capitalistici. Crescita del ruolo dello Stato sia come committente (da qui lo sviluppo del “complesso militar-industriale”), che come sostegno nello sfruttamento dei paesi dipendenti e nella lotta contro gruppi capitalistici stranieri rivali. 

6. Sviluppo ineguale delle aree capitalistiche.

Per Lenin, dunque, l’imperialismo, “epoca del capitale finanziario e dei giganteschi monopoli capitalistici, epoca in cui il capitalismo monopolistico si trasforma in capitalismo monopolistico di Stato, mostra in modo particolare il consolidamento della macchina statale”.

Questa analisi consente a Lenin di caratterizzare il primo conflitto mondiale – contro le ideologie nazionalistiche cui fanno ricorso i rispettivi governi per organizzare il consenso – quale guerra imperialistica, tra opposti imperialismi. Tale analisi si incontra col movimento reale del proletariato russo e internazionale e fornisce gli strumenti teorici per unificare – contro le tentazioni filocolonialiste dei partiti della II Internazionale, da cui non fu esente neppure un grande pensatore marxista come Antonio Labriola – le lotte del proletariato dei paesi capitalisticamente sviluppati con il movimento di emancipazione dei popoli oppressi dal giogo coloniale: lotta antimperialista è, ad un tempo, quella della classe operaia dei paesi sviluppati contro i propri governi al servizio dei grandi monopoli e del capitale finanziario e quella dei popoli che intendono scuotere il giogo coloniale e che trovano nella neocostituita URSS e nell’Internazionale comunista – al di là di oscillazioni, errori, arretramenti – una sicura retrovia. 

È attuale la teoria leninista dell’imperialismo?

Si tratta di chiedersi ora se nel corso della storia mondiale del ‘900 siano sostanzialmente mutati quegli aspetti essenziali del capitalismo monopolistico che caratterizzavano per Lenin l’imperialismo. Si può rispondere che tutti gli aspetti caratterizzanti l’imperialismo individuati da Lenin hanno conosciuto un enorme sviluppo: i monopoli, i cartelli, i trust sono diventati megamonopoli che hanno travalicato i confini stessi dello Stato d’origine, divenendo potentissime corporation transnazionali, il ruolo del capitale finanziario si è immensamente accresciuto, lo sviluppo ineguale è molto più evidente, il capitalismo è oramai pienamente sistema mondiale, all’interno di questo sistema non vi è interdipendenza, ma rapporti di gerarchia e subordinazione tra paesi capitalistici dominanti e paesi capitalistici dipendenti, ai quali i grandi monopoli impongono i loro diktat, le loro politiche economiche, ricorrendo, se necessario, all’impiego delle armi, in forma indiretta (i colpi di Stato in America Latina, di cui quello di Pinochet in Cile nel 1973 a difesa delle multinazionali USA è uno degli esempi più illuminanti) o diretta (le “operazioni di polizia internazionale”, le “guerre umanitarie” degli anni ’90). 

Quello attuale è un mondo di Stati deboli e disgregati e Stati forti disgreganti.  In questi ultimi si rafforza il consolidamento della macchina statale (compresi gli apparati egemonici e di fabbricazione del consenso) di cui parlava Lenin. Non bisogna infatti confondere l’attuale tendenza “neoliberista” di riduzione dell’intervento statale nelle spese sociali e di privatizzazioni con l’indebolimento dello Stato stesso, sempre più sottomesso ai grandi gruppi monopolistici, sempre più “sussunto realmente” dal capitale. 

Sotto questo profilo non siamo affatto usciti dall’epoca dell’imperialismo ed è allora più che opportuno il ricorso a tale categoria, non feticcio di consunta bandiera, ma attuale e valido strumento per l’analisi del presente. 

Confondere colonialismo in generale e imperialismo mutila quest’ultimo, come si è detto, della sua determinazione economica fondamentale di capitalismo monopolistico. Questo nuovo stadio del capitalismo, però, non distrugge totalmente la concorrenza tra capitali, ma convive contraddittoriamente con essa, né potrebbe essere altrimenti, se si esamina il concetto di capitale.

