Cultura, egemonia culturale e battaglia delle idee

dal documento per il VI Congresso nazionale del PdCI

 

quartostato-w350L’oggetto di queste note non è l’insieme del panorama culturale italiano contemporaneo, e neppure la sua attuale degradazione legata alla crisi in atto, economica, sociale e politica e in cui può leggersi il disegno culturalmente regressivo delle classi dominanti, soprattutto in Italia. Al centro della riflessione congressuale vorremmo invece porre la questione del rapporto non episodico fra il movimento comunista in Italia e la cultura marxista, la questione del suo sviluppo, della sua divulgazione, ma soprattutto, del suo peculiare significato conoscitivo non solo come strumento di indagine critica delle strutture sociali ed economiche, ma come mezzo di comprensione generale, culturale appunto, dello svolgersi concreto dello sviluppo storico e dell’evoluzione (e/o involuzione) dello spirito umano. 

 

Siamo consapevoli che questo rapporto sia lo snodo decisivo per la riorganizzazione di una strategia di trasformazione in senso socialista della società. Ma per far questo occorre dare (e darsi ) conto delle effettive possibilità che questa operazione culturale sia effettivamente alla nostra portata, La politica culturale e le idee intorno alla cultura espresse da un partito politico sono (o meglio, dovrebbero essere) lo specchio della sua capacità di penetrazione sociale, di rappresentanza di istanze e bisogni che maturano nella struttura economica e sociale e, parallelamente, della sua capacità di interpretazione delle tendenze culturali, filosofiche che orientano e determinano lo svolgersi della battaglia ideale tra diverse concezioni del mondo, e che maturano all’interno della formazione sociale capitalistica e dei suoi rapporti di produzione.

 

Possiamo affermare, certo semplificando molto la stessa vicenda, ormai ventennale, della nostra impresa di ricostruzione del Partito Comunista, all’indomani di quel 1991 che segnò la fine del PCI e la nascita del Prc e poi, nel 1998 del PdCI, che la nostra politica culturale si è caratterizzata a grandi linee come tentativo di resistenza e mantenimento di un profilo, certo solo idealmente, in continuità con la lezione storica della politica culturale del PCI, cercando di mettere a frutto la nostra comune e diffusa memoria degli enormi meriti ascrivibili a quel partito nel suo lungo e, almeno fino agli anni ’70, fecondo rapporto con il mondo della cultura e dell’intellettualità italiana.

