Berlinguer e il compromesso storico

Enrico berlinguer 1952di Alessandro Pascale

Pubblico Il compromesso storico e la rivista Rinascita, la tesi di laurea triennale in storia contemporanea (anno accademico 2006-2007), relatore il prof. Agostino Giovagnoli, discussa all’Università Cattolica di Milano nel febbraio 2018. Con questa tesi mi sono laureato nella facoltà di lettere e filosofia, corso scienze storiche, indirizzo storia contemporanea, con il voto di 110/110. Vi ho allegato una prefazione per rimarcare pregi e limiti dell’opera, aggiungendo alcune considerazioni generali sulla segreteria Berlinguer.

La tesi è scaricabile gratuitamente da Academia. Di seguito la prefazione.

Prefazione

Quella che segue è la mia tesi Il compromesso storico e la rivista Rinascita, con cui ho ottenuto, nel febbraio 2008 (ultima sessione anno accademico 2006-2007), la laurea triennale in scienze storiche.

L’argomento è l’approfondimento della strategia politica del compromesso storico che ha guidato la politica del PCI sotto la direzione della Segreteria Berlinguer, in particolar modo dal settembre 1973 alle elezioni Politiche del 1976. La pubblico nella consapevolezza che su molte questioni avevo un punto di vista politicamente arretrato e complessivamente inadeguato per ciò che riguarda la comprensione degli eventi. All’epoca ero un giovane ventiduenne ancora ignaro della complessità della lezione “leninista” e attratto invece dal “mito” di Berlinguer che veniva sbandierato in quegli anni da diverse sponde politiche. Non avevo ancora sviluppato contatti con organizzazioni comuniste e non avevo ancora approfondito la storia universale del ‘900, compito che credo di aver parzialmente assolto almeno nei fondamentali nell’opera A cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre. In difesa del socialismo reale e del marxismo-leninismo, pubblicata il 15 dicembre del 2017 direttamente sul web (su Intellettualecollettivo.it), e scaricata gratuitamente da oltre 3000 persone. Ne approfitto per segnalare che per favorirne ulteriormente la diffusione e la consultazione stiamo pubblicando i contenuti anche sul sito Storiauniversale.it.

In quell’opera, e particolarmente nel capitolo 21 dedicato all’Italia, è presente un percorso di lettura molto differente da quello che può emergere da questa tesi di laurea.

A distanza di circa un decennio, con una maggiore consapevolezza storico-politica sulle spalle, indicherei due principali punti deboli del presente lavoro:

1) la mia mancata comprensione che la svolta del “compromesso storico” non fosse tattica bensì strategica. Il compromesso storico non era una tattica per prendere il potere perché la maggioranza del gruppo dirigente del PCI era davvero convinta, seppur con sfumature diverse, di poter ottenere un avanzamento sociale governando assieme alla DC. Ciò costituisce un errore di valutazione per molteplici ragioni, e sancisce la degenerazione definitiva della “via italiana al socialismo”, la quale nelle presentazioni togliattiane era già stata sospettata di “revisionismo” dai settori rimasti “sani” del movimento comunista internazionale (dal 1956 al 1964 anzitutto la Repubblica Popolare Cinese piuttosto che l’URSS chrusceviana). La politica berlingueriana ha comportato la rottura dell’unità del movimento comunista in Europa, indebolendo notevolmente il blocco socialista e favorendone dall’interno l’ascesa di “nuove tendenze” (ogni riferimento a Gorbacev e Occhetto è puramente casuale) sostanzialmente borghesi che si innestarono sui propugnatori delle vie nazionali al socialismo. Non c’è da stupirsi troppo che oggi il PD sia diventato il partito organico della finanza internazionale, completamente dimentico della stessa lezione berlingueriana, che pure era di ben altro spessore…

