La fine della classe operaia?

di Peter Mertens, Partito del Lavoro del Belgio (PTB) | da iccr.gr
Traduzione per resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
working-class-joesC’è un’idea molto diffusa, che si sente sempre più spesso: le tecnologie dell’informazione e delle scienze della comunicazione hanno radicalmente cambiato la produzione. La maggior parte dei paesi sviluppati ha un’economia di servizi, una società post-industriale. In Europa, il 66% della popolazione lavoratrice è impiegata nel settore dei servizi. Negli Stati Uniti questa percentuale raggiunge il 79% (1). A causa di questo cambiamento nella composizione della classe lavoratrice, non si può proseguire come prima, dice il filosofo italiano Antonio Negri: “Odio chi dice: la classe operaia è morta, ma la lotta continua. No. Se la classe operaia è morta – il che è vero – l’intero sistema legato a quei rapporti di forza entra in crisi”.(2)

La contraddizione tra lavoro e capitale
 
La classe lavoratrice nasce con il capitalismo. La nascita del capitalismo nei secoli XVI e XVII, l’accumulazione primitiva, fu legata a due condizioni principali. Da un lato, si doveva accumulare sufficiente ricchezza per mettere in piedi le imprese capitalistiche, cioè, il capitale. Dall’altra parte, era necessario disporre di sufficiente manodopera: persone senza beni propri, senza mezzi di sussistenza, costretti a vendere la loro forza-lavoro. Grazie all’industrializzazione, alla fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, si formò la classe operaia, che è aumentata costantemente a causa del tracollo dei contadini e dei braccianti. Insieme allo sviluppo del capitalismo vi è stato anche un crescente esercito di riserva di persone disoccupate.
 
Nei primi anni del Novecento, grandi monopoli capitalistici hanno cominciato a dominare settori in ogni paese. Oggi, un secolo dopo, questi monopoli non solo regolamentano tali settori a livello nazionale, ma lo fanno su scala mondiale. Le fusioni e acquisizioni di compagnie statali hanno raggiunto una enorme concentrazione negli ultimi decenni. Alcune imprese transnazionali controllano interi settori dell’economia mondiale. Mai prima nella storia c’è stata tanta gente che lavora su un singolo prodotto, sia esso una macchina, un aereo o un derivato petrolifero. Tra un quarto e mezzo milione di persone lavorano ogni giorno per ciascuna delle venti imprese transnazionali più grandi. Mai prima nella storia ci sono stati così pochi protagonisti a disciplinare la produzione: ne sono sopravvissuti tre nel settore petrolifero, sei nel settore automobilistico, due nel mercato del grano, quattro nel mercato della soia, sei nel settore agrochimico e due nell’aviazione civile.
 
Ma la contraddizione tra capitale e lavoro è “in crisi”? In altre parole, è scomparsa, come insinua Antonio Negri? No, agli inizi del XXI secolo, la contraddizione tra capitale e lavoro, è di carattere mondiale. Il mondo è pronto per passare al successivo modo di produzione, il socialismo. “Quando una grande azienda assume dimensioni gigantesche e diventa rigorosamente sistematizzata e, sulla base di un’esatta valutazione di dati innumerevoli, organizza metodicamente la fornitura della materia prima originaria nella proporzione di due terzi o di tre quarti dell’intero fabbisogno di una popolazione di più decine di milioni; quando è organizzato sistematicamente il trasporto di questa materia prima nei più opportuni centri di produzione, talora separati l’uno dall’altro da centinaia e migliaia di chilometri; quando un unico centro dirige tutti i successivi stadi di elaborazione della materia prima, fino alla produzione dei più svariati manufatti; quando la ripartizione di tali prodotti, tra le centinaia di milioni di consumatori, avviene secondo un preciso piano (spaccio del petrolio in America e Germania da parte del “trust del petrolio” americano), allora diventa chiaro che si è in presenza di una socializzazione della produzione e non già di un semplice “intreccio”; che i rapporti di economia privata e di proprietà privata formano un involucro non più corrispondente al contenuto, involucro che deve andare inevitabilmente in putrefazione qualora ne venga ostacolata artificialmente l’eliminazione, e in stato di putrefazione potrà magari durare per un tempo relativamente lungo (nella peggiore ipotesi, nella ipotesi che per la guarigione… del bubbone opportunistico occorra molto tempo!), ma infine sarà fatalmente eliminato”, ha scritto Lenin nella sua analisi dell’imperialismo.(3)
 
Oggi, questo involucro sono i rapporti capitalistici di produzione di alcune migliaia di famiglie (non di più!), i proprietari privati delle mille imprese transnazionali più grandi che controllano praticamente tutta la produzione mondiale. Queste famiglie controllano anche, direttamente o indirettamente, il lavoro di quasi un miliardo di persone che vendono la propria forza-lavoro e delle famiglie che da loro dipendono. Inoltre controllano la tecnologia, la comunicazione, il trasporto e l’organizzazione che sono loro proprietà privata. Controllano tutto questo, non per lo sviluppo e il progresso sociale, ma per massimizzare i loro profitti. Così, la proprietà privata dei mezzi di produzione (imprese, terre, mezzi di comunicazione e di trasporto) è diventata il principale ostacolo al progresso sociale dell’umanità.
 
Hanno ucciso i becchini?
 
Quale forza, all’interno della società, è in grado di rompere la morsa soffocante sulla produzione e la vita? Uno degli elementi chiave posti in discussione da Karl Marx e Friedrich Engels nella neonata Associazione Internazionale dei Lavoratori, fu l’idea che la rivoluzione sociale poteva essere compito solo della classe operaia stessa. I “seppellitori” di questo sistema di sfruttamento sono i lavoratori stessi, scrissero Marx e Engels nel Manifesto Comunista. Oggi questi seppellitori sono morti?
 
Tabella 1. Percentuale di occupazione nell’agricoltura, industria e servizi in tutto il mondo.

Agricoltura Industria Servizi
1950 67 15 18
1970 56 19 25
1980 53 20 27
1990 49 20 31
2000 46 20 34
2006 38.7 21.3 40
Fonte: ILO, Rapporto Mondiale sull’Occupazione 2007, Commissione europea, Occupazione in Europa 2004.
 