Per molti anni non abbiamo mancato di operare sulla base di ricognizioni il più possibile attente ai processi di impoverimento e di stagnazione, di privatizzazione e di riorganizzazione classista delle politiche culturali italiane, contrastando l’attacco ai sistemi pubblici del sapere, dell’istruzione pubblica e della ricerca, Come abbiamo rivolto decisa attenzione all’insieme del panorama culturale italiano – dai Beni Culturali ai sistemi di produzione artistica come il cinema, il teatro, l’editoria e i sistemi radiotelevisivi. Solo pochi anni ci separano, ma sembrano secoli, dai convegni tematici sulla Rai e sul Teatro, dalla rete di relazioni stabilite con decine di esponenti politici, operatori dell’informazione,docenti universitari e ricercatori, artisti e dirigenti di fondazioni culturali che ci portò dal Progetto Cultura di Milano alla capacità di intervenire sul piano legislativo sui diversi fronti di una nuova politica culturale per il nostro Paese. Terminata bruscamente l’esperienza del governo di centrosinistra, che aveva suscitato grandi aspettative, tra noi e quel mondo si è aperta una frattura, ha preso piede un grande disorientamento sul ruolo dei comunisti nella politica italiana, determinato certo dalle nostre debolezze politiche, strategiche e,in questo caso,anche tattiche, con la trappola veltroniana dell’autosufficienza del Pd, in un clima di smobilitazione delle energie e delle forze messe in campo prima e dopo il 2006. Chi, come noi e altre forze della sinistra, aveva onestamente lavorato per fermare la morsa delle logiche privatistiche e mercantilistiche, in un quadro di obbiettivi largamente condivisi che sono stati mancati, ha così pagato con la cancellazione dal Parlamento anche la sconfitta sul fronte delle politiche culturali. Ma nell’afasia della Sinistra Arcobaleno, le nostre idee sul mondo sono scomparse, nell’indistinto pensiero eclettico post e anticomunista, come in quello liberaldemocratico, e la rappresentanza della cultura del lavoro e del progresso sociale é apparsa come il gioco inutile di un club snobistico oltreché polveroso, specchio di un fallimento certo doloroso ma ormai maturato nel lungo addio del comunismo italiano dalla sua funzione politica nazionale. Noi, Comunisti Italiani, che tutto avevamo scommesso sul tentativo di salvare non solo una identità politica, ma anche la sua funzione sociale, abbiamo più di altri rischiato di essere travolti, esito possibile del resto, dopo quasi vent’anni di martellante campagna ideologica contro la storia del movimento comunista. Abbiamo scommesso rilanciando una risposta politica, l’unità dei comunisti, in apparenza di semplice buon senso, ma intuendo la vera e propria battaglia che su tale obbiettivo si sarebbe aperta e indicato l’indispensabilità di sorreggerla con una rinnovata sfida culturale e ideale, in grado di riaprire la critica dei fondamenti su cui si regge il modello capitalistico. Dal Congresso di Salsomaggiore ci separano tre anni durissimi, nei quali è maturata la scelta di riprendere a coltivare, sperando almeno di iniziare la sfida,gli strumenti di cultura e conoscenza del pensiero critico marxista e comunista, che qui in Italia si vorrebbe estinto, ma che al contrario vive e orienta ancora milioni di persone nel mondo, sappiamo che alcuni, anche a sinistra, considera il nostro un inutile ripiegamento sul passato ormai morto, un orizzonte sterile e definitivamente chiuso dagli accadimenti di vent’anni fa e confermato dalle difficoltà di oggi. Ma fuori da ogni risposta d’obbligo alla propaganda denigratoria dagli avversari legittimi (la destra) come a sinistra dai pentiti di diverso conio, noi troviamo proprio nella vicenda concreta di questa fase economica e sociale le ragioni ancora valide del progetto comunista,. Si può essere sconfitti, dunque ma si può ricominciare, anche se l’esperienza bruciante della fine del “socialismo” sovietico è parsa a molti – fortemente interessati – la conferma pratica della fine delle “grandi idee della modernità”, secondo una formula ormai tanto usata da essere abusata, quella fine della storia predicata da Fukuyama, e dai seguaci della scuola economica di Chicago. Il punto di approdo è così diventato, trasversalmente, unico come il pensiero: la storia non è comprensibile, né esiste come luogo dello svolgersi del processo sociale, tantomeno della lotta delle classi. La storia è quella della vulgata giornalistica, dei nomi e personaggi sottratti al contesto, oppure quella dei dossier e dei Libri neri,una ininterrotta ed irredimibile sequenza di lotte di potere, violenze e atrocità. Che certo ci sono state, e in tutta la storia umana, e ben più che nel solo ‘900, divenuto il bersaglio unico nell’azione di damnatio memoriae anticomunista. Il punto cruciale di tale impostazione è la determinata volonta di sottarre la storia allo studio critico in grado di interpretarne linee di sviluppo, contesti e relazioni tra eventi, per trarne indicazione e lezione, Oggi la storia si racconta come una scena priva di fondale, da cui scompaiono gli elementi di contraddizione interni al processo di sviluppo insieme ai soggetti reali (forze produttive, forze sociali, gruppi economici, strutture statuali). La storia non può essere conosciuta perché l’assetto sociale non può essere cambiato: questa la sostanza, ricoperta di ideologia, di tutta l’operazione, mirata a disarmare il movimento operaio proprio sotto l’attacco delle politiche liberistiche, di enormi modificazioni nell’organizzazione del lavoro, nella sua espansione internazionale, nei processi produttivi indotti dalle grandi innovazioni tecnologiche, nella frattura -sempre più accentuata ma anche sempre più paradossale – tra lavoro manuale e lavoro intellettuale ridotti entrambi a merce da vendere sul mercato della pura sopravvivenza. Mentre le forze politiche un tempo titolari della sua rappresentanza politica, peraltro ben decise a mantenerla nominalmente per fini elettorali, si liquefacevano nel pentimento, disarmandolo appunto nel momento di massimo pericolo, con la robusta compiacenza di nutriti gruppi di accademici e/o intellettuali addetti alla ridislocazione teorica dei gioielli di famiglia.

