Contro l’inezia liberale – Marx e la tesi del plusvalore

marx engels primopianoIniziamo oggi la pubblicazione di cinque scritti che nel confutare alcuni video critici rispetto alle idee Marx ne spiegano bene l’immutato valore

di Giovanni Paolo Sirianni e Pier Giorgio Corriero

Da sempre la borghesia si oppone con ogni mezzo possibile ed immaginabile a chi tenta di mettere in discussione il suo dominio e, conseguentemente, cerca da sempre di ridicolizzare, mistificare e combattere in tutti i modi il marxismo: filosofi, economisti, letterati, artisti, poeti, scrittori, cantanti ed intellettuali di ogni tipo da sempre ripetono imperterriti le loro menzogne sulla teoria e sulla pratica del marxismo e del socialismo scientifico. Tra le tante maschere pirandelliane della borghesia quella più curiosa, più stuzzicante, ma allo stesso tempo più stravagante ed ambigua, è quella liberale. «Il liberalismo – scrive Losurdo – è la tradizione di pensiero che mette al centro della sua preoccupazione la libertà dell’individuo, misconosciuta o calpestata invece dalle filosofie organicistiche di diverso orientamento» (Domenico Losurdo, “Controstoria del liberalismo”, Edizioni Laterza, Bari 2005, p. 25). Il liberalismo è una delle principali teorie politiche borghesi e tra le tante teorie politico-economico-sociali di questa classe è certo quella che più di tutte le altre pone come suo asse portante il dogma totemico del libero mercato e della competitività, quella che più di tutte le altre predica cancerogene idee sul piano morale e/o culturale, affermando che l’etica di stato non dovrebbe esistere ed operando un gigantesco encomio di tutte le loro discutibili proposte politiche sotto il falso nome della libertà. Ma come ammoniva già Marx oltre un secolo fa “Signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? Non è la libertà di un singolo individuo di fronte a un altro individuo. È la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore.” (K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 481)

Proprio il filosofo di Treviri è uno dei principali bersagli ideologici dei biasimi individualisti. Considerato come il teorico del collettivismo totalitario, per usare un termine popperiano, giudicato come l’affabile ideatore dell’ideologia che più di ogni altra nella storia ha portato sangue, distruzione e morte.

Con questa serie di articoli si intende difendere il pensiero di Marx dagli infimi attacchi dell’ideologia borghese, riassunti sapientemente, in tutta la loro inettitudine, da Alessio Cotroneo, fondatore e presidente dell’Istituto Liberale, in questa serie di 5 video dove si pretende di smascherare al grande pubblico tutti i presunti errori di Marx.

Il Plusvalore

[in risposta a Il Plusvalore – Tutti gli errori di Marx]

Nel primo dei 5 video dove i nostri avversari tentano di smontare il pensiero marxista si parla della celeberrima teoria del valore, secondo la quale il valore di ogni merce deriva dal lavoro sociale impiegato per produrla. Si parla dunque dell’analisi economica di Karl Marx, che credono scioccamente di aver smascherato dopo aver ripetuto “pappagallicamente” le monotone antitesi poste dalle scuole economiche borghesi dello scorso secolo, specie dagli austriaci e dalla scuola di Chicago. Ma veniamo al video in sé. 

“Le parole sono importanti” diceva Nanni Moretti nel celebre film “Palombella Rossa” ed infatti uno dei principali appunti che vanno posti alle critiche di Istituto Liberale al marxismo riguarda il piano puramente filologico, si dice che le definizioni siano importanti per poi dare una definizione incompleta ed effimera del concetto di plusvalore.

Che cos’è il plusvalore?

Il plusvalore è il valore della forza lavoro non retribuita di cui il capitalista di appropria nel processo di produzione, «Il plusvalore» – scrive Marx – «consiste proprio […] nell’eccedenza della somma complessiva di lavoro incorporata nella merce rispetto alla quantità di lavoro pagato che la merce contiene» (Il Capitale, Volume III, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 71).

