Collettivismo, individualismo ed effetto di sdoppiamento: “L’ascesa dell’individualismo economico”

ferrari ascesadellindividualismoeconomicoPubblichiamo un’interessante discussione fra il professore Luigi Ferrari, Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli sulla teoria dell’effetto di sdoppiamento e sull’individualismo/collettivismo

da facebook.com

Con il suo libro, intitolato “L’ascesa dell’individualismo economico”, Luigi Ferrari ha elaborato un testo potente ed efficace, colmo di innumerevoli riferimenti fattuali e bibliografici, oltre che introdotto dalla brillante prefazione di Giorgio Galli, con un’analisi autonoma e originale che tra l’altro risulta perfettamente compatibile con la teoria dell’effetto di sdoppiamento, costituendone a nostro avviso una sua traduzione concreta sul piano delle ideologie e della mentalità collettiva, durante il periodo che parte dalla fine del Quattrocento per arrivare ai nostri giorni.

L’asse centrale dell’opera di Ferrari, rispetto ai cinque secoli presi in esame, consiste nella tesi per cui si è assistito nel corso degli ultimi cinque secoli a una continua coesistenza dialettica, a una particolare combinazione di unità e lotta tra la tendenza individualistico-economica e la controtendenza collettiva (“collettivismo”, secondo la terminologia utilizzata dall’autore) sul piano della psicologia di gruppo, della mentalità e della visione del mondo sociale adottata mano a mano dalle diverse classi e frazioni di classe, dai diversi gruppi sociali lungo il periodo in esame.

La tendenza individualistico-economica è sorta, a giudizio dell’autore, all’inizio del Sedicesimo secolo, mediante e attraverso quello che viene efficacemente definito come “l’urlante peccato dell’Inghilterra”: ossia il primo plurisecolare e gigantesco processo di privatizzazione e di esproprio delle enormi terre pubbliche (boschi, pascoli, stagni comunali, poderi collettivi, ecc.) avviato a partire dal 1480 dall’arida borghesia britannica ai danni dei comuni rurali e dei piccoli contadini del paese in esame.

Il nucleo di questa tendenza, divenuta via via sempre più egemone nel mondo occidentale, consiste ovviamente nel primato assoluto, attribuito all’individuo singolo (e alla sua proprietà, alla sua “roba”) rispetto a qualunque organizzazione collettiva, a qualsivoglia vincolo e obbligo verso la collettività e altri gruppi organizzati, oltre che nel presunto antagonismo irriducibile di ciascun uomo con i suoi simili.

Luigi Ferrari produce ed espone una lunga e splendida caratterizzazione degli ideologi e dei teorici principali: questa particolare tendenza sociopolitica, partendo da Grozio e Hobbes (con il suo “Homo nomini lupus”) e passando via via per grandi romanzieri borghesi come D. Defoe (con il suo Robinson) e all’“egoismo puntellato di benevolenza” di Adam Smith e di Mandeville, fino ad arrivare al superegoismo di autori purtroppo divenuti celebri nel mondo occidentale quali Ayn Rand, secondo la quale “il capitalismo e l’altruismo sono incompatibili, essi non possono coesistere nella stessa persona e nella stessa società” (L. Ferrari, op. cit., p. 383).

L’antagonista principale della tendenza individualistica, divenuta sempre più centrale e opprimente nel corso degli ultimi tre decenni, viene individuata da Ferrari nella controtendenza collettiva (collettivistica) che segna e attraversa a giudizio dell’autore tutte le classi e i gruppi sociali del mondo moderno e contemporaneo, qualsiasi importante gruppo e cultura durante gli ultimi secoli.

Il cardine della “tendenza collettivistica” e dei “soggetti allocentrici” risulta la centralità attribuita ai destini e interessi da un gruppo più o meno ampio, che può essere vanamente individuato nella famiglia o in una “comunità di pari” (amici, membri dello stesso villaggio o città, ecc.), oppure in una classe o in un partito, o nella patria/nazione, dimostrando “lealtà organizzativa profonda” ed empatia costante con le sorti e i bisogni del collettivo più o meno ristretto, più o meno esteso, di appartenenza e di riferimento.

Le origini e la genesi della “tendenza collettivistica” vengono fatti risalire dall’autore al medioevo e alle società protofeudali–feudali, con i “legami reciproci” e di “dipendenza reciproca” tra le diverse classi sociali, tanto che a giudizio di Ferrari in quella lunga fase storica (600-1050 a.C.) “nessuno allora era libero secondo i nostri canoni, sebbene vi fossero ovunque grandi dislivelli di potere” (op. cit., p. 116).

Siamo in presenza di una categoria storico-teorica molto importante, oltre che supportata da una montagna di fatti storici: tanto rilevante e pregnante che risulta scusabile anche la principale sua carenza e debolezza, ossia non aver subito evidenziato la distinzione essenziale e la differenza fondamentale tra la “tendenza collettiva” dei padroni delle condizioni della produzione e quella invece espressa dagli esclusi di tali forme di proprietà, ossia degli oppressi e degli sfruttati.

