L’invenzione di un Gramsci dimezzato

di Luigi Cavallaro

dibattitosugramsci thumbUna militanza comunista da cancellare. Una tavola rotonda sull’autore dei «Quaderni dal carcere» a partire dall’ultimo libro di Franco Lo Piparo

Nonostante il forte scirocco dei giorni scorsi, l’eco delle polemiche nazionali (e perfino internazionali) intorno alla sorte dei Quaderni del carcere di Gramsci è arrivata anche a Palermo, dove l’Istituto Gramsci siciliano ha organizzato lo scorso 21 marzo la presentazione dei due ormai celebri libretti che Franco Lo Piparo ha dedicato nell’ultimo anno al tema: I due carceri di Gramsci e L’enigma del quaderno, entrambi editi da Donzelli. Discussants d’eccezione: Luciano Canfora, Salvatore Lupo e Salvatore Nicosia, attuale presidente del Gramsci isolano. (Sui due volumi ne ha scritto Guido Liguori il 2/2/2012 e il 16/02/2013).

Ha introdotto il dibattito Lupo, che ha inquadrato i dissidi fra Gramsci e il gruppo dirigente del Pcd’I nelle più ampie e drammatiche divergenze che allora attraversavano il movimento comunista internazionale: considerazione affatto ragionevole, ma lo storico catanese, che vanta trascorsi giovanili fra i gruppi trockisti della sinistra extraparlamentare, non ha perso neanche stavolta l’occasione per sottolineare malignamente «noi ‘ste cose le sapevamo».

La comunicazione a Ercoli

Poi è stata la volta di Canfora. Il filologo e storico barese ha accuratamente distinto la questione oggettiva, documentaria, del numero dei quaderni gramsciani da quella congetturale relativa al contenuto del presunto «quaderno mancante»: su quest’ultima non ha detto nulla, mentre sulla prima ha messo in fila alcuni fatti su cui insiste da qualche tempo. Ha ricordato che nell’edizione critica di Gerratana i quaderni gramsciani sono 33 (29 di note e 4 di traduzioni), che è un numero che non collima né con quello indicato a suo tempo nella relazione pubblicata su Rinascita da Felice Platone (che insieme a Togliatti curò la prima edizione tematica dei Quaderni, uscita per Einaudi fra il 1948 e il 1951), dove si parla di 32 quaderni per complessive 2848 pagine manoscritte, né soprattutto con quanto riferito dallo stesso Togliatti in un discorso tenuto al Teatro San Carlo di Napoli, il 28 aprile 1945: Togliatti disse infatti che Gramsci aveva lasciato «34 grossi quaderni come questo – eccone uno – coperti di scrittura minuta, precisa, eguale». E certo è singolare – ha aggiunto Canfora – che la parte di quel discorso concernente la descrizione del lascito gramsciano non sia stata mai pubblicata se non dopo la morte di Togliatti (lo stesso Togliatti omise di includerla nella silloge dei suoi scritti su Gramsci, apparsa negli anni ’50 dall’editore Parenti): tanto più singolare se si pensa che, proprio qualche giorno prima di quel discorso al San Carlo, il vicecommissario degli Affari Esteri dell’Urss, Dekazonov, aveva riferito al responsabile della sezione Informazione internazionale del partito comunista bolscevico che «34 quaderni di lavori di Antonio Gramsci» erano stati consegnati il 3 marzo 1945 a «Ercoli» (Togliatti) dall’ambasciatore sovietico a Roma. Per non dire che non di ventinove, ma di «trenta quaderni che contengono una rappresentazione materialistica della storia d’Italia» aveva scritto nel luglio ’37 ancora Togliatti a Manuil’skij, membro dell’Esecutivo dell’Internazionale, e che lo stesso numero (in cifre romane: «XXX stuk») ricorre in una lettera che Tania Schucht scrisse ai familiari all’indomani della morte di Gramsci.

Il privilegio inventato

Non diremo qui delle spiegazioni che la filologia gramsciana ha avanzato per rendere conto di queste presunte incongruenze, né di come Lo Piparo ne abbia contestato la plausibilità nel suo ultimo libretto. Assai più interessante è stato il modo in cui Lo Piparo ha argomentato il senso della sua ormai biennale ricerca. 

