In difesa dell’idea di nazione

bazzocchi comunitaimperfettadi Marco Pondrelli per Marx21.it

Recensione a “La comunità imperfetta – in difesa dell’idea di nazione, Editoriale Scientifica Napoli, 2017” di Claudio Bazzocchi.

Per commentare l’ultimo libro di Claudio Bazzocchi, La Comunità Imperfetta, basterebbero due aggettivi: difficile e coraggioso.

Definire difficile il libro di Bazzocchi non deve indurre a ritenere l’opera troppo ‘intellettualistica’ o poco comprensibile. Il libro è comprensibile ma non ammette lettori distratti, come se l’Autore avesse riflettuto su ogni singola parola usandola consapevolmente. Le parole vivono nel loro pieno e profondo significato. In un società come la nostra in cui il pressapochismo è elevato ad ideologia e, in cui si usano parole e categorie concettuali in modo poco scientifico, un simile rigore metodologico è inconsueto.

Quest’opera è anche, come detto, coraggiosa. Parlare a difesa dello Stato Nazione è, oggi, un atto di coraggio tanto più essendo questa costruzione teorica lontana da una prospettiva nazionalista o addirittura sciovinista. Tanto per capire non troverete nel libro di Bazzocchi inviti a difendere la ‘razza’ italiana dall’assalto delle ‘orde’ nordafricane. Inoltre, riconoscere il ruolo dello Stato Nazionale non vuole dire disconoscere l’Europa come entità sovranazionale: la polemica dell’Autore è rivolta contro l’idea cosmopolita che vorrebbe costruire uno Stato unico superando gli stati nazionali disconoscendone la loro storia, la loro cultura e le loro tradizioni.

L’Uno molteplice e lo Stato Nazione

Claudio Bazzocchi parte dall’identificazione dell’Uno-molteplice che stava alla base della democrazia ateniese e che è il fondamento dello Stato Nazionale. Il singolo si ritrova parte di una molteplicità contraddittoria. Questa contraddizione, che è frutto delle differenze insite nella società, non si risolve ma rimane presente nei sistemi democratici divenendone però, paradossalmente, fondamento e potremmo dire che la democrazia accoglie le differenze senza annullarle in un Uno indistinto. La democrazia è quindi un ordine/non ordine ma proprio questa contraddizione impedisce agli stati di divenire aggressivi verso l’esterno. Quando il sistema interno viene semplificato in nome di un popolo privo di contraddizioni, il nazionalismo mostra la sua faccia peggiore: quella del nazismo e del fascismo, divenendo aggressivo verso l’esterno. Ecco perché l’Autore afferma che la democrazia è un sistema imperfetto ma questa stessa imperfezione è il suo fondamento.

Il ragionamento che si dipana da questo assunto ha nella democrazia e nella nazione i suoi punti fermi. Non a caso viene citato il famoso discorso sulla nazione di Ernest Renan, il quale afferma che “una nazione non ha mai interesse ad annettersi un paese contro la sua volontà” [pag. 67]. Sono i limiti geografici, i quali fanno vivere un popolo in simbiosi con il proprio territorio, i propri fiumi, le proprie montagne, alla base della democrazia.

Ecco spiegato il rifiuto dell’Europa come stato unico [pag. 85] che annienterebbe storie, tradizioni e culture locali. Sarebbe facile cadere, come fanno in molti, in un ingenuo cosmopolitismo per arrivare ad affermare che dalla crisi si esce con più Europa; al contrario Bazzocchi riporta il pensiero di Marcel Gauchet per il quale le nazioni non devono negare se stesse, rischiando così di abolire la loro stessa civiltà ma devono essere esse stesse la base dell’Europa [pag. 92].

Europa o guerra

Se volessimo trovare una traduzione economica a questi concetti filosofici potremmo rifarci ad un libro di Brancaccio-Passarella di alcuni anni fa (l’austerità è di destra, 2012) laddove i due economisti ritengono opportuna “una limitazione della libera circolazione dei capitali ed eventualmente delle merci”. Quello che i due economisti tentano di spiegare è che la dimensione internazionale dell’economia che vive nel rapporto fra gli stati, non va disconosciuta ma semplicemente regolata.

Il liberoscambismo che vorrebbe fare del mondo un unico mercato semplicemente non funziona. È francamente imbarazzante continuare a sentire politici ed opinionisti vari, anche sedicenti progressisti, affermare che l’unica alternativa all’UE è la guerra.

Quest’idea di cosmopolitismo trova eco in larga parte della sinistra. Essa è frutto di un malinteso che porta a considerare l’internazionalismo come negazione dell’idea di Stato. Molti marxisti commettono questo errore ignorando alla radice il pensiero di Marx, Lenin e Gramsci. Lenin nel 1916 ne “La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione” individuava la centralità della lotta dei popoli delle colonie, la cui lotta nazionale non poteva essere confusa con l’aggressione nazionalistica. Su questo tema il rivoluzionario bolscevico, durante la Grande Guerra, ebbe modo di polemizzare con i socialdemocratici polacchi i quali sostenevano che la lotta contro le ‘annessioni’ implicava “il rifiuto di ogni difesa della patria” e quindi anche il rifiuto dei popoli annessi (ossia colonizzati) di liberarsi dagli annessionisti.

