Il ruolo storico del proletariato

6 IL RUOLO STORICO DEL PROLETARIATO pascaleQuello che segue è il capitolo 15.8 con cui si conclude l’opera A. Pascale, Il totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2018, pp. 464-468

di Alessandro Pascale

«Di poveri ce n’è di due specie, quelli che sono poveri tutti insieme e quelli che lo sono da soli. I primi sono quelli veri, gli altri sono ricchi scalognati». (Jean-Paul Sartre, da 
Il diavolo e il buon Dio, 1951)[1]


Massimo Recalcati ha scritto che «le forme contemporanee dei totalitarismi postideologici, o, se si preferisce, la tendenza totalitaria immanente ai regimi liberal-democratici nell’epoca dell’affermazione incontrastata del discorso del capitalista, si manifestano a partire da una spinta alla riduzione disincantata di ogni Ideologia»[2]. Il trionfo del Capitale è insomma in legame dialettico non solo con i rapporti di forza schiacciati ad esclusivo vantaggio della borghesia, ma anche nella capacità di mantenere come paradigma ideologico dominante l’ideologia che nega anche se stessa, ossia il «pensiero debole» che rifiuta le narrazioni totalizzanti ed omniesplicative. 

Eppure questo discorso, che rischia di essere astratto, se inserito nel contesto di scontro di classe dalle proporzioni mondiali, porta alla consapevolezza che la Storia non è finita e che la possibilità di sconfiggere il Totalitarismo “liberale” esista, grazie agli stessi strumenti tecnologici usati dalla borghesia. Ancora una volta le armi che sono servite alla borghesia nella lotta contro il proletariato si rivolgono contro la borghesia stessa. Dove non riusciranno le condizioni soggettive saranno comunque sempre le condizioni oggettive a mantenere accesa la scintilla della lotta per una vera libertà. Lo spiegano meglio di ogni altro coloro che diedero il maggiore contributo alla lotta per l’emancipazione dell’Umanità, Karl Marx e Friedrich Engels: 

«La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a mantenere in essere se stessa e con ciò il suo termine antitetico, il proletariato. Questo è il lato positivo dell’antitesi; la proprietà privata che ha in sé il suo appagamento. Invece il proletariato, come proletariato, è costretto a negare se stesso e con ciò il termine antitetico che lo condiziona e lo fa proletariato, e cioè la proprietà privata [dei mezzi di produzione, ndr] dissolta e dissolventesi. La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoestraniazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa autoestraniazione, sa che la estraniazione è la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di una esistenza umana; la seconda si sente annientata nell’estraniazione, vede in essa la sua impotenza e la realtà di una esistenza non umana. Essa, per usare un’espressione di Hegel, è nell’abiezione la ribellione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita e che è la negazione aperta, decisa, assoluta di questa natura. In seno all’antitesi, dunque, il proprietario privato è il partito della conservazione, ed il proletario il partito della distruzione. Il primo lavora alla conservazione dell’antitesi, il secondo alla sua distruzione. 

È vero che la proprietà privata nel suo movimento economico va essa stessa verso la propria dissoluzione, ma solo mediante uno sviluppo indipendente da essa, inconsapevole, che ha luogo contro la sua volontà ed è condizionato dalla natura della cosa, e solo perché essa produce il proletariato come proletariato, la miseria consapevole della sua miseria intellettuale e fisica, la disumanizzazione consapevole di essere disumanizzazione e che perciò sopprime se stessa. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata infligge a se stessa producendo il proletariato, così come esegue la condanna che il lavoro salariato infligge a se stesso producendo l’altrui ricchezza e la propria miseria. Se il proletariato vince, esso non perciò diventa il termine assoluto della società; infatti esso vince solo superando se stesso ed il suo opposto. Allora scompare tanto il proletariato quanto l’antitesi che lo condiziona, e cioè la proprietà privata.

Se gli scrittori socialisti attribuiscono al proletariato questa funzione di significato storico-mondiale, ciò non accade affatto […] perché essi considerano i proletari come degli dèi. Ma, al contrario, perché nel proletariato pienamente sviluppato è fatta astrazione da ogni umanità, perfino dalla parvenza di umanità; perché nelle condizioni di vita del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita dell’odierna società, nella loro forma più inumana; perché l’uomo nel proletariato ha perduto se stesso, ma, contemporaneamente, non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita, bensì è stato spinto direttamente dalla necessità ormai incombente, ineluttabile, assolutamente imperiosa – dall’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità; ecco per quali ragioni il proletariato può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi senza sopprimere le proprie condizioni di vita. Esso non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella sua situazione. Esso non si frequenta invano la dura, ma temprante scuola del lavoro. Non si tratta di sapere che cosa questo o quel proletario, o anche il proletariato tutto intero, si propone temporaneamente come mèta. Si tratta di sapere che cosa esso è e che cosa esso sarà storicamente costretto a fare in conformità con questo suo essere. La sua mèta e la sua azione storica sono tracciate in modo sensibile e irrevocabile nella situazione della sua vita, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese».