L’ILO Global Employment Trends Report (ILO, relazioni sulle tendenze occupazionali globali) indica che i servizi hanno superato l’agricoltura per la prima volta nella storia del genere umano. “Nel 2006, il settore dei servizi ha sorpassato l’agricoltura per la prima volta, arrivando al 39,5-40 per cento. L’agricoltura è scesa al 39,7-38,7 per cento. Il settore industriale ha rappresentato il 21,3 per cento dell’occupazione totale “. I dati della tabella 1 evidenziano questi tre fatti. In primo luogo, l’occupazione nel settore agricolo è diminuito nel corso dell’ultimo mezzo secolo del 67-38,7 per cento. I contadini sono in rovina. In Europa, questo processo si è verificato nel corso degli ultimi tre secoli. Oggi avviene in tutto il mondo. In secondo luogo, vi è un aumento dell’occupazione nel settore dei “servizi”. Torneremo su questo argomento in seguito. Inoltre, si osserva una stagnazione o addirittura un leggero aumento dell’occupazione nel settore industriale su scala mondiale. E’ il risultato del declino dell’occupazione industriale nei paesi sviluppati e del suo aumento in altri parti.(4)
 
Sulla base dei dati statistici classici, si possono fare due osservazioni fondamentali.
 
In primo luogo, la distinzione tra le diverse attività economiche è del tutto arbitraria. Sarebbe più corretto distinguere tra settori primario, secondario e terziario. Il settore primario, l’agricoltura, equivale all’estrazione di risorse dalla natura. Il settore secondario, l’industria, equivale alla trasformazione della natura. E il settore terziario a ciò che resta. Sono stati classificati come «servizi» numerosi settori che appartengono al settore secondario. L’immagine viene così falsificata.
 
In secondo luogo, queste statistiche non prendono in considerazione i rapporti di proprietà. Vengono classificate nella sezione agricoltura sia i grandi proprietari terrieri, sia i piccoli agricoltori indipendenti così come gli operai agricoli. Proprio come imprenditori, dirigenti, lavoratori autonomi e salariati che sono messi insieme nel settore industria. In altre parole, queste statistiche mascherano il carattere di classe della società attuale.
 
Nel capitalismo troviamo, grossomodo, tre classi che si suddividono in diversi strati. La classe proprietaria, che possiede le imprese, i beni immobiliari, i macchinari e la tecnologia (brevetti), e possiede inoltre i (grandi) mezzi di produzione. Si impossessa dei beni prodotti. La classe media che è la classe dei piccoli proprietari e dei piccoli produttori indipendenti. E la classe operaia che è la classe senza mezzi di produzione. Dispone solo della sua forza e della sua capacità di lavorare, che pone in vendita.
 
La classe operaia è il cuore pulsante del sistema. È il lavoro produttivo che crea la ricchezza della società. Il capitale può aumentare solo grazie al plusvalore generato nel processo di produzione. La classe operaia può esistere benissimo senza i padroni capitalisti, mentre il padrone è nulla senza i lavoratori. E’ proprio qui che risiede il ruolo della classe operaia come attore del cambiamento storico. I lavoratori produttivi sono nel centro della produzione e si scontrano ogni giorno con la contraddizione tra capitale e lavoro. Sono quindi nella posizione migliore per capire l’essenza di questo sistema. Oltre ad un nucleo attivo a livello della produzione, la classe operaia si compone di numerosi altri strati di lavoratori salariati che, a causa della crisi persistente, all’aumento della pressione sul posto di lavoro, all’aumento della flessibilità e dell’incertezza costante, si trovano sempre più di fronte alle contraddizioni insite nel sistema.
 
Infine, i disoccupati fanno parte anch’essi della classe operaia. E’ importante sottolineare ancora una volta l’importanza dei compiti del movimento sindacale e del partito dei lavoratori. I disoccupati formano uno strato specifico in quanto, per definizione, non possono fermare o colpire l’arteria economica del capitalismo dal momento che – per la natura della loro situazione – sono sempre più smembrati e disorganizzati e perché, quanto più sono separati dal processo di produzione, tanto più perdono la disciplina e l’organizzazione del lavoro. Questo non significa che i disoccupati della classe operaia sono fuori dalla lotta. Anzi, il contrario.
 
I seppellitori, lungi dall’essere morti, sono invece molto vivi. La classe lavoratrice europea, in senso lato, era composta nel 2002 da 137,5 milioni di persone, di cui 2 milioni erano lavoratori agricoli. Su scala mondiale, quasi 15 anni fa c’erano 884 milioni di persone salariate, delle quali 85 milioni erano lavoratori agricoli.(5)
 
Chi produce la ricchezza?
 
Secondo alcuni opinionisti, l’epoca nella quale il lavoro produttivo creava la ricchezza sociale si è concluso. La teoria del plusvalore, il pilastro della teoria economica di Marx, sarebbe stata superata. Questa è la conclusione frettolosa che traggono i filosofi Toni Negri e Michael Hardt: “Il ruolo centrale occupato dalla forza lavoro degli operai di fabbrica nella produzione di plusvalore, è ormai sempre più assunto dal lavoro intellettuale, immateriale e fondato sulla comunicazione. E’ quindi necessario sviluppare una nuova teoria politica del plusvalore.”(6)
 
Il lavoro già è fonte, quindi, di ricchezza sociale? Tutto il contrario. Per vivere, la gente ha bisogno di cibo, vestiti e altri beni materiali. Per ottenere questi prodotti, devono lavorare, “produrre”. Sono le persone che, attraverso la produzione materiale, producono la ricchezza della società. Tutto il lavoro materiale che rientra in questa definizione può essere considerato in generale come lavoro produttivo. La produzione è organizzata in gruppi, a livello sociale. In un determinato momento storico, la produzione ha superato il consumo immediato. Si iniziarono a immagazzinare cereali, il cibo e il bestiame. A partire da quel momento chiave, ogni volta che c’era un surplus di produzione, alcuni gruppi di persone hanno approfittato per appropriarsi di questo surplus in modo sistematico.
 