Il cosiddetto pensiero post-moderno è diventato la cifra culturale dominante di un’epoca, quella che un marxista americano, Fredric Jameson, chiama il tardo capitalismo, definito tale solo nel senso di ultimo, più recente, quello che, paradossalmente si presenta come più moderno,in quanto esito di una modernizzazione dei mezzi e dei rapporti di produzione infinitamente più estesa e pervasiva che nel passato. La post-modernità è l’epoca in cui la cultura “aderisce completamente all’economia”, e che per questo non sa più vedere la distanza e il residuo “materiale” (la forma concreta della formazione economico-sociale) da cui nasce e che non sa più contrapporre a sé in modo da potersi pensare come operazione “storica e spirituale”, come diverso dalla struttura economica, sociale e di potere. Ci dice qualcosa sulle infinite e strazianti discussioni di questi anni sul contrasto insanabile tra la cultura élitaria della sinistra e cultura popolar-populista della destra, non a caso vincente dai reality alla fiction? Ciò che essa fa emergere, scrive Jameson sempre a proposito della postmodernità è la “grondante e convulsa materialità che sta alla base di tutte le cose”, tutto esiste ormai solo nella forma merce, nessun valore d’uso, la cultura che diventa merce è ormai una certezza quasi banale. Ma ancora più decisivo ai fini della nostra ricerca é che ogni merce sia ormai apparsa come cultura,e il consumo di merci definisca un orizzonte culturale impensabile dalla precedente razionalità dei moderni: l’infinito e irrealizzabile soddisfacimento non più dei “vecchi” bisogni sia primari che socialmente evoluti – i quali per definizione si realizzano entro un contesto che può/deve essere programmato e regolato socialmente/razionalmente; ma quello del sodisfacimento, per definizione senza limiti, del desiderio, dunque impossibile e per questo continuamente reiterato e riprodotto nel meccanismo seriale e incessante dell’espansione del processo produttivo di merci e di significati antropomorfi (cioè culturali) delle merci stesse, quasi una nuova condanna faustiana alla perdita di sé, questa volta ad opera di un nuovo demone, la merce. L’esplosione della bolla dei mutui sub-prime forse ha colto di sorpresa molti economisti, ma non certo i filosofi marxisti!

La post-modernità é l’epoca, il postmodernismo è la struttura ideologica del capitalismo globale sicuro del suo trionfo attraverso la più perfetta macchina di penetrazione e trasformazione culturale delle classi subalterne: la loro partecipazione/condivisione del meccanismo sociale, anche lo sfruttamento purché ciò mi apra la porta del nuovo paradiso terrestre, il consumo, di merci – valore in sé. A questo proposito, la società dei consumi capitalistici è giunta ad esprimere con una piena realmente libera espressione del suo statuto etico proprio nella trasparente “verità” dei messaggi della pubblicità: consumo dunque sono, possiedo dunque valgo, spendo dunque posso permettermi qualunque cosa. Insomma, la sostanza del verbo berlusconiano.