Egli ha esordito dicendo che bisogna sbarazzarsi della «storia sacra» ereditata dal Pci. Anzitutto, Gramsci non morì in carcere, come scrisse («falsamente») Togliatti, ma da uomo libero; certo, in libertà condizionale, ma poteva ricevere chi voleva e andare dove voleva: se poi non l’ha fatto, scelte sue. Poi ha citato la «protezione» che a Gramsci venne da Mariano D’Amelio (zio di Piero Sraffa, presidente della Cassazione e senatore fascista) e le «ricerche» (sic!) di Dario Biocca sulle relazioni che il carcerato intratteneva coi carcerieri fascisti e col Duce in primis. Sì, perché – ha insistito molto Lo Piparo – Gramsci era un «privilegiato»: riceveva libri dall’esterno del carcere (e se non gli arrivavano scriveva al Duce per protestare e poi i libri gli arrivavano), inviava ogni giorno lettere a parenti e amici, insomma faceva cose si spiegano solo con l’occhio di riguardo che Mussolini aveva nei suoi confronti: prova ne sia che, tra i reclusi comunisti, ci fu anche chi lo prese a sassate perché pensava che avesse saltato il fosso. E poi Gramsci «detestava» Togliatti, al punto da far promettere a Tania che mai gli avrebbe consegnato i quaderni: altro che «continuità» fra i due!

Quindi, Lo Piparo ha posto la domanda capitale: perché, nonostante il comunismo sia bell’e morto, continuiamo a occuparci di Gramsci? La risposta, a suo avviso, è semplice: Gramsci è stato «totus politicus» solo per una piccola parte della sua vita, dal 1918 al 1926; per il resto, è stato un «intellettuale», cioè uno che s’interrogava su dove andava il mondo e perché. E di cose da intellettuali alla fine ha scritto: la controversia su neogrammatici e neolinguisti, Manzoni, la storia degli intellettuali italiani – basta scorrere il programma di lavoro che figura nella prima pagina manoscritta dei Quaderni per scorgervi i tipici interessi di un professore universitario, quale egli doveva diventare: era stato pur sempre il delfino del grande glottologo Matteo Bartoli, no? 

«Forse è morto comunista, ma non m’interessa: era uno che s’interrogava», ha concluso Lo Piparo, che insegnando Filosofia del linguaggio nell’ateneo palermitano avverte evidentemente per ciò solo motivi di colleganza con Gramsci. E proprio per questo suo continuo interrogarsi – ha chiosato Salvatore Nicosia – Gramsci va restituito alla sua storia e identità di «individuo» e sottratto a quell’appartenenza collettiva che ne ha tracciato un profilo dai toni e contorni probabilmente al di là delle sue stesse intenzioni.

Quest’ultima annotazione è risultata alla fine ancor più chiarificatrice della stessa franca allocuzione di Lo Piparo. Già, perché il senso di tutto questo discutere, alla fine, è uno solo: bisogna strappare Gramsci all’abbraccio mortale di un’identità nefasta com’è quella comunista. Anche perché, se il comunismo è quella cosa orribile e mortifera che è stata descritta dall’attuale direttore della Fondazione Istituto Gramsci, Silvio Pons, in un libro al quale il presidente onorario della Fondazione medesima, Giuseppe Vacca, rimanda in una nota della sua biografia gramsciana come testo definitivo per intendere quel «tempo dello Stato» durante il quale Gramsci visse quasi sempre in segregazione (per carità, ben protetto e da privilegiato: e anzi non mi spiego come non sia stata ricordata la «vacanza» a Ustica, sulla quale meritoriamente ha richiamato tempo addietro l’attenzione un ex presidente del Consiglio), non ci sono alternative: o si dimostra che Gramsci non ha niente a che fare con questa merda o altrimenti si deve chiudere la Fondazione Istituto Gramsci. Tertium non datur.

Il segreto di Pulcinella

Spiace solo che Canfora, che pure è attento studioso dell’uso politico dei paradigmi storici, non abbia colto qual è la posta in gioco e si sia precipitato nell’agone polemico con la furia di chi è convinto di misurarsi ancora con Togliatti e Natta, quando è il tempo di Renzi e Lo Piparo. Quanto al «quaderno mancante», sul quale lavora (ma «a rilento», ha lamentato Lo Piparo) l’ormai celebre commissione istituita dall’Istituto,suggeriremmo per prima cosa un’ispezione al Teatro San Carlo: magari qualche spiritello burlone, di quelli che infestano festanti i sotterranei napoletani, potrebbe averlo sottratto a Togliatti nel trambusto di abbracci e fanfare dell’Internazionale che dovette seguire alla fine del suo discorso del 28 aprile di sessantotto anni fa. Si dovrebbe ripartire da lì. E magari, indaga che t’indaga, potrebbe venir fuori anche il segreto di Pulcinella