Il lavoratore vende la sua forza-lavoro. Riceve in cambio un salario. Questo salario, è ciò che noi chiamiamo il “valore” della forza lavoro. E’ il denaro che il lavoratore necessita per soddisfare le sue necessità, la sua istruzione, la sua salute, il suo alloggiamento, ecc.
 
Il lavoratore crea prodotti attraverso il suo lavoro. Ma il valore creato da questi prodotti è superiore al suo salario. La differenza, è ciò che viene chiamato “plusvalore” e appartiene interamente al capitalista. Se un lavoratore lavora per 8 ore, ad esempio, in tre ore ha prodotto il suo salario (o il valore della sua manodopera). Nelle restanti cinque ore di lavoro produce valore eccedente, esclusivamente per il capitalista. Nelle parole di Marx: “La produzione di plusvalore è la legge assoluta di questo modo di produzione. ” (7)
 
Chi non lavora nella produzione, nella produzione di beni, non realizza un lavoro produttivo. “Poiché il fine immediato e lo specifico prodotto della produzione capitalistica è il plusvalore, in essa è produttivo soltanto quel lavoro – e produttivo solo quell’erogatore di forza lavoro – che produce direttamente plusvalore.”, scrive Marx. “Non è ridicolo, (…), che il costruttore di pianoforti debba essere un lavoratore produttivo, e il pianista no? quantunque senza quest’ultimo il pianoforte sarebbe un nonsenso? Ma è esattamente così. Il costruttore di pianoforti riproduce capitale , mentre il pianista scambia il suo lavoro soltanto con reddito. Ma il pianista che produce musica e soddisfa il nostro senso musicale, non produce quest’ultimo in una certa misura? In effetti, sì: il suo lavoro produce qualcosa; ma per questo esso non è lavoro produttivo in senso economico.”(8)
 
A causa della recente rivoluzione tecnologica, certamente c’è una maggiore necessità della scienza e della conoscenza di parte dei processi di produzione più moderni. Tuttavia, l’intelligenza e comunicazione al di fuori della produzione non crea plusvalore per il capitale. Lo stesso vale per il lavoro che produce beni che non circolano sul mercato, come gli artigiani dell’argilla.
 
A causa di questo, il lavoro produttivo è una definizione di lavoro che non ha nulla a che fare con il suo contenuto o con il valore d’uso reale che gli è assegnato, ma con la forma sociale nella quale si produce. E’ per questa ragione che il lavoro può, per un solo e unico contenuto, essere produttivo o improduttivo.
 
Anche il lavoro svolto in base al reddito, e per il capitale, come gli inservienti nelle case, cuochi, giardinieri, autisti e guardie del corpo, non è produttivo, perché non crea un plusvalore per il capitale. Supponendo che il plusvalore si crea solo durante la produzione (produzione di prodotti), il lavoro nel settore finanziario (banche, assicurazioni, investimenti …) non è produttivo. Allo stesso modo, la circolazione delle merci (vendite, negozi …) non crea plusvalore e quindi non è produttivo. Il trasporto e lo stoccaggio, tuttavia, sono considerati elementi essenziali della produzione essendo effettivamente produttivi, anche se si considerano “servizi” nella statistica classica.
 
La recente rivoluzione tecnologica (informatica, telecomunicazioni, digitale …) rappresenta un enorme progresso per l’incremento delle forze produttive e lo dimostra chiaramente il fatto che il mondo è maturato sufficientemente per passare a un sistema di produzione che si basi sulle esigenze della popolazione. Ma non sono i computer in sé, Internet, l’informatizzazione né l’automazione che producono le ricchezze, come suggeriscono alcuni filosofi di moda, tra cui Negri e Hardt. La fonte del plusvalore sono gli uomini che azionano le macchine. All’interno della classe operaia, all’interno del gruppo formato da coloro che vendono la loro capacità lavorativa in cambio di un salario, si trova un nucleo produttivo. Ci riferiamo qui all’intero gruppo di lavoratori salariati attivi nei settori della produzione, del trasporto e dello stoccaggio di merci e servizi. Il gruppo può essere considerato come gli operai dell’industria.
 
Lavoratori delle industrie, dei servizi e della tecnologia
 
Secondo Negri e Hardt, dal momento che “la composizione del proletariato si è trasformata e la nostra comprensione deve adeguarsi”. “La classe operaia industriale ha spesso avuto un ruolo guida (…), sia nell’ambito dell’analisi economica che in quello dei movimenti politici. Al giorno d’oggi, quella classe operaia non è assolutamente scomparsa dalla scena. Non ha cessato di esistere, ma è stata detronizzata dalla sua posizione privilegiata nell’economia capitalistica e dalla sua posizione egemonica nella composizione di classe del proletariato.”(9) I due autori aggiungono che, “si potrebbe qualificare il passaggio dal dominio dell’industria a quello dei servizi, un processo di post modernizzazione economica, o meglio, di informatizzazione” (10) Il fatto che il proletariato industriale costituiva “la parte preponderante della classe operaia” non ha nulla a che fare con il loro numero, ma con la sua posizione nel processo di produzione. Si tratta del gruppo che subisce più direttamente lo sfruttamento. La classe operaia crea plusvalore ripartito tra i diversi settori produttivi. E’ quella che domina i collegamenti vitali dell’economia.
 