Un altro appunto puramente filologico va fatto circa il rapporto tra plusvalore e profitto, quando vi si fa un cenno intorno al minuto 1:49, nel terzo libro de “Il Capitale” Marx spiega eccellentemente l’interazione tra questi due elementi quantitativi nel campo della produzione, scrive infatti

«Come abbiamo rilevato al termine del precedente capitolo, si suppone qui, come in genere in tutta questa prima sezione, che la somma del profitto, che tocca ad un dato capitale, sia uguale alla somma complessiva del plusvalore prodotto per mezzo di questo capitale in una data fase della circolazione. […] In quanto il profitto è posto quantitativamente uguale al plusvalore, la sua grandezza, e la grandezza del saggio del profitto è determinato dai rapporti di semplici grandezze numeriche date o determinabili in ogni singolo caso. L’analisi si muove quindi inizialmente sul puro terreno matematico. […] Il rapporto di questo plusvalore rispetto al capitale variabile anticipato, è da noi denominato saggio del plusvalore [o anche saggio di sfruttamento. ndr] e indicato con (pv’). saggio del plusvalore = pv’ = pv: v Se il plusvalore (pv) viene riferito, anziché al capitale variabile, al capitale complessivo (C), esso assume la denominazione di profitto (p) e il rapporto fra il plusvalore (pv) e il capitale complessivo C si chiama saggio del profitto (p’): saggio del profitto = p’ = pv: C = pv: (c + v) Mentre plusvalore (pv) e profitto (p) sono la stessa cosa e sono anche quantitativamente identici, saggio del profitto (p’) e saggio del plusvalore (pv’) sono quantitativamente diversi tra loro. Il saggio del profitto (p’) è sempre minore del saggio del plusvalore (pv’) dato che il capitale variabile (v) è sempre minore del capitale complessivo C, somma del capitale costante (c) e del capitale variabile (v)» (Il Capitale, Vol. III, Editori Riuniti Roma 1973, pag 79-80) 

Cotroneo è molto vago sul tema, quasi come se avesse fretta di parlar d’altro; dopo aver esposto erroneamente questi due concetti commette un altro errore piuttosto grave, ovvero crede che, secondo Marx, con la presa dei mezzi di produzione da parte degli operai a questi verrà retribuita la totalità del lavoro sociale prodotto. Cotroneo dimostra ciò che voleva sfatare nell’introduzione del video, ovvero di non aver letto Marx. Il filosofo di Treviri infatti si oppose all’idea di Lassalle secondo cui l’operaio nel regime socialista avrebbe dovuto ricevere il reddito integrale del suo lavoro, ed infatti Marx nella “Critica al Programma di Gotha” scrisse:

«Se prendiamo la parola “frutto del lavoro” nel senso del prodotto del lavoro, il frutto del lavoro sociale è il prodotto sociale complessivo. Ma da questo si deve detrarre: 

Primo: quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati. 

Secondo: una parte supplementare per l’estensione della produzione. 

Terzo: un fondo di riserva o di assicurazioni contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali, ecc. Queste detrazioni dal “frutto integrale del lavoro” sono una necessità economica, e la loro entità deve essere determinata in parte con un calcolo di probabilità in base ai mezzi e alle forze presenti, ma non si possono in alcun modo calcolare in base alla giustizia. Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo di consumo. Prima di venire alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:

Primo: le spese d’amministrazione generale che non rientrano nella produzione. Questa parte è ridotta sin dall’inizio nel modo più notevole rispetto alla società attuale, e si ridurrà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando. 

Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione di bisogni sociali, come scuole, istituzioni sanitarie, ecc. Questa parte aumenta sin dall’inizio notevolmente rispetto alla società attuale e aumenterà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando. 

Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc., in breve, ciò che oggi appartiene alla cosiddetta assistenza ufficiale dei poveri. Soltanto ora arriviamo a quella “ripartizione,” che è la sola che, sotto l’influenza di Lassalle, grettamente viene presa in considerazione dal programma, cioè la ripartizione di quella parte dei mezzi di consumo che viene ripartita tra i produttori individuali della comunità. Il “frutto integrale del lavoro” si è già nel frattempo cambiato nel frutto del lavoro “ridotto,” benché ciò che viene sottratto al producente nella sua qualità di privato torni a suo vantaggio nella sua qualità di membro della società» (Opere Scelte Marx-Engels, Edizioni Progress, Mosca 1986, pp. 318-319 ed. ing.) 

La prima polemica che viene posta riguarda il fatto che non sempre una merce viene venduta, il problema è molto semplice: Marx ed Engels sapevano benissimo che una merce non per forza viene venduta immediatamente dopo la produzione. Altrimenti egli non avrebbe teorizzato la teoria della crisi di sovrapproduzione, conseguenza dell’anarchia della produzione sociale. Engels infatti scrisse

«Abbiamo visto che il modo di produzione capitalistico si inserì in una società di produttori di merci, di produttori individuali, il cui nesso sociale era determinato dallo scambio dei loro prodotti. Ma ogni società fondata sulla produzione di merci ha questo di particolare: che in essa i produttori hanno perduto il dominio sui loro propri rapporti sociali. Ognuno produce per sé con mezzi di produzione che casualmente possiede e per il fabbisogno del suo scambio individuale. Nessuno sa né quale quantità del suo articolo arriva al mercato, né in generale quale quantità ne è richiesta; nessuno sa se il suo prodotto individuale risponde ad un effettivo bisogno, né se potrà cavarne le spese, né se in generale potrà vendere.(1) Domina l’anarchia della produzione sociale» (Opere Complete Marx-Engels, Volume XXV, Editori Riuniti Roma 1969, pag 260-261)

Ed inoltre anche Marx, descrivendo la società capitalistica, scrisse 

«Ciascuno produce ciò che vuole, come vuole, quando vuole, dove vuole; produce bene o produce male, troppo o troppo poco, troppo presto o troppo tardi, troppo caro o troppo a buon mercato; ciascuno non sa se venderà, come venderà, quando venderà, dove venderà, a chi venderà; e lo stesso è degli acquisti. Il produttore ignora i bisogni e le risorse, le domande e le offerte. Vende quando vuole, quando può, dove vuole, a chi vuole, al prezzo che vuole. E compra alle stesse condizioni. In tutto ciò egli è lo zimbello del caso, lo schiavo della legge del più forte, del meno stretto dal bisogno, del più ricco… Mentre in un punto vi è penuria di ricchezza, nell’altro vi è il superfluo e lo sperpero. Mentre un produttore vende molto o troppo caro, e con enorme guadagno, l’altro non vende nulla o vende in perdita… L’offerta ignora la domanda, e la domanda ignora l’offerta. Voi producete fidandovi di un gusto, d’una moda che si manifesta nel pubblico dei consumatori; ma quando ormai siete pronti a consegnare la merce, il capriccio è mutato e si è fissato sopra un altro genere di prodotto… conseguenze immancabili, il permanere e l’estendersi delle bancarotte; le previsioni sbagliate, i rovesci subitanei e le fortune improvvisate; le crisi commerciali, la disoccupazione, gli ingorghi o le carestie periodiche; l’instabilità e il ribasso dei salari e dei profitti; la perdita o lo sperpero enorme di ricchezze, di tempo e di sforzi nell’arena d’una concorrenza accanita». 

(Karl Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 176)

Cotroneo dimostra nuovamente di avere una conoscenza piuttosto empirica del marxismo e, com’è solitamente prassi ideologica dei liberali, astrae singole frasi e passi dall’intero pensiero dell’autore. 

