I figli del Vulcano

vallepiano ifiglidelvulcanodi Roberto Vallepiano

Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla provvidenza a piagare l’America Latina di miseria in nome della libertà.Simon Bolivar

INTRODUZIONE

La parola è un’arma, serve a difendere gli oppressi e a restituire voce, dignità e grammatica alla nostra storia. Serve a combattere chi dopo aver saccheggiato il nostro presente e compromesso il futuro, minaccia di cancellare il passato. Serve anche a restituire anche un limite, una dimensione storica a questa volgare meta-storia propugnataci dal capitalismo. Parole che parlano angoli e granelli del reale.

Oggi che i tempi della nostra vita sono scanditi dagli orologi della mercificazione e gli spazi sono il plastico  della rappresentazione di un mondo chiuso. Oggi che i compassi del dominio tratteggiano i confini dell’agio e della privazione, della proprietà e della marginalità, come puzzle incomponibile di solitudini incomunicanti. La libertà all’interno delle geometrie dell’esistente è del tutto interdetta, una scenografia barocca di afono individualismo. 

Occorre dunque riappropriarci di un orizzonte. Guardarci indietro per riappropriarci dell’oggi e magari sorprendersi a scoprire che la parola Rivoluzione continua a ribollire in maniera carsica nel groviglio delle domande che pullulano nelle vene aperte della nostra società. 

Perché la ribellione è la metafora del fuoco. Il fuoco è un’entità che mutando resta uguale a sé stessa e, allo stesso modo, la lotta armata guerrigliera è una storia collettiva fatta di tante incendiarie storie individuali.

Questo libro parla di gesta rivoluzionarie, spesso declinate al femminile, che hanno donato nuova forma e consistenza a parole come coraggio e resistenza. Ridona voce a chi ha messo armi e cuore al servizio del popolo. Donne e popolazioni native come energia propulsiva da cui traggono linfa e scaturiscono questi racconti guerriglieri. Perché gli indios rappresentano il legame più profondo con le nostre origini ancestrali e perché le donne sono come la Madre Terra, una sola cosa con la luna, i boschi e le maree.

Una fiaccola di gioiosa sovversione che ci riconcilia con l’essere umano e la natura circostante. Perché oltre ai vulcani esistono i loro figli. 

La storia del Centro America è una gioiosa eruzione rivoluzionaria dove le idee di lotta si sono sapute amalgamare e trasformare in scintille e lapilli, accendendo di speranza intere nazioni e dando vita a uomini e donne di tipo nuovo: guerriglieri che hanno trasformato le idee in furore e la vendetta in giustizia. Ribelli che, come Prometeo, per amore dell’umanità e del progresso hanno osato sfidare gli Dei, rubandogli il fuoco per regalarlo agli esseri umani.

Le pagine che vi apprestate a leggere sono gocce di memoria. Parole che si trasformano in radici, ali, senso di appartenenza, perché la memoria è essenza. 

La parte peggiore dell’umanità cerca di cancellarla, la parte migliore la chiama identità. E’ uno strumento che gli uomini hanno nelle proprie mani per costruire se stessi. La memoria per noi rappresenta ciò che le radici sono per gli alberi, è ciò che ci sostiene e che ci offre un orizzonte.

Cancellare l’eco della memoria dei popoli è uno dei modi più raffinati per inibirne la forza e, al contempo, uno degli strumenti privilegiati delle classi dominanti per assoggettarli. Spesso chi ha conquistato il potere con la sopraffazione e la forza della violenza e del ricatto, termina la propria opera annichilendo il divenire intrinseco dei dominati, imponendo loro un passato riveduto e corretto o, nel peggiore dei casi, non accreditandogliene alcuno. 

In questi racconti la maggior parte dei protagonisti, delle voci narranti, hanno respirato e vissuto l’epica rivoluzionaria, l’hanno attraversata amando senza limiti e condizioni, convinti che non fosse possibile combattere per la propria dignità e felicità, se non includeva anche quella degli altri. 

La parte migliore del popolo, quella salita sulle montagne per trasformare fatalismo e immobilismo in entusiasmo e furore, diventando così l’evocazione stessa del fuoco. Quella che non ha esitato a impugnare le armi contro un sistema abominevole che sigillava col sangue e col piombo qualsiasi via pacifica al cambiamento.

L’epicentro da cui si irradiano gli avvenimenti è il Guatemala, per poi attraversare come una porta dimensionale paesi come Cuba, El Salvador, Haiti, Messico, Belize, Guyana, Nicaragua.