Si deve tuttavia mettere in discussione il mito circa il numero dei lavoratori della produzione. Il numero di operai nel settore industriale, il nucleo produttivo della classe operaia, è più importante di quanto venga riportato nelle statistiche classiche nella sezione “industria”. Una parte importante del settore “terziario” salariato, fa anch’esso parte del nucleo produttivo, della parte attiva nel processo di produzione, nel trasporto o nello stoccaggio. Grosso modo, si può dire che in Europa il proletariato industriale conta circa 60 milioni di lavoratori salariati (nel settore industriale o nei servizi legati all’industria). (11)
 
In Europa, circa 14 milioni di lavoratori salariati che lavorano in “servizi business” (servizio legato alle imprese – vedi Tabella 4). Si tratta dei settori informatici legati all’industria, la manutenzione tecnologica, le imprese di pulizia industriale, servizi di sicurezza e di manutenzione tecnica, così come gli studi di mercato, la pubblicità e risorse umane. (12)
 
Per questi settori, la crescita è duplice. Da un lato, l’informatizzazione in permanente sviluppo gonfia l’occupazione nei settori informatici. E, dall’altro lato, in questi settori si trovano un gran numero di posti di lavoro “subcontrattati” (outsourcing) che, in precedenza, si classificavano nella sezione industria. La cosa importante, è che questi settori sono legati al processo di produzione. Una sottostima potrebbe essere che la metà dei 9 milioni di lavoratori salariati del settore dei trasporti (via terra, mare e aria) è attiva nel processo di produzione mediante il trasporto di merci. Inoltre, altri settori terziari sono anch’essi coinvolti nella produzione, ad esempio i servizi di corriere, come DHL (Deutsche Post) che sono adesso inclusi nella sezione posta e comunicazioni.
 
Pertanto, non è esagerato affermare che in Europa, 20 milioni di lavoratori salariati del “settore terziario” stanno lavorando, di fatto, nella produzione industriale (NDT: e che, in Spagna, sono tre milioni) Allo stato attuale, possiamo solo dare una cifra approssimativa. Per conoscere la quantità esatta, si dovrebbe procedere ad un più approfondito e dettagliato studio.
 
“Alla fine del 20° secolo, la manodopera industriale ha perso la sua posizione egemonica ed è emersa al suo posto una “manodopera immateriale”, vale a dire una manodopera che crea prodotti immateriali, come la conoscenza, l’informazione, la comunicazione, le relazioni o le reazioni emotive “, dicono Negri e Hardt. “Riteniamo che in termini qualitativi, adesso è questa manodopera immateriale quella che occupa una posizione egemonica”. (13)
 
I cambiamenti occorsi negli ultimi dieci anni nei settori dell’informatica e delle comunicazioni rappresentano un prodigioso balzo in avanti nello sviluppo delle forze produttive. Tuttavia, queste rivoluzioni tecnologiche non si fanno da sole, come pretendono Negri e Hardt. Sono incorporate nel sistema di produzione capitalista. Secondo Antonio Negri, questa rivoluzione tecnologica ha trasformato radicalmente il lavoro e inoltre l’ha “emancipato”. “La produzione ha anche preso il controllo del cervello dei lavoratori.” Questo deriva “dal fatto che l’intelligenza – la forza dell’immaginazione, l’inventiva e la creatività – è veramente impostata al lavoro” La conclusione è la seguente: “Oggi, le persone sono divenute proprietarie delle forme, degli attrezzi, degli strumenti che producono la ricchezza” Ciò significa che “il sequestro da parte del capitale dello strumento di produzione è impossibile”. (14)
 
Negri dimentica i rapporti di proprietà. La ricerca, l’informatica, lo sviluppo e la genetica sono proprietà private. Nella “società della conoscenza” non sono “l’intelligenza e l’immaginazione” quelle che contano, ma l’appropriazione privata della conoscenza attraverso brevetti e diritti d’autore. “Solo il capitale invece ha catturato il progresso storico per porlo al servizio della ricchezza.” (15), scrive Marx. Ogni volta che un gigante farmaceutico ottiene un brevetto per un farmaco, si appropria della conoscenza scientifica sviluppata nei laboratori universitari da diverse generazioni di ricercatori. “L’acquisizione per il capitale è impossibile”, pretende Negri. Ma la realtà mostra esattamente il contrario. Il capitale si impossessa di tutto il campo della conoscenza storica e sociale della società. Racchiudendo, o per meglio dire imprigionando, la conoscenza in brevetti, la società rinuncia alle sue potenzialità intrinseche di progredire sul piano sociale.
 
Dal punto di vista della tecnologia, la rivoluzione digitale segna un importante passo in avanti, ma, dal punto di vista dei rapporti di proprietà, non vi è alcuna differenza qualitativa rispetto al periodo in cui la macchina dava i suoi primi passi. “É un dato di fatto indubbio che le macchine in sé non sono responsabili di questa «liberazione» degli operai dai mezzi di sussistenza”, scrive Marx, dal momento che “le contraddizioni e gli antagonismi” sono “inseparabili dall’uso capitalistico delle macchine (…) le macchine, considerate in sé, abbreviano il tempo di lavoro mentre, adoprate capitalisticamente, prolungano la giornata lavorativa, poiché le macchine in sé alleviano il lavoro e adoprate capitalisticamente ne aumentano l’intensità, poiché in sè sono una vittoria dell’uomo sulla forza della natura e adoprate capitalisticamente soggiogano l’uomo mediante la forza della natura, poiché in sé aumentano la ricchezza del produttore e usate capitalisticamente lo pauperizzano”. (16)
 
Antonio Negri ha scritto: “i contatti, le relazioni, gli scambi e le aspirazioni sono diventati produttivi” (17). Ma, al contrario, tutti i “contatti, le relazioni e gli scambi” che entrano in gioco nella produzione servono a incrementare il tasso di profitto. La flessibilità mira a ridurre i tempi di inattività e il capitale morto. Il lavoro a domicilio e il telelavoro, il lavoro al pezzo, come al tempo delle manifatture e i pagamenti di premi in base alle prestazioni, portano a un risparmio nella forza lavoro. Risparmiando sia nel capitale morto che nel capitale vivo, il tasso di profitto cresce. Mentre, per i lavoratori, ciò significa un aumento dello stress, degli straordinari e delle malattie.
 