Affrontare questo ’attacco culturale ed ideologico, più ancora che politico, rappresenta un punto ineludibile della nostra rinnovata scommessa politica per fermare, e in tempi medi invertire, la normalizzazione di ogni conflitto sociale in Italia, in Europa e oltre. Diciamo forse solo una ovvietà constatando che l’ultima crisi dell’economia mondiale ha riproposto con eccezionale evidenza le contraddizioni capitalistiche, anche se non siamo certo alla fine del capitalismo, e pur se qualche impaziente, anche a sinistra, scambia di nuovo le cause con gli effetti e questi ultimi con gli esiti finali. Ma siamo di certo alla conferma della critica di Marx al modo di produzione capitalistico che, nella sua specifica modalità privata di appropriazione e valorizzazione del lavoro e della ricchezza sociale, distrugge risorse naturali ed ecosistemi, è all’origine degli attuali problemi del mondo, l causa squilibri, povertà, cancellazione di intere etnie, popoli e culture. Forse bisogna cominciare a guardare come dentro gli attuali assetti di potere economico e di dominio culturale, si stia aprendo anche una brutale frattura antropologica, una separazione tra gli esseri umani tra di loro, con una distrazione di massa in cui non è più data la coscienza di sé e dei propri concreti bisogni, da trasformare con un atto della coscienza in un consapevole progetto di trasformazione sociale. Tutto l’armamentario ideologico dominante è teso a dimostrare che il cambiamento sociale non solo è impossibile, ma soprattutto non è conveniente. Il mercato, che tutto alla fine può regolare e sistemare, ci risparmia anche la fatica di pensare al futuro, sarà il mercato a decidere chi muore e chi campa, siamo tornati al Fato. Ovviamente uomini e donne, lavoratori e lavoratrici, precari a vita e/o a tempo, operai e insegnanti, muratori e braccianti sottoposti al caporalato mafioso e camorrista, ricercatori a progetto nell’Università per 700 euro al mese, tutti “sanno” di essere espropriati del futuro. Ma sono stati privati degli strumenti per ritrovarlo, laddove a politica non deve regolare l’economia e lo Stato non deve fare politiche pubbliche di tutela del lavoro, della salute, dell’infanzia e della vecchiaia, laddove la politica ridotta scontro di lobbies e di oligarchie alle classi subalterne si chiede solo il tifo plebeo al demagogo di turno. Ma tutto questo comporta prezzi altissimi nella complessa dinamica sociale, e nei suoi risvolti sia morali e psicologici individuali che nelle culture e sottoculture delle classi sociali. La speranza – nel cambiamento, nella trasformazione sociale, nel progresso, nella fine dello sfruttamento, ogni speranza, è costruita su una “capacità” della coscienza. Anche l’impossibilità della speranza è segno di una crisi in atto di carattere regressivo, in cui la forma dell’uomo immaginata dalla razionalità illuministica (dalla rivoluzione francese e poi giunta fin qui proprio grazie a pensiero di Marx),- l’’uomo attore di un progetto universale di emancipazione dallo sfruttamento ma anche dalle superstizioni, dagli egoismi di casta e dagli odi razziali – appare annullato nell’attuale formazione sociale. La distruzione della politica e dello spirito pubblico da parte del capitalismo globale, che ha degradato a merce ogni aspetto della vita introducendo la logica del profitto privato anche nelle sfere intime e costitutive dell’identità degli esseri umani, è anche distruzione dell’umanità e della dimensione “spirituale” dell’uomo contemporaneo. E’ l’altra faccia diquella solitudine, di quella impotenza o di quella disperazione. E’ l’uomo in-significante nella storia, è “il non esserci nella storia”, carattere precipuo delle classi subalterne prima delle grandi rivoluzioni democratiche e poi di quelle socialiste e comuniste. E’ l’impossibilità di darsi, come scriveva Antonio Gramsci, una “organizzazione e una disciplina del proprio io interiore” che è “presa di coscienza della propria personalità, è conquista di coscienza superiore”. E questo non può avvenire per evoluzione spontanea, non è un fatto di natura, perché, al contrario “l’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica”. Anche Ernesto De Martino, nella sua lunga frequentazione del mondo meridionale e delle sopravvivenze arcaiche di magismo e di riti giunti a noi dal mondo pagano precristiano, ci aveva insegnato a riconoscere i segni dell’insignificanza sociale e storica dei poveri contadini meridionali: per sfuggire alla totale perdita della propria integrità, per sfuggire alla paura e alla follia, l’uomo povero del profondo mezzogiorno dimenticato, in balia di ogni potente di turno, senza difesa alcuna di fronte alle disgrazie, alla malattia e alla morte, può solo sperare nel potere magico e rituale, che la Chiesa gli lascia ben frequentare, nell’azione di mantenimento della sua condizione di subalternità culturale, ideologicamente “per difesa” dell’equilibrio mentale dell’ignorante, storicamente per la difesa dell’ordine sociale di cui egli è l’ultimo gradino, la bestia da lavoro nei campi, la carne da macello nelle guerre. L’uomo povero del profondo mezzogiorno dimenticato allontana il male da sé con il