Il Guatemala è un paese magico e surreale dove si trovano i più ampi tratti di foresta vergine dell’America Centrale e che spazia dalle cascate in mezzo alla giungla agli altopiani innevati, dalle strade acciottolate alle lagune. L’orizzonte è costellato da foreste lussureggianti e da vulcani. 

Considerati sacri dalle popolazioni Maya i vulcani del Guatemala dominano perennemente il paesaggio, ovunque si sposti lo sguardo loro ci sono. E anche quando non si vedono si avverte comunque la loro presenza, sotto forma di energia. 

I vulcani sono simbolo di potenza sopita e di forza incontenibile. La guerriglia decise da subito di elevarli a simbolo, di richiamarsi evocativamente a loro già dalle proprie bandiere. L’emblema dell’Organizzazione Rivoluzionaria del Popolo in Armi, ad esempio, non era una falce e martello o un fucile ma una catena di vulcani in eruzione. La loro stampa clandestina aveva l’inequivocabile nome di “Erupción”.

Il Guatemala si dipana tra la Tierra Caliente, torrida regione costiera affacciata sul pacifico dove nelle ore centrali della giornata il termometro raggiunge regolarmente i 40 gradi e la Tierra Fria, gelidi altopiani dove la temperatura scende costantemente sotto lo zero.Con una superficie urbanizzata che non copre neppure il 2% del proprio territorio, a livello ambientale appare il luogo ideale per avviare una guerriglia rivoluzionaria di lunga durata. Con i suoi paesaggi naturali intricati e strepitosi, spesso irraggiungibili per mancanza di strade e vie. Con le foreste secolari del Peten che offrono copertura e riparo preziosi. Con i mille misteriosi nascondigli naturali offerti dalle sponde del Lago di Atitlan. Con il groviglio di grotte sotterranee che si sviluppano per decine di chilometri tra le regioni di Alta e Baja Verapaz.

Tra i tanti moti rivoluzionari che hanno scosso questo magnifico continente la guerra di guerriglia guatemalteca, combattuta per oltre 40 anni, è stata la più lunga e articolata. 

Il Guatemala è stato il Vietnam dell’America Latina. Un Vietnam in scala ridotta che gli Stati Uniti si rifiutano di riconoscere per esorcizzare l’esempio contagioso di un popolo che ha combattuto tenacemente e coraggiosamente in nome della giustizia sociale e della propria libertà, per emanciparsi dalla presenza usurpatrice del dominio a stelle e strisce sulla loro terra. 

Lenin scrisse profeticamente che “la violenza è la levatrice della storia”, molte furono le dittature sanguinarie che funestarono l’America Latina in nome degli sporchi interessi degli USA, ma il Guatemala ha un’esperienza di morte che non ha paragoni con nessuna epoca e con nessun altro paese. I governi e i militari guatemaltechi intervenendo indiscriminatamente contro la popolazione e sabotando coscientemente qualsiasi tentativo di riforma o di apertura democratica non hanno fatto altro che porsi al servizio dei capitali stranieri, del Fondo Monetario Internazionale e degli USA, usando paradossalmente la scusa di difendere la patria per meglio svenderla al capitale straniero. 

La parola “comunista” diventava così un marchio di condanna a morte, che veniva affibbiato non solo contro chi combattesse il regime ma anche contro chiunque manifestasse una timida formula di dissenso o di apertura mentale. I militari diedero il via a una mattanza generalizzata, consumando una serie di colpi di stato e di atroci persecuzioni che avrebbero straziato il tessuto sociale del Guatemala per molti decenni a venire. Il patto d’acciaio tra gerarchie ecclesiastiche, oligarchie economiche ed esercito ottenne di affermare lo status quo di un’ingiustizia permanente che si riproduceva da sé stessa. Un dominio feroce dei pochissimi ai danni delle moltitudini. 

Il tutto avveniva sotto la premurosa tutela degli USA e delle sue multinazionali e corporation. 