De-industrializzazione e industrializzazione
 
Il governo francese ha commissionato uno studio approfondito per verificare l’affermazione secondo la quale l’industria sta morendo. Dopo mesi di indagini, la Commissione ha concluso che “Dall’inizio degli anni 1990, il volume del valore aggiunto delle industrie manifatturiere aumenta più rapidamente che quello dell’insieme dell’economia. Non vi è pertanto una deindustrializzazione, ma al contrario una crescita dell’industria. Questo fenomeno è caratteristico di tutti i paesi industrializzati. Parallelamente, la quota di occupazione industriale non smette di calare, passando dal 24% del 1980 al 15,9% della popolazione attiva nel 2002. L’origine di questa diminuzione deriva dagli aumenti di produttività dei salariati nell’industria francese, che sono tra i più alti del mondo, con il 4,1% all’anno dal 1990. . (…) Ciò che noi chiamiamo deindustrializzazione è in realtà un effetto ottico conseguenza di un dinamismo industriale. “(18) Anche la Commissione europea ha ordinato di scrivere un rapporto, che è giunto alla seguente conclusione: “L’analisi condotta dalla Commissione indica che non vi è alcuna prova di un processo generalizzato di deindustrializzazione. Al contrario, l’industria europea si trova ad affrontare un processo di cambiamenti strutturali … “(19)
 
Oggi si produce di più, ma con meno persone. La produttività è aumentata. Per quanto riguarda la struttura delle imprese, si avvertono anche qui dei grandi cambiamenti avvenuti negli ultimi anni, in particolare a causa della sub contrattazione. E il 7% delle perdite dei posti di lavoro nel settore industriale in Europa sono dovuti alla delocalizzazione. Tre fattori, caratteristici di questo sistema che si basa sulla massimizzazione del profitto, spiegano pertanto la riduzione di posti di lavoro nel settore della produzione: l’aumento della produttività, la sub contrattazione crescente nella produzione e le delocalizzazioni.
 
L’aumento della produttività è la causa principale della scomparsa di posti di lavoro nell’industria. Non ha nulla a che fare con la “deindustrializzazione”. Al contrario, si produce di più, ma con sempre meno persone. O, come scrive Marx: “La condanna di una parte della classe operaia a un ozio forzoso mediante il lavoro fuori orario dell’altra parte” (20) Le 300 imprese transnazionali maggiori controllano almeno un quarto della produzione del mondo, ma contano per meno dell’1% del lavoro. (21)
 
In una società socialista, il progresso tecnologico serve per alleggerire il peso della vita delle persone e per soddisfare le loro esigenze. Oggi, l’aumento della produttività è volto all’estrazione della maggior quantità di plusvalore per battere i concorrenti, generando così insopportabili condizioni lavorative.
 
In secondo luogo, a causa della “sub contrattazione” i lavoratori sono costretti a offrire la loro forza lavoro a sub contrattisti, agenzie di lavoro interinale, società IT, ecc…, in cambio di un salario più basso. Allo stesso tempo si constata che una parte della protezione sociale scompare. In effetti, i diritti sindacali sono praticamente inesistenti nella maggior parte delle aziende di sub contrattazione e delle agenzie di lavoro interinale. La sub contrattazione è un attacco contro la forza collettiva dei lavoratori come classe.
 
Siamo di nuovo davanti ad una evoluzione nel processo di industrializzazione, e non di deindustrializzazione. Pertanto, la Engineering Employer’s Federation della Gran Bretagna ha dichiarato: “Una parte importante dell’industria dei servizi è stata creata dall’industria mediante la sub contrattazione di settori come la manutenzione, la ristorazione collettiva e l’assistenza giuridica. (…) L’industria potrebbe coprire fino al 35% dell’economia, più che il 20% generalmente accettato, se i calcoli si basassero su statistiche accurate. “ (22)
 
Non si tratta quindi di “deindustrializzazione”, ma di frammentazione della classe operaia produttiva in imprese più piccole e in agenzie di lavoro interinale.
 
Un terzo fattore responsabile della scomparsa di posti di lavoro nell’ “industria”, – ed è importante sottolineare che si trova al terzo posto – è la delocalizzazione. Questo trasferimento globale di capacità produttiva non è sinonimo di deindustrializzazione, ma di industrie che si spostano da un continente all’altro.
 
La classe responsabile del proprio futuro
 
150 anni fa, la classe operaia era appena uscita dalla culla e Karl Marx e Friedrich Engels già non avevano alcuna difficoltà nel “decretare” il ruolo di avanguardia della classe operaia.
 
Ciò che “decreta” che i lavoratori sono pionieri, è la storia, sono le leggi economiche, politiche e organizzative del regime capitalista. Finché esiste il capitale, la forza sociale che consente al capitale di moltiplicare non potrà sparire. Senza lavoro produttivo, non vi è plusvalore e non vi è nessun profitto per i padroni. Esistono approssimativamente un miliardo di famiglie operaie in questo mondo, queste famiglie sono gli attuali becchini del sistema delle ITN e della massimizzazione del profitto. Essi sono, come osservavano Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista, il movimento della maggioranza. “Tutti i movimenti che si sono succeduti nella storia sono stati, fin qui, movimenti di minoranze a vantaggio di minoranze. Il movimento proletario è il movimento spontaneo dell’immensa maggioranza a vantaggio dell’immensa maggioranza. Il proletariato, che è l’ultimo strato della società attuale, non può sollevarsi, non può raddrizzarsi, senza far saltare tutti gli strati che gli stanno sopra e formano la società ufficiale.”(23)
 
Esodo e diserzione
 
L’ex segretario generale del PTB, Nadine Rosa-Rosso, ha propugnato nel Partito la posizione che le attuali condizioni di lavoro sono così infernali che i lavoratori non possono organizzarsi nel posto di lavoro.
 
Come fece l’allora giovane movimento operaio a metà del XIX secolo? Le nascenti industrie non erano anch’esse “luoghi infernali”? Uno poteva perdere tutto: il suo stipendio, il suo cibo, la sua salute e la sua vita. Eppure ci fu una rivolta collettiva. E nonostante ciò i lavoratori si organizzarono “in condizioni che erano più che infernali” rispetto a oggi. Se Marx ed Engels si fossero rassegnati a sospirare di fronte a tutta questa miseria, né la Prima Internazionale né la coscienza della necessità di sindacati sarebbero stati una realtà.
 