Anche il più sprovveduto sulla terra sa oggi che non esiste il capitale, ma i capitali. La cultura dominante e diffusa pervasivamente lo martella ogni giorno, in ogni posto di lavoro, con le parole “competizione”, “concorrenza”. E’ in nome delle esigenze di questa dea che si ristruttura e si licenzia, che si chiede flessibilità e genuflessione, per “stare sul mercato”. La concorrenza tra imprese capitalistiche si presenta oggi self evident. Essa non è un accessorio del modo di produzione capitalistico, ne è parte costitutiva, fondante. Tra concorrenza e monopolio vi è una dialettica, che porta la concorrenza a generare il monopolio e il monopolio a sua volta a generare la concorrenza. Marx lo scrive chiaramente già nel 1846: “Nella vita economica di oggigiorno voi trovate non soltanto la concorrenza e il monopolio, ma anche la loro sintesi, che non è una formula, ma un movimento. Il monopolio produce la concorrenza, la concorrenza produce il monopolio”.Ma è nell’analisi matura del capitale che Marx chiarisce filosoficamente la questione della concorrenza – della contraddizione intercapitalistica – come inestricabilmente connessa alla vita stessa del capitale:

“Il capitale esiste e può esistere soltanto come molteplicità di capitali, e perciò la sua autodeterminazione si presenta come la loro azione e reazione reciproca”. Poiché esso è per sua natura “autorepulsione, pluralità di capitali in completa indifferenza reciproca” deve necessariamente “respingersi da se stesso”. “Poiché il valore costituisce la base del capitale, e questo esiste necessariamente solo in quanto si scambia contro un equivalente, esso si respinge necessariamente da se stesso. Un capitale universale che non abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare […] è perciò un assurdo. La reciproca repulsione di capitali è già implicita in esso in quanto valore di scambio realizzato”.

Il passaggio dalla fase della libera concorrenza a quella del monopolio non modifica questa determinazione fondamentale del capitale. Nella sua analisi dell’imperialismo Lenin confuta decisamente la tesi kautskiana della possibilità, anche solo teorica, di un “ultraimperialismo” che “al posto della lotta tra capitali finanziari nazionali mettesse lo sfruttamento generale nel mondo per mezzo del capitale internazionale unificato”. La storia dei primi decenni del XX secolo offre esempi di una lega di tutte le potenze imperialiste per ripartirsi pacificamente la Cina. Ma è inimmaginabile, nelle condizioni capitalistiche, che tali leghe sarebbero di lunga durata, che escluderebbero attriti, conflitti e lotte nelle forme più svariate. “Infatti in regime capitalista non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere d’interessi e d’influenza, delle colonie, ecc. che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica, finanziaria, militare, ecc. Ma i rapporti di potenza si modificano nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalistico non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc. Mezzo secolo fa la Germania avrebbe fatto pietà se si fosse confrontata la sua potenza capitalista con quella dell’Inghilterra d’allora […] Si può immaginare che nel corso di 10-20 anni i rapporti di forza tra le potenze imperialiste rimangano immutati? Assolutamente no. Pertanto, nella realtà capitalista […] le alleanze interimperialiste o ultraimperialiste non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico ed identico terreno, dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta” 

Ora, non si tratta evidentemente solo di rispolverare i “sacri testi”, i classici del marxismo, scritti un secolo fa per confutare una teoria che si propone di comprendere i mutamenti della realtà odierna. La questione è prima di tutto nell’analisi del capitalismo contemporaneo, che, con tutte le trasformazioni in esso intervenute, è comunque fondato non sul capitale unico e unitario, ma sui capitali, sulla loro “repulsione reciproca”, sulla loro contraddizione. La contraddizione tra capitali – potentissima forza motrice del capitalismo che spinge all’innovazione tecnologica o all’estorsione più crudele di forza lavoro, con tutta la combinazione di sottosalari, decentramento produttivo, taylorismo esasperato, per ridurre i costi e “battere la concorrenza” – non finisce con il passaggio alla fase monopolistica, compresa quella del “capitalismo monopolistico di Stato” (che prevale tra le due guerre e nel primo trentennio postbellico). Nell’ultimo ventennio “neoliberista” si hanno concentrazioni monopolistiche di dimensioni inaudite, che travalicano i confini del singolo Stato, divengono multinazionali e transnazionali, e, al contempo, l’accentuarsi della concorrenza. 