La United Fruit Company entrava ufficialmente nell’olimpo della poesia e della letteratura grazie a Pablo Neruda e al suo Poema epico Canto General: una vera e propria denuncia politica in versi che denunciava il regime di saccheggio e sangue instaurato dalle multinazionali statunitensi sul territorio latinoamericano, grazie al sostegno offerto da un manipolo di truci dittatori senza scrupoli innestati lì direttamente dalla CIA. Quello di Neruda era un j’accuse poetico che partendo dal Cile si allargava a tutta l’America Latina, dando vita ad un attacco senza precedenti agli USA e alle sue multinazionali assassine: “Appena squillò la tromba tutto era pronto sulla terra, e Geova divise il mondo tra Coca Cola, Anaconda, Ford Motors e altre società: la Compagnia United Fruit si riservò la parte più succosa, la costa centrale della mia terra, la dolce cintura d’America. Ribattezzò le sue terre “Repubbliche delle Banane”, e sopra gli inquieti eroi che conquistarono la grandezza, la libertà e le bandiere, instaurò l’opera buffa: cedette antichi benefici, regalò corone imperiali, sguainò l’invidia, e chiamò alla Dittatura delle Mosche. Mosche umide d’umile sangue e marmellata, mosche ubriache che ronzano sopra le tombe del popolo, mosche da circo, sagge mosche esperte in tirannia. Tra le mosche sanguinarie sbarcò la Compagnia stipando di caffè e frutta le sue navi che poi scomparvero come vassoi con il tesoro delle nostre terre sommerse. Frattanto, dentro gli abissi pieni di zucchero dei porti, cadevano indios sepolti dal vapore del mattino: rotolò un corpo, una cosa senza nome, un nome caduto, un grappolo di frutta morta finita nel letamaio.

Al Poeta comunista cileno, Premio Nobel per la Letteratura, gliela faranno pagare cara qualche anno più tardi: verrà assassinato con una iniezione letale a Santiago del Cile, durante l’ennesimo colpo di stato condotto dagli Stati Uniti in terra latinoamericana, quello che pose fine all’esperienza del Socialismo umanista cileno e al sorriso di Salvador Allende sostituendolo con l’orrido ghigno di Augusto Pinochet.

Anche Gabriel Garcia Marquez parlerà metaforicamente della United Fruit all’interno della formidabile opera che ha dato il via alla corrente letteraria del Realismo Magico, il libro capolavoro “Cent’anni di solitudine”. Il villaggio di Macondo è sottoposto al dominio e al giogo di una ignobile multinazionale di banane, dietro le cui fattezze è facile individuare chi si cela. E nella denuncia di Garcia Marquez c’è molto di autobiografico perché lo scrittore nacque in Colombia, proprio a ridosso di una piantagione della United Fruit Company. Nei mesi successivi alla sua nascita e più tardi, durante la sua adolescenza, nella regione vi furono alcuni imponenti scioperi organizzati da braccianti e contadini stanchi dello sfruttamento bestiale e delle vessazioni cui erano sottoposti. Gli scioperi vennero stroncati dalle armi dell’esercito e delle milizie padronali concludendosi con l’uccisione di migliaia di manifestanti tra cui alcuni parenti stretti della famiglia dello stesso Gabriel Garcia Marquez.

Il potere della multinazionale a stelle e strisce permeava ogni aspetto della vita pubblica tanto in America Latina quanto negli USA, dove controllava gran parte del potere politico, legislativo e mediatico. I suoi principali azionisti erano i fratelli John Foster e Allen Welsh Dulles, rispettivamente Segretario di Stato degli Stati Uniti e direttore della CIA. Era una delle società più ricche sulla faccia della terra, i cui guadagni erano superiore al PIL di molti stati nazionali. Rappresentava una minaccia permanente alla sovranità nazionale e alla stessa stabilità economica a livello continentale, generando ovunque corruzione e soprusi di ogni tipo. Emblematica e rivelatrice a questo proposito è la frase che amava ripetere il padrone della United Fruit Company, Sam “the Banana Man” Zemurray: “In Centroamerica è molto più economico comprare un deputato che un mulo”.

Da quel momento il Guatemala venne bollato e irriso con la umiliante nomea di Repubblica delle Banane. 

Il primo a coniare questo termine ad effetto fu lo scrittore satirico americano William Sydney Porter, noto con lo pseudonimo di O. Henry, all’interno del suo romanzo “Presidenti e banane”, libro che si concludeva profeticamente con un golpe propiziato e orchestrato dalla “Vesuvius Fruit Company”.

Nell’isola ribelle di Cuba esiste un termine dispregiativo con cui vengono chiamati gli statunitensi: Yuma. Il termine deriva da prima della Rivoluzione, quando buona parte delle risorse naturali di Cuba e della sua economia erano controllate direttamente dalle multinazionali USA, con in testa la United Fruit Company, dalla cui contrazione nasce appunto il termine Yuma. 

Sinonimo di egoismo e tracotanza, esempio di colui che pensa che con il proprio denaro può comprare tutto, negli ultimi anni il termine Yuma è diventato convenzionalmente sinonimo di “straniero”. Ma con una certa elasticità: i cubani sono un popolo intelligente e sanno benissimo che tutti gli Yuma sono stranieri, ma che non tutti gli stranieri sono Yuma.