rito tribale dell’esorcismo o confida nell’anestetico della perdita di coscienza e dell’euforia artificiale nel vortice drammatico e doloroso della taranta, oppure affida il morto al lungo lamento delle donne per placare e allontanare la sua anima, mai sicuro che la morte abbia davvero potuto saldare il conto di una vita senza gioia e senza riscatto. Forse, insieme alla categoria di “rivoluzione passiva” tanto utile oggi a decifrare la capacità egemonica della destra e del suo blocco sociale di riferimento, converrebbe cominciare a usare anche questa categoria gramsciana “di uomo come creazione storica” e quella demartiniana di “perdita della presenza nella storia”. Perché sono tanti i segni, rovesciati come nella scrittura di Leonardo davanti ad uno specchio, che ci mostrano che l’ideologia della fine della storia faccia riemergere proprio l’antica assenza delle classi subalterne dalla storia; e come questa tendenza sia connessa alla materialità dei rapporti economici e di proprietà, e come ciò corrisponda alla progressiva distruzione/sottrazione (dalla sfera pubblica) della principale ricchezza sociale che è oggi il sapere. Gli stessi segni ci dicono anche come ciò sia connesso alla distruzione degli equilibri vitali per il nostro pianeta e per gli esseri che la abitano. I mostri generati dalla devastazione sociale, culturale ed ambientale del mondo stanno generando altri mostri, a partire da nuove e devastanti culture irrazionali, da misticismi d’accatto, da deliranti teorie superomistiche neonaziste, incunaboli di violenza e di malattia morale dove incanalare e usare l’aggressività sociale. E senza badare a spese, anzi realizzando immensi profitti, organizzazioni economiche potenti, spesso collegate ai settori dell’intrattenimento e dell’industria cinematografica, televisiva ed editoriale, orientano e alimentano una sottocultura di massa antiscientifica, nemica della storia, della razionalità e delle conquiste intellettuali della civiltà umana, sia sul filone apocalittico (l’imminente fine del mondo, i disastri provocati dalla tecnica ,mostro incontrollabile evocato dal progresso scientifico), sia su quelli neofeudali e manichei della lotta del bene contro il male, astrazione meta -storica oltre che metafisica, che alimenta l’adesione in- cosciente e di massa a ideologie integraliste Sono tutti indicatori di una crescente prigionia culturale delle classi subalterne sotto l’egemonia culturale della destra e delle classi capitalistiche, sono segni contro i quali è necessario intraprendere una nuova lotta ideale, culturale, civile. A questa esigenza si può dare risposta solo ricominciando a scrivere laddove fu chiuso il libro della nostra storia da gran parte di quel gruppo dirigente che oggi boccheggia davanti alla crisi del capitalismo e alle sue guerre, quasi una nemesi per chi allora celebrò la sua (del capitalismo) vittoria contro l’esperimento socialista come il ”nuovo inizio” di un mondo pacificato, di libertà e progresso. Per noi il compito non è però reso più facile dall’evidenza dei disastri fin qui descritti, certo per i limiti politici determinati dagli attuali rapporti di forza, ma soprattutto per la debolezza delle risposte che si sono date, sul terreno politico, ideale e culturale, anche da parte nostra. La frammentazione, la dispersione dei comunisti è ancora oggi, vent’anni dopo, il problema, la cui soluzione non può che fondarsi nella ricostruzione di una teoria e di una pratica della trasformazione sociale. Per questo, dopo anni di tentativi di ridurre l’esperienza storica del movimento operaio e comunista alla categoria dell’errore e del fallimento, al nostro dibattito si pone anche l’esigenza culturale del riconoscimento critico ma politico in senso generale anche della storia di questi venti anni, senza baloccarsi in inutili auto rassicurazioni narcisistiche (la tentazione sempre presente come fuga dalla realtà!) ma recuperando un pensiero realistico su cosa sarebbe stata la vicenda italiana di questi anni senza la presenza, pur minoritaria, dei comunisti. Perché attiene agli orientamenti culturali e alla ripresa di una vigorosa battaglia delle idee anche l’uscita dalla subalternità nostra e di della sinistra italiana alle più varie tendenze nichiliste, tanto seducenti quanto devastanti, imposte al dibattito pubblico dalla borghesia e dalla sua strutturale crisi morale e intellettuale. Ma essa ha un vero e molto serio obbiettivo di fase: la distruzione di ogni forma di democrazia e la definitiva espropriazione politica della classi subalterne con la distruzione dei partiti, anzi, del “partito” quale forma di autonoma organizzazione delle classi subalterne, capace di unificarne le lotte, elaborare e proporre un’altra concezione del mondo. E’ contro “questo partito” – che storicamente è vissuto nell’esperienza dei partiti comunisti- che si combatte da vent’anni una guerra di logoramento culturale feroce. E’ la guerra contro una classe e contro la cultura marxista che l’ha interpretata e rappresentata in termini potenti ed evocativi sul piano pericoloso dei valori culturali universali, ciò che la borghesia ha assegnato e riservato invece solo a se stessa,.