Tutti i fenomeni – già analizzati nei primi decenni del ‘900 dai teorici marxisti – di concentrazione e centralizzazione dei capitali, di costituzione di trust, cartelli, filiere, catene di produzione e distribuzione nei diversi settori produttivi, li ritroviamo elevati all’ennesima potenza nel mondo attuale. Queste contraddizioni tra capitali monopolistici finanziari – dunque contraddizioni interimperialistiche, se assumiamo la definizione di Lenin – si manifestano nelle forme più diverse, non ultime le guerre commerciali e le politiche protezionistiche che singoli paesi o blocchi di paesi si fanno anche nei tempi più recenti. Così come le guerre per interposta persona per l’accaparramento e il controllo delle materie prime, delle principali fonti energetiche, delle pipelines (i “corridoi” che dall’Asia vanno all’Europa), dal Medio Oriente ai Balcani, alla Cecenia. Non è forse in atto uno scontro tra grandi potenze per il controllo e la rispartizione dell’immenso spazio economico eurasiatico (materie prime, forza lavoro, mercati) lasciato libero dopo la dissoluzione dell’URSS? Anche se tale rispartizione – nelle condizioni attuali, per gli attuali rapporti di forza – non può avvenire né nelle forme del vecchio colonialismo, né in quelle della guerra diretta tra grandi potenze capitaliste. Si possono ignorare forse le politiche di penetrazione del capitale tedesco nell’Europa centro-orientale e nei Balcani e gli interventi militari degli USA per contrastarne la presenza? O le direttive strategiche del dipartimento di Stato USA per il controllo delle fonti strategiche del Caspio? Gli antagonismi tra capitali si sono acuiti e non ridotti. Se essi non sfociano nella guerra diretta, è perché i rapporti di forza militari non lo consentono ancora, per cui si preferisce l’accordo spartitorio, accettando le condizioni dettate dal più forte. Ma ciò non significa la fine né della contraddizione, né dell’antagonismo.

La rappresentazione di un capitalismo stabilmente unificato nell’«Impero», privo di “gerarchie imperialistiche”, che Negri e Hardt ci danno, è monca e unilaterale.

La questione, allora, va posta in termini diversi. Il problema, che non va assolutamente eluso, è in che modo le contraddizioni e gli antagonismi connaturati alla conflittualità intercapitalistica si manifestano oggi, quando le imprese transnazionali sono enormemente cresciute travalicando i confini degli Stati stessi. Referente diretto ed espressione politica e militare di queste contraddizioni continuano ad essere gli Stati (il cosiddetto “Stato nazionale”, espressione divenuta fonte di equivoci)? Le contraddizioni intercapitalistiche (interimperialistiche) si manifestano oggi principalmente come contraddizioni tra Stati, oppure in una qualche forma diversa e combinata con quella del passato?

Il che ci porta alla questione della funzione dello Stato oggi, di uno Stato che, in tutto il mondo, dopo 20 anni di offensiva della classe capitalistica (le politiche “neoliberiste” degli anni ’80 e ‘90), è ancor più sottomesso al capitale che in passato. In che modo e in che misura lo serve? E quali capitali esso serve, dal momento che il capitale “nazionale” si fonde con quello “straniero”, e c’è una tale compenetrazione tra i capitali di diversa origine che spesso impedisce di discernere quale sia ormai la base “nazionale” di essi?

Rispetto a questa questione, che ha una diretta rilevanza teorico-politica, poiché implica in ultima analisi le scelte strategiche di una politica comunista, andrebbero evitate le semplificazioni e le suggestioni del discorso di Negri e Hardt. Come scrive Sylvers, “il rapporto tra le ITN [imprese transnazionali] e i loro paesi d’origine è ancora presente ed è anche forte […] le più grandi Itn hanno da due terzi a tre quarti dei dipendenti e del valore dei propri impianti nel paese d’origine e lì compiono gran parte della loro ricerca”. Il che significa che comunque lo Stato nazionale continua ad esercitare un ruolo notevole di difesa degli interessi di queste imprese. E fa ciò, sia nelle politiche interne (concessioni, contributi, incentivi, politiche fiscali e protezionistiche), sia all’interno dei principali organismi sovranazionali (FMI, Banca Mondiale, WTO). Questi ultimi non sono Stati o superStati, ma una sorta di SpA i cui azionisti sono i governi degli Stati, e azionisti di maggioranza le principali potenze nel FMI gli USA hanno il 15%). 

Inoltre, il processo di costituzione di imprese transnazionali non annulla affatto, ma accentua, la disposizione gerarchica del mondo capitalistico. Se c’è interdipendenza, essa non pone tutti gli attori sullo stesso piano di parità. Parlare genericamente di “perdita di sovranità dello Stato-nazione” è fuorviante: l’attuale lotta per la rispartizione e riconfigurazione imperialistica del mondo vede da una parte il rafforzamento e l’estensione di sovranità di alcuni Stati (superStati) a danno di altri che ridimensionano notevolmente le loro prerogative di sovranità (sottoStati). Dov’è la riduzione di sovranità degli USA o della Germania in questo momento? Nell’Impero di Negri tutti gli Stati nazionali sono uguali, tutte le vacche sono bigie… 

Il processo di riconfigurazione imperialistica degli assetti statuali e del sistema di Stati è ancora in corso, la struttura del mondo attuale non è affatto stabile e la crisi di sovrapproduzione accentua l’esigenza di accaparrarsi mercati, di penetrare in aree nuove, accentua quindi le contraddizioni. Rappresentare il mondo attuale come un impero già costituito o in via di avanzata costituzione, è in definitiva, una visione subalterna a quella degli apologeti del capitale. Può anche essere fonte di gravi errori nell’azione politica.

L’illusione ottica di Negri e Hardt deriva dall’ipostatizzazione dei rapporti di forza determinatisi negli ultimi anni, che hanno fatto degli USA, per il crollo dell’URSS, l’unica superpotenza militare. Ma occorrerebbe riflettere sull’ineguale potenziale di sviluppo delle diverse aree e sui possibili, anche rapidi mutamenti che ne potrebbero derivare sulla scena mondiale e che sono nel possibile ordine delle cose, per cui nel giro di pochi anni potremmo trovarci di fronte all’esplosione violenta di quelle contraddizioni interimperialistiche, che troppo in fretta si vuol seppellire nell’universo indeterminato della globalizzazione e dell’Impero

NOTE 

1. G. Lukacs, Lenin, Einaudi, Torino 1970, p. 13.

2. V. I. Lenin, Opere Complete, XIX, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 9.

3. “Imbecille congenito […] di un’intelligenza pedante, psicotica, nichilista, che fa venire i brividi. Non aveva alcun senso morale. Per Lenin il fine giustifica i mezzi, in qualunque circostanza. C’è qualcosa di folle in un cinismo così assoluto”. Così si esprime Amis nel citato articolo di La Repubblica del 21.1.2004.

4. Secondo Amis, il comunismo è una pericolosa utopia, basata sulla “idea salvifica che la società può essere migliorata. Che può essere creato un Uomo Nuovo”; per Salvadori “Lenin ha fondato una religione politica che si è fatta stato e forma di società, […] che ha confiscato con i mezzi del terrore la storia presente in nome di una storia futura idilliaca, che dopo aver promesso il millennio dell’eguaglianza e la fine di ogni violenza ha eretto un sistema di ferrea diseguaglianza”. Contrariamente a quanto scrivono costoro, non c’è nella concezione di Lenin, nessuna idea salvifica, millenaristica, di impronta religiosa, di un comunismo immaginario quale regno della società dell’armonia universale, senza contraddizioni. Nulla è più alieno, nella filosofia materialistico-dialettica di Lenin, del tratto del visionario che promette paradisi futuri. 

5. “I compiti immediati del potere sovietico” (1918), in Lenin, Opere complete, editori Riuniti, Roma, 1954-1972, vol. XXVII, p. 215.

6. Dall’antico romano Quinto Fabio Massimo, il “temporeggiatore”: i fabiani ritenevano che il proletariato dovesse evitare le battaglie decisive e puntare ad un gradualismo evoluzionistico.

7. K. Marx, Lettera a Annenkov, in Miseria della Filosofia, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 158.

8. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica” vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1970, pp. 17, p. 27, nota; 28, nota. Evidenziazioni in grassetto mie, A. C.

9. V. I. Lenin, L’imperialismo…, op. cit., p 293.

10. Ivi, p. 294-95. Evidenziazioni in grassetto mie, A. C.

11. Anche se il testo di Lenin risulta attualissimo se riferito alla lega “ultraimperialista” che ha fatto la guerra all’Iraq (1991) e alla Jugoslavia (1999). 

12. Cfr. G. Chiesa, Roulette russa, Guerini, 1999.

13. Cfr. M. Sylvers, op. cit. p. 54.