La seconda polemica che viene posta riguarda il fatto che l’imprenditore che rischia mettendosi “in proprio”, non abbia alcuna garanzia di successo. E’ indicativo mostrare come questa critica e le successive non mettano in discussione l’esistenza del plusvalore, bensì abbiano la funzione puramente apologetica nei confronti dell’appropriazione del plusvalore stesso. Cotroneo, da buon difensore dell’ideologia della borghesia, sostiene che tutti i rischi nella spietata macelleria della produzione anarchica capitalista stiano dalla parte di tale classe. Non è così! Ciò non è altro che un misticismo logico: un grottesco tentativo di piegare la realtà in funzione dell’ideologia, in questo caso borghese. Cotroneo, oltre a “studiare” la letteratura economica marxiana, dovrebbe studiare anche quella filosofica dell’autore in questione! 

E’ verissimo che il piccolo imprenditore nello spietato regime del capitale, specie se libero-scambista e deregolamentato, rischia molto; del resto a questa tesi c’era già arrivato Marx.  Rischia già molto di meno il grande magnate del capitale, che nel regime capitalista, come prima specie se libero-scambista e deregolamentato, detiene il potere decisionale assoluto e quindi può permettersi di compiere le peggiori politiche e speculazioni per estrarre sempre più plusvalore. Un esempio possono essere i licenziamenti di massa, che avvengono perché il magnate del capitale preferisce (potendoselo permettere, al contrario del piccolo borghese) licenziare una grande massa di lavoratori piuttosto che pagargli gli stipendi con del denaro che potrebbero arricchire ulteriormente il suo già grasso capitale. Dato questo fattore, è l’operaio ad essere maggiormente esposto a tale criminale regime. Questo perché il detentore del potere decisionale, il capitalista, non esita a diminuire la quota di salario dell’operaio in favore della sua quota di plusvalore. Questa tendenza nel capitalismo odierno, divenuto monopolistico, va ovviamente esacerbandosi, Vladimir Lenin scrisse a tal proposito    

«La concorrenza si trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. In particolare si socializza il processo dei miglioramenti e delle invenzioni tecniche. Ciò è già qualche cosa di ben diverso dall’antica libera concorrenza tra imprenditori dispersi e sconosciuti l’uno all’altro, che producevano per lo smercio su mercati ignoti. La concentrazione ha fatto progressi tali, che ormai si può fare un calcolo approssimativo di quasi tutte le fonti di materie prime (per esempio i minerali di ferro) di un dato paese, anzi, come vedremo, di una serie di paesi e perfino di tutto il mondo. E non solo si procede a un tale calcolo, ma le miniere, i territori produttori vengono accaparrati da colossali consorzi monopolistici. Si calcola approssimativamente la capacità del mercato che viene “ripartito” tra i consorzi in base ad accordi. Si monopolizza la mano d’opera qualificata, si accaparrano i migliori tecnici, si mettono le mani sui mezzi di comunicazione e di trasporto: le ferrovie in America, le società di navigazione in America e in Europa. Il capitalismo, nel suo stadio imperialistico, conduce decisamente alla più universale socializzazione della produzione; trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa.» 

(Vladimir Il’ič Ul’janov “Lenin”, Imperialismo. Fase suprema del capitalismo, Edizioni Progress, Mosca 1983, pag. 25 Ed. Ing.) 

Veniamo alla terza contestazione che viene posta dai ragazzi di Istituto Liberale, circa il mercato dei mezzi di produzione. Costoro sostengono che «se i mezzi di produzione sono di tutti o sono di proprietà statale vuol dire che non c’è un vero e proprio mercato dei mezzi di produzione perché non c’è un qualcuno disposto ad acquistarli, ciò significa che chi li produce non sa come produrli, quanti produrne, come migliorarli, non sa esattamente quale sia la domanda e non sa come adeguare l’offerta». Tuttavia questo problema fu già ampiamente discusso da K. Ostrovitianov, D. Shepilov, L. Leontiev, I. Laptev, I. Kuzminov, L. Gatovski nel celebre “Manuale di Economia Politica” presso l’Accademia delle scienze dell’URSS e dal Presidente Eterno Kim Il Sung nel suo discorso del 1° Marzo 1969 “Su alcuni problemi teorici dell’economia socialista”. Vediamo queste due risposte alla questione posta. Leggiamo nel manuale che 