2) il secondo grande difetto di impostazione è la mancanza di un approfondimento adeguato e ampio sulla questione internazionale, non a caso liquidata in poche pagine in cui emerge un giudizio inadeguato sull’Unione Sovietica. L’URSS ha infatti continuato a dare tutto l’aiuto tecnico, economico e politico possibile al PCI fino almeno alla metà degli anni ’70, interrompendo certi supporti solo a seguito della sciagurata dichiarazione di Berlinguer sulla NATO («mi sento più sicuro stando di qua, sotto l’ombrello della Nato»), che sancisce un grande spartiacque nella storia del marxismo occidentale, tanto da essere tuttora usata come arma dai “democratici” per rivendicare come ortodosso il proprio fiero atlantismo filo-imperialista. All’epoca quella di Berlinguer fu una dichiarazione personale, non concordata con gli altri membri della Segreteria, che la lessero direttamente sui giornali. Nel 2007 riportai le dichiarazioni di agenti imperialisti che sostenevano l’ostilità di Mosca alla formazione di un regime socialista in Italia. Non ho mai trovato elementi che suffragassero seriamente questa tesi. Anche sull’opera di Fasanella e Incerti sono uscite ricostruzioni che mettono in forte dubbio la veridicità delle tesi circa il desiderio sovietico di vedere Berlinguer morto. Sicuramente non era ben visto per ragioni politiche, e non a torto, verrebbe oggi da aggiungere… Per chi volesse approfondire il punto di vista del PCUS sul PCI di inizio anni ’80, rimando sempre all’opera In difesa del socialismo reale. La sostanza del discorso è che l’URSS anche nell’ultimo periodo di esistenza, lungi dall’essere «l’Impero del male» (cit. Reagan), rappresentava il baluardo della pace e della cooperazione internazionale, alla testa di un blocco alternativo a quell’imperialismo occidentale a guida statunitense che dominava – e domina tuttora – buona parte del mondo. Nel 1973 ciò era ben visibile nella dinamica del golpe cileno di Pinochet, che fornì l’occasione a Berlinguer di lanciare indisturbato una tesi che covava da tempo, dando una lettura “di destra” dell’impostazione togliattiana dei rapporti con la DC. Sostanzialmente Berlinguer si convinse dell’impossibilità di governare democraticamente anche con un eventuale 51% dei consensi. Berlinguer sapeva che l’imperialismo gli avrebbe fatto la guerra e ha scelto, in una fase cruciale della contrapposizione tra i blocchi, con l’Occidente in piena crisi energetica e di caduta sempre maggiore del tasso di profitto, di abbassare le armi, cercando il compromesso con la borghesia nazionale italiana e i suoi rappresentanti politici della Democrazia Cristiana. Negli stessi anni in cui la Trilateral Commission progettava a tavolino l’offensiva di classe su larga scala, scatenatasi negli anni ’70 con l’abbandono delle politiche keynesiane a favore di quelle liberiste, il PCI proponeva un armistizio di classe. In un momento in cui bisognava passare all’offensiva e far emergere tutte le contraddizioni nel campo nemico “liberale”, il PCI mise il proprio peso politico al servizio del “Paese”. Forse si poteva portare al potere la classe lavoratrice, ma da questo punto di vista si riteneva che il golpe cileno sarebbe stato l’esito ineluttabile. Di qui il tentativo di smarcarsi dal blocco socialista dando luogo alla stagione dell’eurocomunismo, che nella situazione concreta è rimasta un’opzione politica impraticabile e deleteria, spingendo il PCI nel campo del socialismo utopistico. I tempi lunghi non furono concessi a Berlinguer. Per non rischiare e per ricordare che l’Italia è, oltre a potenza imperialista, una semi-colonia a sovranità limitata sotto controllo degli USA, nel 1978 qualcuno riuscì a manovrare in modo da eliminare pure le incertezze e le ambiguità politiche che scaturivano dalle dichiarazioni di Aldo Moro. Anche su questa vicenda rimando alle ricerche più recenti.

Quali sono i pregi di questo lavoro, di cui, dopo tutte queste critiche, ritengo comunque utile dare pubblicazione a distanza di quasi 12 anni dalla sua realizzazione?

Sulla professionalità del lavoro posso dire che all’epoca venne apprezzata dalla commissione guidata dal prof. Agostino Giovagnoli, che gli diede il massimo dei voti, consentendomi di laurearmi con 110. Il prof. Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea, era noto per essere uno dei maggiori specialisti della storia della Democrazia Cristiana. Io all’epoca mi sentivo già comunista, anche se ne avevo ancora un’idea molto vaga e poco approfondita. L’ambiente dell’università cattolica, semi-imposto da quel padre a cui ho poi dedicato il lavoro, mi stava ormai stretto e cercavo di capire come passare alla specialistica all’università Statale. Non ce l’avrei fatta per una delle molte assurdità in cui incombe la burocrazia universitaria, ma questa è un’altra storia, come quella che mi portò alla scelta di fare la tesi specialistica, La Popular Music Politica. Un’analisi storico-sociale sul contesto italiano, in sociologia, con il prof. Marco Lombardi. All’epoca del primo colloquio con Giovagnoli non pensavo di trattenermi a lungo in “Cattolica”, e nella scelta della tesi volevo fare qualcosa di attinente al movimento comunista. Ricordo che proposi alcuni temi, tra cui un’analisi del compromesso storico di Berlinguer o una ricostruzione del “catto-comunismo” dei dossettiani. Meglio il compromesso storico, disse il professore, che mi affidò tre annate di Rinascita da spulciare con una nonchalance notevole. In genere la tesi triennale comporta 1 o 2 mesi di lavoro. A me ne richiese circa 6, passati a scartabellare le pagine antiche di un’epoca ai miei occhi leggendaria. Scelsi di esporre le questioni per tematiche e non in maniera meramente cronologica. Su questo, come su altre decisioni prese autonomamente, mi presi i rimbrotti del professore, che mi mise in guardia sul rischio di “banalità” nell’esporre le cose in questa maniera. Ai posteri l’ardua sentenza. Ritengo un’esposizione di questo tipo ugualmente accettabile per una narrazione di taglio storico, in quanto capace di concentrare l’attenzione sull’evoluzione di specifiche questioni, che altrimenti rischiano di rimanere sullo sfondo o scollegate. È lo stesso metodo che ho cercato di adattare, su maggiore scala cronologica, nel libro che ho pubblicato ad inizio 2017, La Soie di Chatillon. Vita, lavoro e lotta di classe e nei lavori successivi. Ai posteri la sentenza sullo stile. A proposito degli aspetti formali: pubblico la tesi a seguito di una revisione grafico-stilistica che non ha apportato cambiamenti a livello contenutistico, limitandosi ad adeguare la professionalità e la scorrevolezza di bibliografia, citazioni e note.