Ma la sfida nostra sta proprio qui: nel recupero di quella vera e propria costruzione filosofica del soggetto rivoluzionario di nuovo in grado di prodursi, di nascere nel processo storico concreto, e di realizzare forme di trasformazione sociale e umana in virtù di una sua propria evoluzione intellettuale nel processo di produzione. Il marxismo è stato e continua ad essere lo strumento di analisi, penetrazione, scoperta, del carattere storico e dunque transitorio del capitalismo come del carattere strutturale delle sue crisi. E’ per questo che la risposta all’anarchia capitalistica che disperde, rapina e degrada gli uomini e il loro lavoro, come il pianeta e le sue ricchezze, è nel controllo sociale dei mezzi di produzione. Ricetta già prodotta dalla cultura marxista, e non solo quella comunista, strumento da sottoporre a studio approfondito, ma in gran parte di nuovo centrale in altri seri esperimenti di transizione. Al di fuori di questo orizzonte la prospettiva è fatta di ciò che è già iniziato da tempo sotto i nostri occhi: regressione sociale, chiusure nazionaliste, militarismi, integralismi religiosi.

La cultura contemporanea non può fare ameno del marxismo se vuole mantenere capacità di promuovere il progresso sociale. Ovunque nel mondo appare con sempre più chiara evidenza che lo stesso binomio democrazia- cultura ha bisogno per affermarsi di uno sviluppo economico che sia sottratto alle logiche di profitto capitalistico: l’Italia, paese che ha vissuto gli ultimi tre decenni dentro una soffocante stagnazione economica e produttiva, sta precipitando dentro una crisi culturale e civile senza precedenti, alimentata dalla miopia delle sue classi dirigenti economiche e politiche. Siamo in presenza dell’intreccio pericoloso tra antiche questioni sociali mai risolte e nuove gravi emergenze: emergenze democratiche, emergenze sociali ed emergenze culturali in senso proprio , basti pensare ai divari sociali e territoriali nell’ accesso ai saperi, all’esclusione formativa su base di classe, alla vertiginosa perdita delle competenze linguistiche e matematiche della popolazione italiana rispetto agli altri paesi OCSE e, più in generale, ai fenomeni di analfabetismo di ritorno che configurano una vera e propria tipologia moderna di subalternità culturale).
In Italia, culla della rivoluzione scientifica moderna, si propongono e prosperano, anche grazie al clima di eclettismo culturale imperante anche nella cosiddetta sinistra, le ideologie della cosiddetta decrescita e del non sviluppo che, al di là dei diversi travestimenti ideologici, finiscono per allearsi a quelle istanze cosiddette etiche, per lo più su base religiosa, che intendono limitare l’autonomia della scienza e della ricerca.

Parallelo si è sviluppato il processo di concentrazione economica in mano a ristretti gruppi industriali e finanziari secondo un disegno di monopolizzazione del sapere a livello mondiale di cui sono espressioni, pur diversissime tra loro, sia l’impoverimento scientifico e culturale di paesi come il nostro insieme ad altri paesi come la Grecia e il Portogallo nell’area mediterranea, sia l’embargo tecnologico contro la maggior parte dei paesi di nuovo sviluppo. Ma l’inciampo è arrivato, con la crisi attuale esplosa nel cuore finanziario del mondo capitalistico dal 2007,, la cui profondità non sembra prossima a finire, e i cui costi sociali e umani drammatici, ma anche determinando una cesura e un cambiamento profondo negli orientamenti culturali e nello stesso dibattito scientifico che si è riaperto sia sulle concrete scelte di politica economica, ma anche nel confronto tra studiosi dell’economia politica..

Si è così rimesso in gioco il marxismo, tornato agli onori della ricerca, che non ha ancora riscontri socialmente estesi, ma, ci fa piacere osservare quanto questa ripresa sia attentamente monitorata dai Tinks Tank del capitalismo internazionale. E l’intera storia del comunismo mondiale, le sue passate ed attuali performance sta tornando come spauracchio per molti, ma anche come felice e liberatoria riscoperta dei tanti, e sono molti di più, alla ricerca di una alternativa realistica a questa situazione senza futuro.