Nessuno può negare che, in quest’ultimi dieci anni, le condizioni di lavoro sono peggiorate. Come la controrivoluzione di velluto ha fatto cadere il socialismo, il capitalismo sta falciando di nuovo il lavoro. Dal momento che la controrivoluzione di velluto ha piegato il socialismo, il capitale è diventato ancora più audace. Le fabbriche si sono convertite di nuovo in caserme. Lo stress ha sostituito la silicosi. Gli impieghi stabili sono stati sostituiti dai lavori part-time e dal lavoro interinale, gli impieghi ben retribuiti con impieghi al di sotto e fuori i contratti collettivi. La quota dei salari nella ricchezza totale va diminuendo. Le vecchie leggi contro gli scioperi tornano a rivedere la luce, se ne creano nuove, si impongono multe.
 
Ma nessuno può negare nemmeno che il proletariato si oppone all’ondata di liberalizzazione e allo smantellamento delle conquiste sociali. Questa opposizione si presenta sotto molteplici sfaccettature. Il numero di azioni realizzate nelle imprese è in costante aumento dagli anni ’90. Si tratta di azioni sul campo, organizzate da decine di migliaia di rappresentanti sindacali, di persone in carne e ossa. Gente che non ha abbandonato le imprese.
 
Anche Negri e Hardt vedono il potenziale per l’opposizione specialmente al di fuori delle fabbriche e dei sindacati.
“La forza della classe operaia non risiede nelle istituzioni rappresentative, ma nell’antagonismo e l’autonomia dei lavoratori stessi.” E’ ciò che hanno scritto Negri e Hardt sulla classe operaia americana negli anni 1960 e 1970. “Inoltre, la creatività e la conflittualità del proletariato risiedono anche – e forse soprattutto – nelle popolazioni che lavorano al di fuori delle fabbriche. Anche (e soprattutto) coloro che si rifiutano attivamente di lavorare sono stati a volte una seria minaccia e una alternativa creativa. “(24)
 
Durante il periodo 1960-1970, secondo i due autori c’era una forza creativa nel “rifiuto del regime disciplinare” (25). “La prospettiva di ottenere un impiego garantendo un lavoro stabile e regolare di otto ore al giorno e di 50 settimane l’anno, per tutta una vita di lavoro; la prospettiva di entrare nel regime standard della fabbrica sociale: tutto questo era stato il sogno di molti dei loro genitori – ma sembrava da adesso in avanti come una specie di morte. Il rifiuto di massa del regime disciplinare, che ha rivestito una grande varietà di forme, non fu solo un’espressione negativa, ma è stato anche un momento di creazione … “(26)
 
Negri e Hardt si ispirano a quel periodo per proporre oggi “nuove forme di lotta di classe”: “Diserzione e esodo sono potenti forme di lotta di classe, contro la postmodernità imperiale, nel suo stesso contesto.” (26) E precisano: “Mentre nell’era della disciplina, il concetto fondamentale di resistenza era quello del sabotaggio, nell’era del controllo imperiale può essere la diserzione (…). Le battaglie contro l’Impero possono vincersi per sottrazione e defezione. “(27)
 
Per certi intellettuali, la fabbrica è una macchina infernale ma, per i lavoratori, è, oltre ad essere il luogo in cui si guadagnano il pane, il luogo dove esercitano il loro mestiere con orgoglio e il luogo per eccellenza dove possono realizzare la lotta. La fabbrica organizza e unisce gli operai al fine di uno scontro diretto con i padroni. La fabbrica che da gli enormi profitti grazie ai quali i capitalisti si arricchiscono, è anche il loro punto debole. All’esodo, alla fuga, alla “sospensione del regime disciplinare” si oppone la visione di Lenin, che rimane sempre attuale: “Questa fabbrica, che per alcuni sembra essere nient’altro che uno spaventapasseri, è la più alta forma di cooperazione capitalistica, che ha raggruppato e disciplinato il proletariato, gli ha insegnato l’organizzazione, lo ha posto alla testa di tutte le altre categorie del popolo lavoratore e sfruttato. Il marxismo, l’ideologia del proletariato educato per il capitalismo, ha insegnato e insegna agli intellettuali incostanti la differenza tra l’aspetto sfruttatore della fabbrica (disciplina basata sulla paura di morire di fame) e il suo aspetto organizzativo (disciplina basata sul lavoro comune, risultante di una tecnica altamente sviluppata). La disciplina e l’organizzazione, che un intellettuale acquista con tanta fatica vengono assimilate con particolare facilità dal proletario, grazie appunto a questa “scuola” della fabbrica. Il mortale timore per questa scuola, l’incomprensione assoluta della sua importanza come elemento d’organizzazione, sono caratteristici del modo di pensare che riflette le condizioni di esistenza piccolo-borghese, genera questo aspetto dell’anarchismo che i socialdemocratici tedeschi chiamano Edelanarchismus, cioè l’anarchismo del signore “distinto”, l’anarchismo da gran signore, direi io.”(28)
 
E’ più di mezzo secolo che i revisionisti del marxismo sostengono di abbandonare il posto di lavoro. Altri gruppi sociali debbono incarnare la forza creativa e la creatività del cambiamento, portando un aria nuova e guidando la rivoluzione sociale. Il discorso inizia sempre con queste parole: “I tempi sono cambiati”. L’irruzione della democrazia borghese prima “modificò tutto” a livello delle nazioni, l’apparizione dei monopoli è arrivata “rimescolando di nuovo le carte”, poi è toccato modificare in profondità la situazione relativa ai diritti della sicurezza sociale nella società dell’abbondanza e, oggi, sarebbero le recenti modifiche a livello della produzione, che non avrebbero lasciato nulla come prima. Si sente dire oggi che “lo scontro, lo si trova fuori dalle mura della fabbrica”, che “è al di fuori, dove si deve cercare aria fresca”, e che “i lavoratori sono diventati egoisti”, che “la classe operaia europea ha mancato il suo appuntamento con la storia”e che “altri gruppi devono svolgere adesso il ruolo di avanguardia”.
 
Per tutto il secolo scorso, i poveri, gli esclusi, coloro che si rifiutano di lavorare, gli immigrati, gli ecologisti, i verdi, i pacifisti, le donne, gli scienziati, gli informatici … tutti, prima o poi, sono stati identificati come il gruppo sociale al quale corrisponde la guida della rivoluzione. Il punto in comune tra tutte queste teorie, è che tutte ignorano le leggi sociali ed economiche della storia, che tutti evitano la questione della produzione e il controllo della produzione.
 