«I mezzi di produzione prodotti nel settore statale —macchinari, utensili, metallo, carbone, petrolio, ecc. —sono essenzialmente ripartiti tra imprese statali. Nei piani economici nazionali è prevista l’assegnazione di determinati fondi materiali a ogni impresa conformemente al suo programma produttivo. Dalle imprese produttrici questi fondi sono messi a disposizione delle imprese consumatrici sulla base di accordi tra loro conclusi. Nel passaggio dei mezzi di produzione a questa o quella impresa, lo Stato socialista, interamente e a pieno titolo, ne conserva l’intera proprietà. I dirigenti d’impresa, che dallo Stato socialista hanno ricevuto i mezzi di produzione, non si trasformano affatto in proprietari, ma sono delegati dallo Stato ad utilizzarli secondo i piani da esso stabiliti. [..] Per altro verso, i mezzi di produzione prodotti dalle imprese statali e ripartiti all’interno del settore statale non sono, in sostanza, delle merci» (Opera citata, seconda edizione pag 411)

Inoltre si dice che «I mezzi di produzione acquistati dalle cooperative di produzione, dai colcos e dai colcosiani – automobili, attrezzature per l’economia sociale del colcos, cemento, ferro, laterizi, carbone, legnami, macchine agricole semplici e materiali diversi – sono merci. I mezzi di produzione venduti a Stati esteri sono esattamente delle merci. In questi casi ha luogo una compravendita, con relativa sostituzione dei proprietari delle merci. […] Ma dato che gli oggetti di consumo, le materie prime agricole e una parte dei mezzi di produzione sono merci, e dato che l’economia socialista rappresenta un unico insieme in cui tutte le parti sono legate tra loro, anche i mezzi di produzione circolanti all’interno del settore statale conservano la forma di merce» (Ibidem).

Il Presidente Eterno Kim Il Sung invece sul tema disse che la legge del valore (che nel corso del video sarà poi oggetto di critica dai liberali) opera in diverse circostanze 

«In primo luogo, quando i mezzi di produzione fabbricati in imprese di proprietà statale passano a imprese di proprietà cooperativa, o viceversa, quando i mezzi di produzione fabbricati in imprese di proprietà cooperativa passano a imprese di proprietà statale, esse sono merci e dunque rispetto ad esse agisce la legge del valore. In secondo luogo, i mezzi di produzione che vengono scambiati nel quadro della proprietà cooperativa, cioè tra imprese cooperative, oppure tra le imprese cooperative e le cooperative di produzione, sono merci e anche in questo caso su di esse agisce la legge del valore. In terzo luogo, i mezzi di produzione sono delle merci quando vengono esportati all’estero, e questa transazione sui mezzi di produzione avviene ai prezzi del mercato internazionale o del mercato socialista. Ad esempio, le macchine utensili che il nostro paese venderà a paesi come l’Indonesia o la Cambogia, quando questi lo richiederanno, saranno delle merci, per le quali dovrà essere pagato un prezzo adeguato. Allo stesso modo, se nel nostro paese si realizzerà una confederazione tra Nord e Sud, secondo le proposte del nostro partito per la riunificazione della patria, confederazione che oggi ancora non esiste, e se gli uomini d’affari sudcoreani ci richiederanno delle macchine e le attrezzature che verranno vendute saranno delle merci, e naturalmente su di esse agirà la legge del valore» (Kim Il Sung, Opere, vol. 23, Casa Editrice in Lingue Estere, Pyongyang 1985, pag. 391 ed. ing.)

Quindi il ragionamento dei ragazzi di IstLib e di Sir Ludwing Von Mises parte da una premessa errata, ovvero che non ci sia un mercato dei mezzi di produzione e che in una società socialista esista unicamente la proprietà statale socialista dei mezzi di produzione. 