Le cifre della crisi e dei differenziali di PIL nelle diverse aree del mondo ci dicono che si, forse è vero che siamo di fronte ad uno scontro di civiltà, ma che tale scontro non si svolge tra le armate crociate e gli eredi di Salahaddinn, ma più credibilmente tra il capitalismo internazionale che prevede lo Stato solo per farsi ripianare i debiti privati e un modello sociale ed economico che ha cercato e, in gran parte trovato, l’uscita dal sottosviluppo attraverso la programmazione controllo sociale della produzione e di uno sviluppo dai.caratteri impetuosi.Non ci facciamo illusioni, è presto per sapere anche solo immaginare l’esito della partita, anche perché siamo tra quelli che sanno quanto la crisi del capitalismo non rappresenti di per sé il termine della sua parabola. Ma che di parabola si tratti siamo certi e per questo ci poniamo il compito di riannodare i fili di quella funzione civilizzatrice e di progresso della società, contro ogni regressione sociale, che storicamente il pensiero marxista, il movimento comunista hanno saputo svolgere proprio nei momenti più difficili e bui della storia italiana. Oggi quell’impegno va ripreso, rielaborato e nuovamente definito da forze sociali, politiche ed intellettuali decise a misurarsi, prima di tutto sul piano della battaglia culturale, contro quella che giudichiamo la distruzione dell’idea stessa di società, destinata a deperire se non sarà capace di promuovere una nuova forma di convivenza tra gli uomini fondata sull’eguaglianza e la giustizia sociale. Per far questo non riteniamo necessario né auspicabile che il partito comunista scegliesse di darsi una specifica, in sé conclusa, politica culturale, Riteniamo invece che il partito comunista debba svolgere un consapevole e organizzato ruolo propulsore di una rete larga e partecipata di promozione culturale, di ascolto e disamina attenta e rigorosa di un nuovo, auspicabile e da noi auspicato confronto culturale di tutta la cultura marxista italiana che, una volta riaperto e sollecitato, sia poi anche accettato o rifiutato nei soui esiti dalla politica nella sua autonomia, ma, senza fuorvianti strumentalismi o legittimazioni di maniera che, a loro volta, non rispetterebbero la libertà stessa della ricerca scientifica. E per quanto in Italia sia stato oscurato oltreché impoverito e spesso chiuso nelle ridotte solitarie di studiosi resistenti in ambienti accademici indifferenti se non più spesso ostili,, il marxismo mantiene grandi potenzialità di ricerca e di confronto scientifico, dall’economia all’epistemologia, dalla storia alle scienze classiche, dalla matematica all’etica, dalle scienze sociali alla pedagogia e può contare su forze intellettuali prestigiose per ritornare protagonista del dibattito culturale e filosofico del nostro Paese.

Se, come abbiamo imparato dai nostri maestri, Marx, Lenin, Gramsci in testa, il marxismo non può mai essere ridotto ad un rigido formulario concluso in se stesso ma strumento di indagine del processo storico e delle forme con le quali evolve e si trasforma il modo di produzione e riproduzione sociale, allora solo il protagonismo dei soggetti sociali e politici concretamente impegnati nella trasformazione sociale, accanto allle nuove forze intellettuali può compiere l’ opera di rielaborazione e ricontestualizzazione del marxismo.
Già il Manifesto del Partito Comunista, descrivendo 150 anni fa la distruzione di ogni assetto del passato ad opera del capitale, aveva previsto come nel suo sviluppo mondiale il capitalismo avrebbe teso al monopolio dell’intera ricchezza, della forza militare, all’alienazione e alla separazione degli individui con la rottura di ogni forma di solidarietà umana. La penetrazione globale del capitale finanziario investe, pur con differenti conseguenze, ogni piano dell’esistenza di chi abita il pianeta: precarietà lavorativa e degradazione del lavoro umano a merce, sfruttamento del corpo umano, appropriazione privata dei saperi.

E con il Manifesto del !848 noi continuiamo a pensare che il capitalismo produca ancora, nel suo sviluppo globale, i soggetti sociali in grado di rimetterlo in discussione. Dovunque nel mondo rinasce una nuova idea della trasformazione e questa speranza è già in movimento, perché sempre più chiara si fa la coscienza che al centro della ricostruzione di nuovi strumenti di lotta, come pensiamo debba essere un nuovo e più forte partito comunista, debba svilupparsi un progetto culturale rivoluzionario di giustizia sociale, uguaglianza e liberazione umana dallo sfruttamento e dall’ignoranza.