Occorre dunque difendere la memoria dei popoli che hanno combattuto l’infamia e il sopruso e ricordare i cuori guerriglieri che hanno dato vita ad una lunga epopea di ribellione, perché attraverso di loro s’è avverata la profezia dell’icona rivoluzionaria della rivolta indigena, il guerriero aymara Tupac Katari: “Tornerò e sarò milioni”. 

Le loro gesta sono stati i semi che hanno fatto germogliare una nuova America Latina che rifiuta oggi di essere considerata il patio trasero, il giardino di casa e la discarica degli Stati Uniti d’America. 

Un latinoamerica in cui spesso le guerriglie di ieri sono diventate la culla delle tumultuose esperienze rivoluzionarie di governo di oggi. Fili rossi che legano la lotta armata combattuta in Guatemala a quella del vicino Nicaragua dove il Comandante Sandinista Daniel Ortega è oggi Presidente o a quella del Salvador dove i combattenti del Frente Farabundo Martì de Liberacion Nacional nel 2009 hanno eletto Presidente della Repubblica il proprio candidato Mauricio Funes, che durante gli anni dell’epopea rivoluzionaria ha perso un fratello.

Fili rossi che germogliano in quella Cuba guidata oggi da Miguel Diaz Canel e dal vecchio Comandante rebelde Raul Castro, una piccola isola divenuta un faro nel campo della lotta di liberazione dei popoli, che da esempio rivoluzionario si è trasformata in paradigma di solidarietà e umanità per il mondo intero. 

Fili rossi che portano al Brasile dove un operaio metallurgico di nome Lula, già combattente in clandestinità, diventa Presidente e dopo di lui lo diventerà una ex sovversiva di nome Dilma Rouseff. All’Uruguay dove, dopo 28 anni di carcere e tortura, viene eletto Presidente un ex guerrigliero Tupamaros di nome Josè Mujica. 

Alla Bolivia dove un umile campesino indio come Evo Morales dopo aver guidato i movimenti di lotta governerà un paese nel nome del Socialismo della Pacha Mama, scegliendo come consigliere un ex combattente peruviano del Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru e come Vicepresidente un guerrigliero di nome Álvaro Marcelo García Linera, già ideologo dall’Ejercito Guerrillero Tupac Katari e animatore degli Ayllus Rojos, piccole comunità armate autogestite che si ispiravano al marxismo e al katarismo presenti negli altopiani boliviani, passato al Movimiento al Socialismo di Evo Morales dopo 13 anni trascorsi in carcere con l’accusa di terrorismo e insurrezione.

Benvenuti nel cuore pulsante di Nuestra America! Quella grande terra che il Comandante Ernesto Guevara chiamava l’America Maiuscola, non per la vastità dei suoi confini ma per la forza incendiaria delle sue idee. Un continente che, spinto dal basso, sta faticosamente cercando di liberarsi da ataviche oppressioni, migliorando concretamente la vita a milioni di diseredati.

Grazie anche alle instancabili lotte di ieri nasce oggi l’utopia realizzata dell’ALBA. Quella Alleanza Bolivariana per le Americhe che in nome del socialismo e dell’antimperialismo accomuna differenti popoli e nazioni realizzando in pieno le intuizioni bolivariane e guevariste su autodeterminazione e sovranità. Una mezcla tra culture politiche differenti che è riuscita a pianificare la visione di un mondo diverso possibile che metta per la prima volta al centro le aspirazioni politiche ed esistenziali insieme a quelle sociali, economiche, ambientali e perfino spirituali. Insegnando il rispetto ancestrale per la cultura indigena e imprimendo una potente carica di innovazione e slancio rivoluzionario ai nuovi orizzonti del vivere in armonia con la natura, lanciando un atto esplicito di denuncia contro i disastri ambientali e l’ecocidio provocato dal capitalismo. 

Fili rossi che l’imperialismo vorrebbe sradicare, strappare con la forza dell’arroganza. Fili rossi contro cui gli USA stanno mobilitando tutto il proprio potente arsenale fatto di attacchi economici, manipolazioni mediatiche, feroci mistificazioni, golpe giudiziari, guerra psicologica e destabilizzazione golpista portata avanti in molteplici modi: dal teppismo politico agli omicidi mirati, per giungere alla “rivoluzione colorata” di turno. Dalle provocazioni perpetrate dai paesi burattini degli Stati Uniti, come il narcogoverno colombiano o il Brasile di Bolsonaro, ai cosiddetti programmi di aiuto al Terzo Mondo gestiti da ONG collaterali agli interessi degli USA. 