Come già preannunciato l’altra critica posta dai ragazzi di Istituto Liberale riguarda il valore, che sarebbe soggettivo a loro dire. Il problema sta in primo luogo nel fatto che non si faccia differenza tra la dimensione quantitativa del valore della merce e la sua dimensione qualitativa, ma l’avversione dei liberali ad un qualsivoglia tipo di ragionamento dialettico non è certo una novità, ed in secondo luogo nel fatto che si pongano prezzo e valore come sinonimi, quando chiunque abbia una conoscenza minima non del marxismo o di una qualsivoglia altra ideologia, bensì unicamente dei principi economici di base, sa perfettamente che non vi è identità ontologica tra prezzo e valore, sia marxianamente che secondo la classica concezione dell’economia politica di Adam Smith. Strano un errore così grossolano per chi si beffa delle idee altrui insinuando che “se i socialisti capissero l’economia non sarebbero socialisti”. Ponendo queste antitesi alla teoria marxiana del valore dimostrano unicamente non solo di non aver letto una singola riga scritta da Marx, bensì di averlo “studiato” forse da Wikipedia o da qualche libro di filosofia del liceo, e soprattutto non di non aver neanche capito quel poco che hanno letto: si tratta infatti di accuse che respingevano arditamente all’inizio del video ma che li rispecchiano pienamente. Tutto ciò perché banalmente Marx già in “Salario, Prezzo e Profitto” risponde a queste critiche, ben prima che gli economisti borghesi le ponessero! Infatti in quest’opera Marx scrive 

«La prima domanda che dobbiamo porci è la seguente: – Che cos’è il valore di una merce? Come viene esso determinato? A prima vista parrebbe che il valore di una merce sia una cosa del tutto relativa, e che non si può fissarlo senza considerare una merce nei suoi rapporti con tutte le altre merci. In realtà, quando parliamo del valore, del valore di scambio di una merce, intendiamo le quantità relative nelle quali essa può venire scambiata con tutte le altre merci. Ma allora sorge la questione: come sono regolati i rapporti secondo i quali le merci vengono scambiate tra di loro? […] Quale è la sostanza sociale comune a tutte le merci? E’ il lavoro. Per produrre una merce bisogna impiegarvi o incorporarvi una quantità determinata di lavoro, e non dico soltanto di lavoro, ma di lavoro sociale. L’uomo che produce un oggetto per il suo proprio uso immediato, per consumarlo egli stesso, produce un prodotto, ma non una merce. Come produttore che provvede a se stesso, egli non ha niente che fare con la società. Ma per produrre una merce egli non deve soltanto produrre un articolo che soddisfi un qualsiasi bisogno sociale, ma il suo lavoro stesso deve essere una parte della somma totale di lavoro impiegato dalla società. Esso deve essere subordinato alla divisione del lavoro nel seno della società. Esso non è niente senza gli altri settori del lavoro e li deve, a sua volta, integrare.» (Opere Scelte Marx-Engels, Edizioni Progress, Mosca 1986, pp. 200-202)

Poi afferma anche che

«Commettereste un grave errore se affermaste che il valore del lavoro o di qualsiasi altra merce è determinato, in ultima analisi, dall’offerta e dalla domanda. La domanda e l’offerta non regolano altro che le oscillazioni temporanee dei prezzi sul mercato. Esse vi spiegheranno perché il prezzo di mercato di una merce sale al di sopra o cade al di sotto del suo valore, ma non vi possono mai spiegare questo valore. Supponiamo che la domanda e l’offerta si facciano equilibrio o, come dicono gli economisti, si coprano reciprocamente. Nel momento stesso in cui queste forze contrapposte sono ugualmente forti, esse si elidono reciprocamente e cessano di agire in una direzione o nell’altra. Nel momento in cui domanda e offerta si fanno equilibrio e perciò cessano di agire, il prezzo di mercato di una merce coincide con il suo valore reale, con il prezzo normale, attorno al quale oscillano i suoi prezzi di mercato. Se indaghiamo la natura di questo valore, non abbiamo niente a che fare con gli effetti temporanei della domanda e dell’offerta sui prezzi di mercato. Lo stesso vale per i salari e per i prezzi di tutte le altre merci.» (Ibidem, pag 198)

Spesso inoltre quando si parla della teoria del valore si dice che, se effettivamente fosse vera, anche una merce che necessita molto tempo per la sua realizzazione, indipendentemente dalla qualità, avrebbe un valore alto, ma Marx risponde anche a questo, dicendo che «Potrebbe sembrare che, se il valore di una merce viene determinato dalla quantità di lavoro impiegata per la produzione di essa, ne derivi che, quanto più un operaio è pigro e maldestro, tanto maggior valore abbiano le merci da lui prodotte, dato che il tempo di lavoro necessario per la produzione di esse è in tal caso più lungo. Questo sarebbe però un ben triste malinteso. Ricorderete che ho usato l’espressione “lavoro sociale”, e questo qualificativo “sociale” contiene molte cose. Quando diciamo che il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro in essa incorporata o cristallizzata, intendiamo la quantità di lavoro necessaria per la sua produzione in un determinato stato sociale, in determinate condizioni sociali medie di produzione, con una determinata intensità media sociale e una determinata abilità media del lavoro impiegato.» (Ibidem 203-204)

Veniamo in ultima istanza alla presunta contraddizione presente nel terzo libro de “Il Capitale”, la critica di Von Bohm Bawerk altro non è che una volgare copia della critica posta dal signor Loria alla quale, anche in questo caso, Engels rispose nelle “Considerazioni supplementari al terzo volume de Il Capitale” Marx nel III libro scrive «Tutta la difficoltà consiste nel fatto che le merci non vengono scambiate semplicemente come merci, ma come prodotti di capitali, che in proporzione alla loro grandezza, o parità di grandezza, pretendono una uguale partecipazione alla massa complessiva del plusvalore» (Op. cit. p. 200). Engels fa un esempio che personalmente reputo eccellente per spiegare questo passo, Engels per spiegare il passo ipotizza che se i lavoratori fossero in possesso dei mezzi di produzione e lavorassero con una stessa intensità e con degli stessi tempi di lavoro, e si scambiassero i prodotti tra di loro, avrebbero aggiunto alla merce un valore ex novo dato dal tempo di lavoro socialmente necessario per la produzione, ciononostante le merci avrebbero comunque un valore diverso poiché si deve considerare il lavoro già cristallizzato nei mezzi di produzione. Quest’ultima parte cristallizzata costituirebbe in un regime capitalistico in capitale costante, mentre la parte creata ex novo il capitale variabile, la parte restante ovviamente il plusvalore. Così entrambi gli operai riceverebbero detratta la reintegrazione della parte «costante» del valore, da loro solo anticipata, eguali valori, ma per ciascuno di essi sarebbe diverso il rapporto fra la parte che rappresenta il plusvalore e il valore dei mezzi di produzione (rapporto che corrisponderebbe al capitalistico saggio di profitto). Ma, poiché ognuno di essi recupera nello scambio il valore dei mezzi di produzione, tale circostanza sarebbe affatto trascurabile. Riporta poi una frase dello stesso Marx, il quale scrive «Lo scambio delle merci ai loro valori, o approssimativamente ai loro valori, richiede dunque un grado di sviluppo assai inferiore che non lo scambio ai prezzi di produzione, per il quale è necessario un determinato livello di sviluppo capitalistico… Anche astraendo dall’azione decisiva della legge del valore sui prezzi e sul movimento dei prezzi, è dunque conforme alla realtà considerare i valori delle merci non solo da un punto di vista teorico, ma anche storico, come il prius dei prezzi di produzione. Quanto si afferma trova riscontro in situazioni nelle quali il lavoratore è proprietario dei mezzi di produzione, e precisamente nel mondo antico come in quello moderno, presso il contadino che possiede la terra che lui stesso lavora, o presso l’artigiano. E si accorda anche con l’opinione da noi precedentemente espressa, che i prodotti si trasformano in merci quando lo scambio non è limitato ai membri di una stessa comunità, ma avviene fra comunità diverse. E ciò che trova applicazione in questi stadi primitivi, trova ugualmente applicazione in stadi posteriori, i