Il cuore del cambiamento attuale, è la lotta tra lavoro e capitale. Non è possibile dimenticare l’analisi di Lenin a questo proposito: “In qualsiasi paese capitalistico la forza del proletariato è incomparabilmente più grande del peso numerico dei proletari nella somma totale della popolazione. E ciò perché il proletariato ha il dominio economico sul centro e sul ganglio di tutto il sistema economico del capitalismo, ed anche perché, in regime capitalistico, esso esprime economicamente e politicamente gli interessi effettivi dell’immensa maggioranza dei lavoratori. Perciò il proletariato, anche quando costituisce la minoranza della popolazione (o quando l’avanguardia cosciente e veramente rivoluzionaria del proletariato costituisce la minoranza della popolazione), è in grado di abbattere la borghesia e di attrarre poi dalla sua parte molti alleati da quella massa di semiproletari e di piccoli borghesi che non si pronuncerà mai preventivamente per il dominio del proletariato, che non comprende le condizioni e i compiti di questo dominio e che soltanto in base alla propria esperienza ulteriore si convincerà dell’inevitabilità, della giustezza, della necessità della dittatura del proletariato. “(29)
 
Il fatto che i lavoratori produttivi sono nell’occhio del ciclone, che effettuano la lotta tra lavoro e capitale sul luogo di lavoro, non significa che sono gli unici che lottano. E molto meno significa che una grande alleanza tra i lavoratori produttivi sia inutile, gli altri strati della classe operaia, i contadini, gli strati proletarizzati dell’intellighenzia, i progressisti e giovani che hanno scelto la parte degli sfruttati. Al contrario. Come i lavoratori produttivi sono formati, organizzati e disciplinati nella lotta, come i lavoratori industriali costituiscono il cuore di questo sistema di produzione, tengono la missione di spingere le altre classi sfruttate e oppresse. Non si dirigono verso gli altri strati sociali per “prendere aria” per “trovare ossigeno” o per acquisire una “forza creativa”, ma per far avanzare l’insieme della lotta sociale. Così, i gli operai metallurgici della Forges de Clabecq si unirono al movimento di insegnanti, alunni e studenti nel 1994-1996.
 
Secondo Negri e Hardt, “Si dovrebbe trovare un nuovo tipo di resistenza adeguata alle dimensioni della nuova sovranità … Oggi, inoltre, possiamo vedere che queste forme tradizionali di resistenza, come le organizzazioni operaie istituzionali sviluppatesi durante gran parte del XIX e del XX secolo, hanno iniziato a perdere il loro potere “.(30) Il movimento operaio e le sue organizzazioni sindacali si troveranno indubbiamente di fronte a nuove sfide: l’organizzazione di una forza lavoro a tempo parziale, flessibile e precaria, la mobilitazione del lavoro temporaneo e della sub contrattazione, il coinvolgimento dei dipendenti del settore privato, ecc. E quando alcuni dirigenti del movimento sindacale, come la direzione della Confederazione Europea dei Sindacati (CES), si identificano con gli obiettivi dei grandi monopoli europei e l’Unione Europea – in altre parole, “si istituzionalizzano” – il movimento sindacale perde nella pratica parte del suo potere. Ma il problema realmente, sta a livello delle organizzazioni dei lavoratori, del concetto di movimento sindacale come organizzatore della classe operaia? O riguarda un piccolo gruppo di dirigenti sindacali?
 
E’ compito del partito, dei comunisti, mettere il sindacato al servizio della classe lavoratrice, e aiutarlo a raggiungere le sue richieste politiche. Lenin ha sottolineato i compiti dei comunisti nei sindacati dei lavoratori. ” Temere questo “spirito reazionario”, tentare di cavarsela senza di esso, di saltare oltre, è la maggiore delle sciocchezze, perché significa temere la funzione dell’avanguardia proletaria, che consiste appunto, nell’istruire, nell’illuminare, nell’educare, nell’attrarre gli strati e le masse più arretrate della classe operaia e dei contadinia una nuova vita …”(31). “Ma noi conduciamo la lotta contro l” aristocrazia operaia” in nome delle masse dei lavoratori e per attrarre queste masse dalla nostra parte; conduciamo la lotta contro i capi opportunisti e socialsciovinisti per attrarre dalla nostra parte la classe operaia. Dimenticare questa verità elementarissima ed evidentissima, sarebbe stolto. E una stoltezza simile commettono appunto i comunisti tedeschi “di sinistra”, i quali dal carattere reazionario e controrivoluzionario delle alte sfere dei sindacati, traggono la conclusione che… bisogna uscire dai sindacati, rinunciare al lavoro nel loro seno, creare forme nuove, bellamente escogitate, di organizzazione operaia. E’ una sciocchezza imperdonabile, e sarebbe il maggior servizio che i comunisti possano rendere alla borghesia.”.(32)
 
Alla fine del XX secolo e inizio del XXI, il revisionismo è stato assunto da numerosi partiti rivoluzionari. Il compito di invertire questo processo, che tuttavia non è del tutto completato, porterà il movimento comunista alla testa dei movimenti di lotta. Oggi ci sono due sfide che rimangono valide: costruire quadri rivoluzionari formati nella lotta e nel Marxismo. Quadri che abbiano la capacità di costruire l’unità della classe operaia e l’alleanza sociale della classe operaia con gli altri strati oppressi.
 
Cfr. anche il libro di Peter Mertens, La classe operaia nell’era della multinazionale http://www.jaimelago.org/sites/default/files/u1/20110306LaClaseObreraeraMuntinacionales
 
1. Fonte: ILO, World Employment Report 2007, la Commissione Europea, Impiego in Europa 2004.
2. Antonio Negri, Il ritorno:quasi un’autobiografia: conversazione con Anne Dufourmantelle. Amsterdam, Van Gennep, 2003 [2002], p. 43.
3.V.I. Lenin, L’imperialismo, fase superiore del capitalismo. [1916].
4.Fonte: UNCTAD, Trade and Development Report, 2010. Nota: in questa statistica, l’impiego nella produzione (« manufatturiera») è solo una parte dell’impiego nell’industria.
5.Fonte: Commissione Europea, Statistiche Sociali Europee, risultati di studi sulla forza lavoro 2002, 2003 Edizione. Per le cifre su scala mondiale vedere: Deon Filmer, Estimating the world at Work, World Bank 1995.
6. Michael Hardt, Antonio Negri, Empire, The New World Order, Amsterdam, Van Gennep Publishing, 2002, blz. 45. Hardt e Negri proclamano di adottare questa teoría di « un gruppo di scrittori marxisti contemporanei d’Italia» senza specificare di chi si tratta.
7. Karl Marx, Capitale, Una crítica dell’ economía política [1867]. Volume I, Libro 1: Il Proceso di Produzione del Capitale. Progress Publishers, Moscow, USSR, p. 306.
8. Karl Marx, Capitalist Production as the Production of Surplus Value, Productive and Unproductive Labour. Economic Manuscript of 1861-63, in Theories of Surplus Value.
http://www.marxists.org/archive/marx/works/1864/economic/ch02b.htm. (NDT: traducido del inglés). Seconda citazione: Karl Marx, Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica, Gründisse (1857-1858). http://it.scribd.com/doc/63258471/Karl-Marx-Grundrisse-Lineamenti-Fondamentali-Di-Critica-Dell-Economia-Politica
9. Michael Hardt, Antonio Negri, Empire, The New World Order, Amsterdam, Van Gennep Publishing, 2002, p. 68.
10. idem, p. 283. Corsivo di Negri y Hardt.
11. L’Europa in cifre – L’annuario di Eurostat 2010 http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-CD-10-220/FR/KS-CD-10-220-FR.PDF
12. Nella statistica internazionale del Eurostat, i servizi sono suddivisi in: (g) vendite all’ingrosso e al dettaglio, (h) hotel e ristoranti, (i) trasporti e comunicazioni, (j) intermediazione finanziaria, (k) Attività di commercio e stati reali, (l) amministrazione e (m-q) altri servizi. In (k) si includono anche i “servizi a compagnie” (sezioni 72 e 74). I dati dello studio menzionato sono totali, senza distinzione tra lavoro salariato e lavoro autonomo per il “settore commercio”. Abbiamo deciso di mantenere una proporzione del 86%, in quanto nel totale dei “servizi” europei c’è un 86% di persone che riceve pagamenti dai servizi.
13. Michael Hardt, Antonio Negri, Moltitudine, Guerra e Democrazia nel nuovo ordine imperiale, Amsterdam, De Bezige Bij, 2004, p. 120-121.
14. Antonio Negri, Il ritorno:quasi un’autobiografia: conversazione con Anne Dufourmantelle Amsterdam, Van Gennep, 2003 [2002], p. 83.
15. Karl Marx, Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica, Gründisse (1857-1858). http://it.scribd.com/doc/63258471/Karl-Marx-Grundrisse-Lineamenti-Fondamentali-Di-Critica-Dell-Economia-Politica.
16. Karl Marx, Il capitale, [1867]. Volume I, Libro uno: Il processo di produzione del capitale, Progress Publishers, Moscow, USSR, p. 216.
17. Antonio Negri, Il ritorno:quasi un’autobiografia: conversazione con Anne Dufourmantelle. Amsterdam, Van Gennep, 2003, p. 60.
18. Max Roustan, deputato. Assemblea Nazionale. Report informativo a nome della delegazione per la pianificazione e lo sviluppo sostenibile del territorio, sulla deindustrializzione del territorio. Presidenza dell’Assemblea Nazionale, 27 Maggio, 2004, p. 46-47 http://www.assemblee-nationale.fr/12/pdf/rap-info/i1625.pdf. Itálicas añadidas, PM.
19. Commission des Communautés Européennes, Comunicación de la comisión. Accompagner les mutations structurelles : Une politique industrielle pour l’Europe élargie. Bruxelles, COM (2004) 274 final, April 20th, 2004, p. 2. http://europa.eu.int/eur-lex/fr/com/cnc/2004/com2004_0274fr01.pdf.
20. . Karl Marx, Il capitale, [1867]. Volume I, Libro uno: Il processo di produzione del capitale, Progress Publishers, Moscow, USSR, p. 315.
21. Jed Greer, Kavaljit Singh, A Brief History of Transnational Corporations, Corpwatch, 2000. http://www.globalpolicy.org/socecon/tncs/historytncs.htm#bk2_ft35.
22. Swasti Mitter, Common Fate, Common Bond. Woman in the Global Economy. Londen, Pluto Press, 1986, p. 98.
23. Karl Marx & Friedrich Engels, Manifesto del Partido Comunista [Febbraio 1848]. Foreign Language Press, Peking, 1970, Third print, p. 45. http://www.marxists.org/espanol/m-e/1840s/48-manif.htm
24. Michael Hardt, Antonio Negri, Empire, The New World Order, Amsterdam, Van Gennep Publishing, 2002, p. 272. Italics added, pm.
25. idem p. 277.
26. p. 219.
27. idem p. 217.
28. V. I. Lenin, Un passo in avanti, due passi indietro, [1904]. Ver: Collected Works, 4th English Edition, Progress Publishers, Moscow, 1965, p. 391-392 http://www.marx2mao.com/M2M(SP)/Lenin(SP)/OSF04NBs.html
29. V. I. Lenin, Le elezioni all’ Assemblea constituente e la dittatura del proletariato [Dicembre 1919]. In:Collected Works, 4th English Edition, Progress Publishers, Moscow, 1965, p. 271.
30. Michael Hardt, Antonio Negri, Empire, The new World Order, Amsterdam, Van Gennep Publishing, 2002, p. 309. Italics added, pm.
31. V. I. Lenin, Estremismo, malattia infantile del comunismo [Dicembre 1919]. In:Selected Works, English edition, Foreign Languages Publishing House, Moscow, 1952, Vol. II, Part 2. Reprint by Foreign Language Press, Peking, 1970, p. 42. http://www.marx2mao.com/M2M(SP)/Lenin(SP)/LWC20s.html
32. Idem, p. 43-44.