ONG che, con questi pretesi programmi assistenziali, in realtà prendono denaro dai poveri dei paesi ricchi per darlo ai ricchi dei paesi poveri, riempiendo le tasche alle piccole élite locali ricchissime e corrotte.

Occorre dunque tornare ad accendere nuovi falò. Ricordare, con devozione, i prodigiosi e ignoti combattenti rivoluzionari come Atene celebrava il culto di Prometeo, dedicandogli feste popolari in cui si percorrevano le strade della città con fiaccole accese per onorare il più grande dono che Prometeo aveva fatto all’umanità: il fuoco. Perché nella storia Prometeo è rimasto simbolo di ribellione e sfida ma anche metafora di un sapere sciolto dai dettami del pensiero unico e dai vincoli ipocriti del politicamente corretto.

Il libro che avete tra le mani è un tentativo che va in questa direzione: non vuole essere un saggio di analisi politica, né un quadretto agiografico di esotismo rivoluzionario ma un atto deliberato di amore e gratitudine nei confronti di quelle giovani donne, di quei figli del vulcano che hanno spiccato il volo tentando l’assalto al cielo.

Perché Rivoluzione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco. 

SCHEDA LIBRO

Questo è un libro di racconti guerriglieri narrati dalla viva voce dei protagonisti. La ribellione come metafora del fuoco, la lotta armata come storia collettiva fatta di tante storie individuali.

L’autore mostra le vene aperte dell’America Latina. Ridona voce, memoria e grammatica a chi ha messo armi e cuore al servizio della giustizia. Immagina le pagine come tante piccole eruzioni che trasformano le idee in scintille e le ingiustizie in furore incendiario.

L’epicentro da cui si irradiano gli avvenimenti è il Guatemala, paese magico e surreale, per poi attraversare come una porta dimensionale paesi come Cuba, El Salvador, Haiti, Messico, Guyana e Nicaragua. 

Il genere dell’opera è a metà tra il romanzo storico e l’autobiografia di una rivoluzione.

Ogni capitolo è un libro nel libro. I vari paragrafi sono collegati l’uno all’altro da un filo rosso fatto di gesta rivoluzionarie, spesso declinate al femminile. Lo stile è evocativo. La narrazione immediata e il linguaggio fluido e comunicativo. 

Il tempo verbale al presente, con frequenti salti temporali nel passato prossimo e remoto, aiuta l’autore a raccontare gli eventi in modo più diretto e con una struttura più simile ai racconti orali.

Il libro racconta degli intollerabili soprusi subiti dalle masse popolari, dalle popolazioni indigene, e della risposta armata che ha innescato uno straordinario laboratorio di lotte sociali che hanno incendiato l’America Latina portando ad innovative forme rivoluzionarie di socialismo e di autogoverno del territorio. 

Un testo che non vuole essere un saggio di analisi politica né un quadretto agiografico di esotismo rivoluzionario, ma un atto deliberato di amore e gratitudine nei confronti di chi ha tentato l’assalto al cielo per divenire l’evocazione stessa del fuoco.

SCHEDA AUTORE

Roberto Vallepiano è nato a Sanremo e vive nella Riviera Ligure di Ponente, terra di mare e di roccia, dove il sole regna anche di inverno.

E’ agitatore culturale, poeta e attivista politico. Scrittore per passione e per diletto. Fa parte della Rete Internazionale degli Artisti, Intellettuali e Movimenti Sociali in Difesa dell’Umanità.

Da sempre attivo in campo politico, culturale e giornalistico, collabora attivamente con il Granma Internacional, organo ufficiale del Partito Comunista di Cuba.

Nel 2008 ha pubblicato il saggio storico intitolato “Resistenza e Lotta di Liberazione nel Ponente Ligure”.

Nel 2011 è uscita una raccolta di poesie dal titolo La gioia armata.

Nel 2013 ha pubblicato il libro Svendola. Anche i Nichi piangono.

Nel 2015 è uscito il libro dal titolo Cuba. Geografia del desiderio. che ha ricevuto da subito un ottimo giudizio della critica e che, dopo aver partecipato a diversi festival in Italia, nel febbraio del 2016 è stato invitato alla Fiera Internazionale del Libro dell’Avana.

Nel 2017 ha dato alle stampe Ufficio sinistri. Il buco nero in cui è scomparsa la sinistra. per le Edizioni Be Press, libro che ha suscitato un vivace dibattito all’interno dell’area della sinistra e dei movimenti.

Nel 2019 la pubblicazione del suo nuovo libro I figli del vulcano sempre per le Edizioni Be Press.