La lotta per l’indipendenza non si limita ad un combattimento militare, come ricorda Losurdo nel suo ultimo libro (il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere). Al guerrigliero, raggiunta indipendenza, subentra il lavoratore, ovverosia la costruzione di uno Stato Nazionale politicamente ed anche economicamente indipendente. Questo tema non sfugge a Gramsci che lo affronta il un articolo uscito su ‘L’Ordine Nuovo’ nell’agosto del 1920 dall’eloquente titolo ‘La Russia, potenza mondiale’.

Anche a sinistra, ed anche fra i comunisti, andrebbe ripensato il tema dello Stato. Patriottismo ed internazionalismo non sono posizioni contraddittorie, contraddittorio è accettare un’Europa (magari illudendosi di cambiarla dall’interno) che anziché la moneta svaluta il lavoro ed è contraddittorio mascherare questa Europa, e l’impossibilità di cambiarla, con una sovrastruttura cosmopolita.

Chi continua a chiedere più Europa capirà, forse, un giorno di avere lavorato per il re di Prussia.

Potere e democrazia

Bazzocchi accompagna queste riflessioni ad un’altra molto interessante laddove indaga il fondamento stesso della democrazia. La modernità è stata attraversata da questo dibattito e già all’inizio del Novecento molti pensatori si confrontarono sul tema. Bazzocchi riprende la tesi di Hermann Heller giurista tedesco il quale nel saggio “La sovranità e altri scritti sulla dottrina del diritto e dello Stato” afferma che “sovrano è chi decide sullo stato di normalità”.

Dietro questa semplice asserzione si afferma un principio cardine ovverosia che lo Stato deve essere guidato da principi etico-giuridici (jus) in nome dei quali è permesso anche di andare contro la lex [pag. 75]. L’individuazione del sovrano è un tema che incendiò il dibattito, soprattutto tedesco, nel primo dopoguerra. Hans Kelsen e Carl Schmitt sono, assieme ad Heller, i due giuristi che si confrontarono nei tumultuosi anni della Repubblica di Weimar. Dopo la Grande Guerra il dibattito giuridico, politico ed anche filosofico si concentra sul fondamento stesso dello Stato più che della democrazia. Verdun e la Somme spazzarono via non solo il Kaiser ed un paio di imperi ma anche la naturale gerarchia della società che era a fondamento dello Stato.

La legge può regolare la vita di uno Stato e di una società: ogni atto, ogni azione può essere sussunta a diritto, l’idea di democrazia di Kelsen ha qui il suo fondamento. Ecco perché per il giurista austriaco la democrazia è sostanza ma anche forma: rispetto delle procedure. Allo stesso tempo essa è conflitto e compromesso; conflitto nella politica quotidiana guidata da differenti visioni della società e da differenti concezioni filosofiche ma compromesso sui grandi valori di fondo. Se pensiamo all’Italia possiamo vedere nel secondo dopoguerra un importante conflitto politico guidato da concezioni di politica interna ed internazionale divergenti ma anche un compromesso sui valori fondamentali riconosciuti nella Costituzione. La Costituzione Repubblicana è riuscita a portare a sintesi le tre grandi correnti che hanno segnato il Novecento, quella cristiano-cattolica, quella laico-liberale e quella proveniente dal movimento operaio (comunista e socialista). Sta qui il compromesso da non intendersi in senso negativo.

Carl Schmitt rovescia l’assunto di Heller ed apre il suo ‘Teologia Politica’ con l’affermazione che ‘Sovrano è che decide sul caso d’eccezione’. Il giurista tedesco non parla di democrazia ma tenta di capire quale possa essere il fondamento del potere e quindi dello Stato.

La fine del vecchio ordine è segnato dalle guerre di religione. Per Carl Schmitt già Hobbes afferra questo passaggio. La religione non è più in grado di fondare un ordine sociale. Questo è il passaggio che ci introduce alla modernità, la quale poggia sulla mancanza di un fondamento condiviso. Il caso d’eccezione è quel momento in cui il tentativo di costruire una completa rete giuridica fallisce difronte ad un evento che non può essere sussunto a diritto. Questo vuoto viene, per Schmitt, coperto da una decisione.

Nella prefazione alla già citata opera schmittiana, l’Autore ricorda il conflitto costituzionale fra Bismarck ed il Reichstag individuandolo come precedente per tutti i casi successivi, sottolineando come la scienza giuspubblicistica tedesca per sottrarsi ad ogni decisione in merito coniò una massima che, per il giurista tedesco, è la sua epigrafe “il diritto statale è finito qui”. Potremmo dire che è finita l’illusione positivista di normare tutto.

Il Novecento è attraversato da questo dibattito. Il fondamento dello Stato prima ancora che della democrazia. Su cosa fondiamo la nostra convivenza comune? Potremmo addirittura chiederci cosa sia la modernità?

Questo non vuole dire che non vi sia, oggi, anche una crisi della democrazia. Questa questione non può essere, ma non è il tema di questa breve recensione, slegata dalla lotta di classe. Rimane emblematico, a mio avviso, quello che successe agli inizi degli anni ’90 in Italia; gli accordi sulla scala mobile del ’92-’93 ed il referendum sulla legge elettorale del ’93. Arnaldo Testi, grande studioso della storia degli Stati Uniti, sintetizzò quello che successe al di là dell’Atlantico in un bel libro giustamente titolato ‘la politica dell’esclusione’.

Fondare il potere e dare senso alla parola democrazia è la sfida che abbiamo di fronte tutti noi e che ha di fronte la sinistra ed il lavoro di Bazzocchi, lo si condivida o meno, è un tentativo serio di porsi le giuste domande tentando di dare risposte meditate.