E cioè, in altri termini, non aver effettuato una precisa linea di divisione tra “spirito di gruppo” delle classi privilegiate e degli sfruttatori, feudali o capitalistici, e “spirito di gruppo” invece via via espresso dalle classi oppresse (servi della gleba, operai e salariati nel modo di produzione capitalistico) e dai produttori diretti delle diverse società classiste; una precisa linea di distinzione tra la solidarietà collettiva mostrata via via dalle classi sfruttatrici (a partire dai solidalissimi schiavisti spartani, ad esempio) e quelle invece praticate e attuate dalle classi sfruttate (come ad esempio nel caso dei combattenti iloti-schiavi di Sparta, non a caso temuti costantemente dai loro spietati padroni).

In ogni caso l’opus magnum di Ferrari si rileva importante e molto positiva anche perché focalizza con estrema efficacia l’attenzione sul “comunismo medioevale”: ossia su quell’indiscutibile dominio collettivo sulle risorse naturali che costituì un elemento importante delle comunità rurali e di villaggio durante il lungo periodo feudale, così come (in forma parzialmente diverse) avvenne nei villaggi del modo di produzione asiatico, come nel caso degli ayllu andini.

A pagina 90 del libro in oggetto viene ad esempio acutamente rilevato che “l’altro basilare e antico soggetto medioevale di controllo fondiario, incompatibile con ogni definizione individualista dell’io “proprietario”, era la comunità del villaggio che regolava le colture di ciascuna famiglia e garantiva a tutti gli abitanti del territorio, soprattutto ai più deboli, il libero e collettivo utilizzo dei boschi (diritto di legnatico), delle acque, degli stagni comunali (cioè non appartenenti a singoli), dei pascoli e dei poderi comuni. Vedremo meglio poi questa particolare materia. Per ora, precisiamo che queste garanzie per i più deboli riguardavano anche le città, con le loro complesse reti di protezioni sociali che emergevano dal forte contenuto relazionale e personale del rapporto di appartenenza (Bloch 1933), per cui il mero abitare nelle città si configurava come un vero e proprio «fatto sociale totale» (Barbot 2007) – tutt’altra cosa dal nostro welfare basato sull’astrattezza e generalità moderne dei diritti di cittadinanza.

Dal complesso di queste considerazioni sintetizziamo una fondamentale peculiarità della “proprietà” medioevale. Nella mentalità medioevale non c’erano le nostre nette cesure nell’organizzazione dei rapporti politici, sociali e produttivi. Esisteva, invece, una sorta di continuità senza fratture e con un’interdipendenza tra il dominio politico, il dominio fondamentale sulle persone e quello sulle cose, con estese garanzie di utilizzo delle risorse naturali alla parte debole della popolazione, che ben poco avevano da spartire con le nostre relazioni familiari e di proprietà”.

Molti altri sono gli spunti interessanti (a volte non sempre condivisibili integralmente, come nei casi dell’analisi di Marx e della dinamica storica sovietica) che emergono in ogni caso dal gigantesco lavoro di Ferrari, all’interno di un libro di cui consigliamo la lettura anche per l’eleganza e la chiarezza dello stile espositivo.

Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli.

La risposta del professore Luigi Ferrari.

Grazie per la vostra bella recensione al mio lavoro.

Concordo con la piena compatibilità con l’effetto sdoppiamento, che, del resto, avevo segnalato nel nostro ultimo incontro.

Vi ringrazio anche per i rilievi critici sul giudizio circa il Medioevo: effettivamente il mio testo può suggerire letture ambigue, ma il motivo di questa impostazione sta nella necessità di una profonda revisione storica di quel periodo, che viene liquidato con troppa superficialità.

Vi ringrazio anche per la segnalazione delle vostre divergenze su Marx e sull’URSS. Avete giustamente evitato quelle recensioni stucchevoli e del tutto sterili che imperano.

Se abbiamo in comune la nostra ammirazione per Marx e per la sua dialettica, non abbiamo certo avversione al confronto o paure di esso. Il confronto è, anzi,  la vera garanzia di progresso intellettuale.

Senza di esso, il pensiero “soffoca” e insterilisce.

Vi segnalo, nella copia della recensione allegata, due refusi evidenziati in giallo.

Di nuovo grazie e, speriamo, a presto.

Luigi Ferrari

Caro Luigi, ti ringraziamo per la tua bella risposta, oltre che per i suggerimenti che ci hai fornito: avremo sicuramente occasione in futuro di sviluppare e arricchire la discussione teorico-storica sia sulle tue tesi che sull’effetto di sdoppiamento, nella loro interconnessione dialettica.

Cordiali saluti E a risentirci presto.

Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli