La “Questione nazionale” nel XXI secolo

mano falcedi Alessandro Pascale

«L’emancipazione della classe operaia deve essere l’opera della classe operaia stessa» (Karl Marx) [1]

Da quando esiste il socialismo scientifico i comunisti sanno che l’obiettivo primo della loro azione pratica deve essere la conquista del potere politico. Per giungere a tale obiettivo tutti gli autori fondamentali (da Marx a Gramsci, da Lenin a Mao, ecc.) concordano sul fatto che il partito comunista debba saper coniugare patriottismo ed internazionalismo.

Anche se è più nota l’affermazione che «gli operai non hanno patria», Marx ed Engels precisano nel Manifesto del Partito Comunista:

«ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale [nell’edizione inglese del 1888 si precisa “classe dirigente della nazione”, nota di Luciano Gruppi], costituirsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia». [2]

Inoltre «sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia». [3]

Non è un caso infatti, come sottolinea Domenico Losurdo nel suo monumentale La lotta di classe [4], che tutte le rivoluzioni socialiste siano nate dalla capacità di coniugare la salvezza della nazione in rovina con un programma radicale di trasformazioni sociali. E che già Marx ed Engels perseguissero «non solo la liberazione/emancipazione della classe oppressa (il proletariato), ma anche la liberazione/emancipazione delle nazioni oppresse» [5], ricordando l’appoggio che diedero alle oppressioni subite dai polacchi e dagli irlandesi. Il sostegno ai movimenti nazionali locali viene dato nonostante vi partecipino anche esponenti della nobiltà. Ciò perché «se il proletariato è il protagonista del processo di liberazione/emancipazione che spezza le catene del dominio capitalista, più largo è lo schieramento chiamato a infrangere le catene dell’oppressione nazionale» [6]; nel caso irlandese, Marx fa coincidere la “questione sociale” con la “questione nazionale” [7].

Anche Lenin già nel luglio 1916 comprendeva il nesso profondo esistente tra la due questioni, intuendone le possibili conseguenze rivoluzionarie:

«Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni di piccole nazioni nelle colonie e in Europa […] significa rinnegare la rivoluzione sociale […] Colui che si attende una rivoluzione sociale “pura”, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione». [8]

Quel che occorre secondo il grande rivoluzionario è non una posizione prestabilita ma la constante «analisi concreta della situazione concreta» [9], nella consapevolezza che talvolta i movimenti nazionali possano essere perfino etero-diretti dall’imperialismo. È infatti «possibile che il movimento repubblicano di un paese sia soltanto uno strumento degli intrighi clericali o finanziari, monarchici di altri paesi; allora non dovremo sostenere quel dato movimento concreto, ma sarebbe ridicolo cancellare per questa ragione dal programma della socialdemocrazia internazionale la parola d’ordine della repubblica». [10]

In un pezzo del 1914 di memorabile attualità, Lenin, spesso attaccato dai marxisti “ortodossi” per un utilizzo eccessivo dei termini «popolo» e «nazione» [11], polemizza così con Rosa Luxemburg:

«il proletariato […] riconoscendo l’uguaglianza di diritti e il diritto, eguale per tutte le nazioni, di costituire uno Stato nazionale, […] apprezza e pone al di sopra di tutto l’unione dei proletari di tutte le nazioni ed esamina ogni rivendicazione nazionale, ogni separazione nazionale dal punto di vista della lotta di classe degli operai. La parola d’ordine del praticismo è nella realtà la parola d’ordine dell’accettazione senza critica delle aspirazioni borghesi. Ci si dice: sostenendo il diritto alla separazione, voi rafforzate il nazionalismo borghese delle nazioni oppresse. Così dice Rosa Luxemburg; così ripete, dopo di lei, l’opportunista Semkovski […]. 

Noi rispondiamo: no, in questo caso una soluzione “pratica” è importante proprio per la borghesia, mentre per gli operai è importante precisare le due tendenze dal punto di vista dei principi. In quanto la borghesia della nazione oppressa lotta contro quella della nazione che opprime, noi siamo sempre, in tutti casi, più risolutamente di ogni altro, in favore di questa lotta, perchè noi siamo i nemici più implacabili, più coerenti dell’oppressione. In quanto la borghesia della nazione oppressa difende il proprio nazionalismo borghese, noi siamo contro di essa. Lotta contro i privilegi e le violenze della nazione che opprime; nessuna tolleranza per l’aspirazione della nazione oppressa a conquistare dei privilegi. Se noi non ponessimo la rivendicazione del diritto delle nazioni all’autodecisione, se non agitassimo questa parola d’ordine, aiuteremmo non solo la borghesia, ma anche i feudali e l’assolutismo della nazione che opprime. Da molto tempo Kautsky ha opposto questo argomento a Rosa Luxemburg, ed è un argomento incontestabile. Temendo di “aiutare” la borghesia nazionalista della Polonia, Rosa Luxemburg, negando il diritto alla separazione compreso nel programma dei marxisti russi, aiuta di fatto i cento neri grandi-russi. Di fatto, essa favorisce la riconciliazione opportunista con i privilegi (e con qualcosa di peggio dei privilegi) dei grandi russi. Trascinata dalla lotta contro il nazionalismo polacco, Rosa Luxemburg ha dimenticato il nazionalismo dei grandi russi, benché appunto questo nazionalismo sia, nel momento attuale, il più dannoso». [12]

Due anni dopo invece, in pieno conflitto bellico mondiale, caratterizzato da appelli alla «difesa della patria», Lenin si ergeva a denunciare il carattere imperialistico del conflitto, spiegando anche che «in una guerra effettivamente nazionale, le parole “difesa della patria” non sono affatto un inganno, e noi non siamo contrari a questa guerra». [13]

Insomma, come ha spiegato Domenico Losurdo,

«le sconfitte e le vittorie della rivoluzione mondiale cui fa appello l’Internazionale comunista non si possono comprendere senza il ruolo di volta in volta svolto dalla questione nazionale. Anzi, a ben guardare, la questione nazionale ha fatto sentire la sua presenza nella stessa rivoluzione d’ottobre, cioè nella rivoluzione pura scoppiata sull’onda della lotta contro lo sciovinismo e la retorica patriottarda, sull’onda della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Tra il febbraio e l’ottobre 1917 Stalin […] presentava la rivoluzione proletaria da lui auspicata come lo strumento necessario non solo per edificare un nuovo ordinamento sociale ma già per riaffermare l’indipendenza nazionale della Russia. […] Più tardi la controrivoluzione, scatenata dai Bianchi sostenuti o aizzati dall’Intesa, veniva sconfitta anche grazie all’appello dei bolscevichi (si distingueva in tal senso Karl B. Radek) al popolo russo a impegnarsi in una “lotta di liberazione nazionale contro l’invasione straniera” e contro potenze imperialiste decise a trasformare la Russia in una “colonia” dell’Occidente». [14]

Patriottismo però non vuol dire nazionalismo. I comunisti rifiutano ogni tipo di ideologia razzista e prevaricatrice che affermi la superiorità di un popolo su un altro. Questo è il motivo per cui il comunismo proletario internazionale ha appoggiato i popoli coloniali sfruttati nelle loro lotte contro l’imperialismo al fine di favorire la rovina definitiva del sistema imperialistico mondiale. Ne era ben cosciente Nelson Mandela quando assieme a Joe Slovo nel 1961 fondò l’Umkhonto we Sizwe (MK), l’ala militare dell’ANC, come strumento principale finalizzato a lanciare una rivoluzione comunista in Africa del sud. Un legame, quello di Mandela con il comunismo, durato tutta la vita in nome della lotta al regime imperialista e schiavista dell’apartheid, tant’è che dopo decenni di sostegno economico e militare sovietico all’ANC, Mandela, ricevendo il 3 luglio 1991 la delegazione sovietica, non potè che ringraziare l’URSS per il lungo e durevole sostegno dato. Solo dopo la sua morte si è scoperto quel che molti sapevano già nel cuore: Mandela era stato fin dall’inizio della propria militanza uno dei massimi dirigenti del partito comunista sudafricano [15]. Anche Mandela, come ogni proletario cosciente di ogni singolo Paese, conosceva la necessità di cancellare i rapporti di produzione capitalistici su scala globale, distruggendo alla radice ogni tipo di minaccia imperialistica. La grande industria, con il mercato globale, ha collegato tutti i popoli della terra, livellando lo sviluppo sociale nei Paesi civili in cui la lotta principale è quella tra borghesi e proletari. Per questo è fondamentale il tema dell’internazionalismo per il quale i proletari dei vari paesi hanno obiettivi comuni e quindi devono unirsi. Di qui il famoso appello finale del Manifesto: «proletari di tutti i paesi, unitevi!» [16] Secondo l’internazionalismo proletario i membri della classe operaia devono agire in solidarietà verso la rivoluzione globale ed in supporto ai lavoratori degli altri paesi. L’internazionalismo è anche un deterrente contro le guerre tra nazioni (tra stati borghesi), poiché non è nell’interesse dei proletari imbracciare le armi tra loro, mentre è più utile che lo facciano contro la borghesia che li opprime: con la solidarietà proletaria e l’instaurazione di rapporti fondati sulla mutua cooperazione e il reciproco sviluppo, si potrà arrivare alla fine dei conflitti fra nazioni e alla scomparsa delle stesse. La divisione del mondo in classi, nazioni e religioni è cioè un ostacolo allo sviluppo della civiltà umana. 

Al contrario del concetto di internazionalismo proletario, il cosmopolitismo indica l’internazionalismo della borghesia, cioè quel fenomeno legato alla mondializzazione dei mercati, che è ben lontana ovviamente dalla solidarietà tra i popoli, come spiegava negli “anni d’oro” Ernesto Mascitelli:

«nel linguaggio marxista viene solitamente preferito al termine cosmopolitismo quello di internazionalismo proletario, per sottolineare gli aspetti antinazionalisti della concezione marxista dei rapporti tra i popoli di diverse nazioni. intatti il significato di cosmopolitismo (dal greco κόσμος — mondo e πολίτης — cittadino), di derivazione illuministica, viene piuttosto riferito a un ideale di superamento delle nazionalità indipendentemente dalla valutazione delle condizioni politiche, economiche e, in generale, storiche che possono determinarlo, mentre l’accezione internazionalismo proletario meglio si adegua agli obiettivi storici generali della classe operaia e, in ultima istanza, al superamento dei confini nazionali dovuto all’estinzione delle classi e dello Stato». [17]

Nel 1848 Marx, in un celebre discorso sul “libero scambio”, afferma che «designare col nome di fraternità universale lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale, è un’idea che poteva avere origine solo in seno alla borghesia» [18], tradotto così nel 1894 da Filippo Turati: «solo alla borghesia può venir in mente di qualificare fratellanza lo sfruttamento cosmopolita dei lavoratori» [19]. Questa può essere un’ottima chiave di lettura ad esempio per l’analisi dell’Unione Europea, che non è certo un’unione di popoli, ma di capitali contro i popoli, velando l’oppressione con l’ideologia “dell’erasmus”. 

Secondo il Piccolo Dizionario Filosofico di marca sovietica il cosmopolitismo è una

«ideologia borghese reazionaria che predica l’indifferenza per gli interessi, le tradizioni e la cultura nazionali, l’abbandono della sovranità nazionale. Il cosmopolitismo dissimula il suo vero carattere dichiarando che l’universo è patria di ogni uomo. Ma in realtà il cosmopolitismo propagato dagli ideologi dell’imperialismo è un’arma dei monopoli nella loro lotta contro l’indipendenza nazionale dei popoli, uno strumento ideologico per asservire economicamente e politicamente i popoli liberi. Facendo propaganda a favore del cosmopolitismo, dell’idea di “governo mondiale”, gli imperialisti mirano ad assopire la vigilanza dei popoli, a coltivare l’ideologia del tradimento della patria. Il cosmopolitismo è l’ideologia della borghesia attuale che pone i suoi interessi al di sopra di tutto e che, per soddisfarli, è pronta a tradire la nazione.

Prima, diceva I. Stalin al XIX Congresso del partito, la borghesia era considerata la guida della nazione: essa difendeva i diritti e l’indipendenza della nazione e li poneva ‘al di sopra di tutto’. Ora non vi è più traccia del ‘principio nazionale’, oggi la borghesia vende i diritti e l’indipendenza della nazione per dollari. La bandiera della indipendenza nazionale e della sovranità nazionale è stata gettata a mare”. Il cosmopolitismo è una comoda maschera per la borghesia, sempre pronta a tradire gli interessi della nazione. Numerosi dirigenti dei socialisti di destra predicano anch’essi le idee del cosmopolitismo. Agli antipodi del cosmopolitismo borghese si colloca l’internazionalismo proletario che associa armonicamente gli interessi nazionali degli operai e di tutti i lavoratori, il loro patriottismo profondamente popolare e la solidarietà del proletariato mondiale in lotta contro il capitalismo, sorgente profonda dell’odio fra le nazioni. I partiti comunisti e operai, autentici difensori dell’indipendenza nazionale, della libertà dei popoli, levano alta la bandiera dell’indipendenza e della sovranità nazionali. Il cosmopolitismo è incompatibile con l’internazionalismo proletario, con il patriottismo sovietico. Pertanto il Partito comunista dell’Unione Sovietica combatte il cosmopolitismo sul fronte ideologico: l’adulazione della cultura borghese reazionaria, l’atteggiamento negativo verso le conquiste della cultura sovietica, lo svilimento e il disprezzo del ruolo di spicco del popolo russo e della sua scienza, della sua cultura, della sua arte, il disprezzo delle tradizioni progressive delle altre nazionalità dell’URSS. Allo stesso tempo la cultura socialista assimila tutto ciò che di grande, di prezioso ha creato la cultura mondiale. Il rispetto delle conquiste delle culture nazionali di tutti i popoli è un tratto inalienabile dell’ideologia del popolo sovietico». [20]

Si può ricordare infine la sintesi fatta da Palmiro Togliatti sulla questione:

«assai spesso, i nemici dei lavoratori tentano di contestare il patriottismo dei comunisti e dei socialisti, invocando il loro internazionalismo e presentandolo come una manifestazione di cosmopolitismo, di indifferenza e di disprezzo per la patria. Anche questa è una calunnia. Il comunismo non ha nulla di comune col cosmopolitismo. Lottando sotto la bandiera solidarietà internazionale dei lavoratori, i comunisti di ogni singolo paese, nella loro qualità di avanguardia delle masse lavoratrici, stanno solidamente sul terreno nazionale. Il comunismo non contrappone, ma accorda e unisce il patriottismo e l’internazionalismo proletario poichè l’uno e l’altro si fondano sul risptto dei diritti, delle libertà, dell’indipendenza dei singoli popoli. È ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni, non solo per il suo numero, ma per la sua funzione economica e politica. L’avvenire della nazione riposa innanzi tutto sulle spalle delle classi operaie. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare le loro radici vitali. Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trusts internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi. Costoro sono i patrioti del loro portafoglio. Essi non soltanto vendono, ma si vendono volentieri al migliore offerente tra gli imperialisti stranieri». [21]

Il tema è particolarmente rilevante per comprendere oggi l’importanza della “questione nazionale” e della riacquisizione della sovranità, la quale nell’epoca del colonialismo e dell’imperialismo è diventata per i popoli coloniali e semi-coloniali una base imprescindibile per spostare il terreno di lotta su una base più avanzata per ricollegarsi dialetticamente alla questione sociale. Attualmente il diffuso rigetto dell’idea di sovranità da parte delle “sinistre” é connesso al loro sostanziale antileninismo e al rifiuto dell’idea che sia possibile avviare la costruzione del socialismo in un solo Paese. Ciò avviene perché si é accettata la falsa narrazione borghese del fallimento dell’URSS, la cui esperienza ha invece dimostrato non solo la superiorità del sistema socialista, ma anche che rompendo l’anello più debole della catena imperialista mondiale sia possibile innescare un ciclo internazionalista progressivo per le sorti dell’intera umanità. A questo punto l’ultima fondamentale caratteristica che deve avere il partito comunista è la sua capacità di porsi come l’avanguardia del proletariato. A riguardo rimangono finora insuperati gli insegnamenti di Vladimir Lenin nel Che fare? e di Antonio Gramsci nei Quaderni dal Carcere, nella consapevolezza però che anche tali elaborazioni sono figlie di un’epoca storica, e come tali necessitano di un riesame rigoroso sulla base delle esperienze accumulate nell’ultimo secolo che ne hanno mostrato pregi e limiti. Pur avendo ricevuto in eredità piattaforme teoriche assai avanzate, non si può certamente pensare di riproporli meccanicamente senza riflettere sui cambiamenti avvenuti in seno alla nostra società (il “totalitarismo liberale”…). Non prendere atto di questi aspetti rischia non solo di affossarci in operazioni meramente nostalgiche, ma in tutto e per tutto anti-marxiste e politicamente poco utili in prospettiva. Su questi temi il discorso si amplia troppo, per cui rimando ai contributi analitici offerti nell’opera In Difesa del Socialismo reale e del marxismo-leninismo (ed in particolar modo nell’ultimo capitolo, il 24°) e in Il totalitarismo “liberale”.

NOTE

[1]     K. Marx, Statuti generali dell’Associazione internazionale degli operai, 1864, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere Scelte, cit., p. 751.
[2]     K. Marx & F. Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, cit., p. 310.
[3]     Ivi, p. 303.
[4]     D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013.
[5]     Ivi, p. 10.
[6]     Ivi, p. 11.
[7]     Ivi, p. 17.
[8]     Ivi, p. 155.
[9]     Ivi, p. 311.
[10]     Ivi, p. 156.
[11]     Ivi, p. 153.
[12]     V. Lenin, Sul diritto di autodecisione delle nazioni, Posvestcenie, n° 4-6, aprile-giugno 1914, all’interno di V. Lenin, Opere Complete, Vol. XX (dicembre 1913 – agosto 1914), Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 392-393.
[13]     D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 310.
[14]     Ivi, pp. 161-162.
[15]     Come raccontato nello splendido film Atto di difesa – Nelson Mandela e il processo Rivonia (2017), non a caso passato pressoché in sordina. Si vedano a tal riguardo R. Caputo, Atto di difesa: un notevole film passato sotto silenzio, La Città Futura, 23 giugno 2018, oltre che A. Pascale, Atto Di Difesa – Nelson Mandela e il processo Rivonia, “Lumiereeisuoifratelli.com”, 18 febbraio 2018.
[16]     K. Marx & F. Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, cit., p. 326.
[17]     E. Mascitelli (a cura di), Dizionario dei termini marxisti, Vangelista, Milano 1977, pp. 74-75.
[18]     K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, 1848, all’interno di F. Marx & F. Engels, Opere, Vol. VI, cit., p. 481.
[19]     K. Marx, Discorso sul libero scambio di Carlo Marx con un Proemio di Federico Engels, Uffici della Critica Sociale, Milano, 1894 [discorso del 1848], pp. 23-37. Trascritto da Leonardo M. Battisti nel novembre 2017 per “Marxists.org”.
[20]     M. Rosenthal & P. Ioudine (a cura di), Petit dictionnaire philosophique, Éditions politiques d’État, Mosca 1955; qui si fa riferimento all’edizione elettronica curata da Vincent Gouysse, “Communisme-Bolchevisme.net”, p. 45; traduzione a cura di Francesco Alarico della Scala.
[21]     P. Togliatti, Il patriottismo dei comunisti, Rinascita, anno II, n° 7-8, luglio-agosto 1945.