quali sono fondati sulla schiavitù e sulla servitù della gleba, come pure nell’organizzazione corporativa degli artigiani, fintanto che i mezzi di produzione investiti in ogni ramo produttivo solo con difficoltà sono trasferibili da una sfera all’altra e perciò le diverse sfere di produzione si trovano, entro certi limiti, l’una rispetto all’altra, nella stessa situazione di paesi stranieri o di collettività comuniste» (Karl Marx, Il Capitale, Libro III p. 202 sgg.). Scrive dopo che «qualora Marx avesse potuto elaborare ulteriormente il terzo Libro, egli avrebbe, senza dubbio, dato a questo passo uno sviluppo molto più ampio. Così come è redatto, rappresenta solo un abbozzo di ciò che vi è da dire sulla questione.» Ed in seguito approfondisce ulteriormente ponendo un’analisi storiografica sulla determinazione del valore nei vari ordinamenti sociali e conclude dicendo che «Tutta la produzione delle merci si è dunque sviluppata partendo da questa determinazione di valore per mezzo del tempo di lavoro, e con essa le molteplici relazioni secondo cui si affermano i diversi aspetti della legge del valore, come si trovano esposti nella prima sezione del primo Libro del Capitale: vale a dire le condizioni per le quali solo il lavoro è produttore di valore. E precisamente, sono queste delle condizioni che si formano senza che coloro che vi partecipano ne abbiano coscienza e che possono essere astratte dalla pratica quotidiana solo mediante una ricerca teorica difficile; che agiscono quindi come le leggi naturali, il che, secondo quanto Marx ha dimostrato, è una necessaria conseguenza della natura della produzione di merci. Il progresso più importante e più radicale si ebbe con il passaggio alla moneta metallica, la cui conseguenza fu tuttavia da allora in poi che la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro non apparve più visibilmente alla superficie dello scambio delle merci. Il denaro divenne praticamente la misura decisiva del valore e in grado tanto maggiore quanto più le merci messe nel commercio si moltiplicarono, furono importate da paesi più lontani, cosicché meno facile divenne il controllo del tempo di lavoro necessario per la loro fabbricazione. Il denaro stesso venne per lo più all’inizio da paesi stranieri ed anche quando il metallo prezioso fu prodotto nel paese, da un lato il contadino e l’artigiano non potevano calcolare nemmeno approssimativamente il lavoro che esso rappresentava, d’altro lato la coscienza della proprietà che ha il lavoro di essere misura del valore era già abbastanza oscurata presso di loro per l’abitudine di calcolare con il denaro; il denaro cominciò a rappresentare nella concezione popolare il valore assoluto. In una parola, la legge del valore di Marx ha validità generale, nella misura in cui la possono avere le leggi economiche, per tutto il periodo della produzione semplice delle merci, quindi fino al momento in cui questa subisce una trasformazione con l’apparizione della forma capitalistica di produzione. Fino a questo periodo i prezzi gravitano attorno ai valori determinati secondo la legge di Marx, ed oscillano attorno a questi valori, cosicché quanto più la produzione semplice delle merci si sviluppa, più i prezzi medi di lunghi periodi non interrotti da violente perturbazioni esterne coincidono, con scarti trascurabili, con i valori. La legge del valore di Marx ha dunque una validità economica generale per un periodo di tempo che va dall’inizio dello scambio che trasforma i prodotti in merce, fino al XV sec. della nostra era. Ma lo scambio delle merci risale ad un’epoca anteriore a qualsiasi storia scritta, che rimonta in Egitto ad almeno 3500, forse 5000 anni, in Babilonia a 4000 forse 6000 anni prima della nostra era: la legge del valore ha dunque regnato per un periodo che va da 5 a 7 mila anni. Non ci resta quindi che ammirare la profondità del signor Loria, che chiama il valore che si afferma direttamente ed universalmente durante questo periodo, un valore al quale le merci non sono mai vendute o non possono esserlo, e di cui un economista, che abbia un briciolo di buon senso, non può occuparsi!»