Questo passo si conclude ricordando come all’epoca «una gran parte del proletariato inglese e francese» fosse «già consapevole del suo compito storico», lavorando «costantemente a portare questa coscienza alla più completa chiarezza»[3]. Oggi chiaramente non viviamo in questa situazione ma in una precedente, in cui il modello ideologico dominante è quello con cui si arriva a colpire preventivamente di autoritarismo chi riafferma l’istanza di una verità unica,facendo dell’agnosticismo il modus mentale esclusivo: scrivono gli accademici francesi Jean-Pierre Deconchy e Vincent Dru che «il soggetto “autoritario” è quello che crede alla “Causa”, sia essa rappresentata da un’idea, da una convinzione, da una Chiesa o da un partito; in ogni caso essa è unica e tale da escludere tutte le altre. Una fonte evidente di intolleranza autoritaria»[4].

I primi studi psicanalitici sull’autoritarismo erano caratterizzati dall’esclusiva associazione a comportamenti tendenzialmente fascisti, e quindi “di destra”; solo dagli anni ’50 anche in questo campo è iniziata una controffensiva ideologica con cui si è iniziato a parlare di “autoritarismo di sinistra”, secondo le consuete logiche della “Guerra Fredda”[5]. Di qui la denuncia dei «dogmatismi» e delle «ortodossie» non solo religiose, tese ad alienare ulteriormente il popolo, bensì anche quelle socialiste, che cancellerebbero lo spirito critico individuale invece di rafforzarlo[6].

Tutte queste accuse partono da presupposti errati, incomprensioni profonde, probabili volute distorsioni del pensiero marxista, che fonda la questione della “critica” al suo principio fondativo, senza per questo rinunciare all’affermazione di una Verità empirica e storica che funga da guida per il presente. Eliminare una teoria di riferimento, eliminare l’acquisizione completa della concezione marxista della storia e della filosofia, eliminare il materialismo storico e dialettico come strumenti analitici necessari nella nostra epoca, significa solo condannare l’essere umano sfruttato alla subalternità mentale verso la filosofia della classe dominante, che si avvale da secoli per questo di molteplici servi, più o meno mascherati, della scuola “idealista” tesa a perpetuare l’ordinamento esistente.

Occorre ribadire che il modo migliore per riportare questa consapevolezza nella maggioranza del proletariato non può svolgersi all’infuori dell’azione politica esercitata dalla sua avanguardia più cosciente, la quale ha il compito storico di impegnarsi per guidare questa lotta. Ma di questo tema e delle problematiche ad esso concernenti, ci occuperemo nei prossimi volumi. Si può per ora solo dire che molto è stato già scritto; si tratta solo di tornare a leggerlo sfidando i pregiudizi. Sarà la forza della ragione a convincere i più recalcitranti e laddove non arriverà la persuasione conterà il peso politico delle masse finalmente coscienti. Mentre il presente volume è stato dedicato all’epoca contemporanea i prossimi volumi saranno dedicati a dimostrarne e approfondirne le affermazioni, affrontando la Storia e la Filosofia di questo ultimo secolo. Ricordano ancora Marx ed Engels: 

«è compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, di ristabilire la verità dell’al di qua. È innanzi tutto compito della filosofia, operante al servizio della storia, di smascherare l’autoalienazione dell’uomo nelle sue forme profane, dopo che la forma sacra dell’autoalienazione umana è stata scoperta»[7].

Si tratta quindi di riscoprire le lezioni della Storia e di ripartire dal punto giusto. Sono fermamente convinto, non per impulso idealista, ma per gli insegnamenti che offre il passato, che i popoli non saranno mai completamente asserviti, e che lo spirito di rivolta, premessa necessaria della Rivoluzione, continuerà a riproporsi fino a quando non saranno realmente abolite le classi sociali, cosa che potrà avvenire solo con la vittoria definitiva del comunismo, sola vera società in grado di garantire una civiltà veramente umanista e liberale, offrendo a tutti cioè di poter essere messi in condizione di realizzare sé stessi, ricercando la propria felicità senza dover essere oppressi quotidianamente da una qualche forma di schiavitù o bisogno materiale. A duecento anni dalla nascita di Karl Marx, sarà opportuno ricordare le seguenti sue parole, scritte assieme ad Engels, in quello che è stato il libro più importante ed influente dell’età contemporanea, conservando tuttora la sua piena attualità, soprattutto nelle conclusioni: 

«i comunisti appoggiano ovunque ogni movimento rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti. In tutti questi movimenti essi mettono in risalto, come questione fondamentale del movimento, la questione della proprietà, più o meno sviluppata che sia la forma da essa raggiunta. I comunisti, infine, lavorano ovunque all’unione e all’intesa dei partiti democratici di tutti i Paesi. I comunisti disdegnano di nascondere le loro opinioni e intenzioni. Essi dichiarano apertamente che i loro obiettivi possono essere raggiunti soltanto con il rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Tremino pure le classi dominanti davanti a una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdervi fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare. 

Proletari di tutti i Paesi unitevi!»[8].

Note:

K. Marx & F. Engels, La sacra famiglia. Ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e consorti, 1845, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere scelte, cit., pp. 165-166.

J. P. Deconchy & V. Dru, L’autoritarismo, Il Mulino, Bologna 2011, p. 76.

Ivi, pp. 31-33.

Ivi, pp. 53-55.

K. Marx & F. Engels, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, 1843, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere scelte, cit., p. 58.

K. Marx & F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 57.

J. P. Sartre, Il diavolo e il buon Dio (traduzione a cura di G. Debenedetti), Il Dramma, n. 316, gennaio 1963. 

M. Recalcati, Introduzione. Totalitarismo postideologico, all’interno di M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, cit., p. 7.