Un pregio dell’opera è l’assenza di una presenza troppo invadente del sottoscritto: ho preferito lasciare ampio spazio direttamente ai protagonisti di quella stagione politica. La mole di documenti è consistente, più di quanto mi ricordassi, onestamente. La lettura di questi testi, esaminati con occhi più maturi, mostra come si sia svolta la lotta politica interna e l’addomesticamento degli intellettuali organiici. Non sono mancate reazioni critiche “dal basso”, prontamente oscurate però dagli scritti redazionali filo-berlingueriani di Chiaromonte e Reichlin. Questi ultimi sono due dirigenti che nel 1989 saranno tra i favorevoli alla “svolta della Bolognina” e alla trasformazione del partito comunista in un partito della socialdemocrazia. Tutto ciò impone considerazioni da farsi anche sulla soluzione togliattiana alla “guerra di posizione” teorizzata da Gramsci.

Il nodo della formazione, sia intesa in senso generale, che più strettamente politico, era e resta centrale; in tal senso la rivista Rinascita assunse un peso notevole nell’orientare i quadri intermedi del PCI. In queste pagine si vedono bene i molteplici segni di degenerazione e di puro cedimento ideologico interni al partito. Occorre studiare senza indulgenza le ragioni per cui sia stato possibile che il partito rivoluzionario di Gramsci sia diventato quello del compromesso storico. Nessuna organizzazione comunista può rinascere dalle ceneri attuali senza un riesame approfondito degli errori tattici e strategici del movimento comunista. Tali lezioni costituiscono una preziosa messa di esperienze indispensabili per proseguire nel nostro “apprendimento” politico.

In definitiva, Il compromesso storico e la rivista Rinascita è un saggio che mi sembra utile se letto in maniera ragionata e critica; per tutti i limiti segnalati, e molti altri, non posso che appellarmi all’inesperienza legata alla giovane età (23 anni) dell’autore. Sono stato tentato di apportarvi svariate modifiche, ma credo sia giusto pubblicarla nel suo contenuto originario. Queste posizioni sono comunque rappresentative di un percorso di maturazione politica e professionale, ricordandomi che la strada per un’adeguata interpretazione del passato deve richiedere sempre un approccio critico fondato su un sistematico dubbio e su un’ampia apertura mentale.

Milano, 5 agosto 2019

Alessandro Pascale

BERLINGUER E IL COMPROMESSO STORICO

Pubblico Il compromesso storico e la rivista Rinascita, la tesi di laurea triennale in storia contemporanea (anno accademico 2006-2007), relatore il prof. Agostino Giovagnoli, discussa all’Università Cattolica di Milano nel febbraio 2018. Con questa tesi mi sono laureato nella facoltà di lettere e filosofia, corso scienze storiche, indirizzo storia contemporanea, con il voto di 110/110. Vi ho allegato una prefazione per rimarcare pregi e limiti dell’opera, aggiungendo alcune considerazioni generali sulla segreteria Berlinguer.

La tesi è scaricabile gratuitamente da Academia. Di seguito la prefazione.

 

Prefazione

 

Quella che segue è la mia tesi Il compromesso storico e la rivista Rinascita, con cui ho ottenuto, nel febbraio 2008 (ultima sessione anno accademico 2006-2007), la laurea triennale in scienze storiche.

L’argomento è l’approfondimento della strategia politica del compromesso storico che ha guidato la politica del PCI sotto la direzione della Segreteria Berlinguer, in particolar modo dal settembre 1973 alle elezioni Politiche del 1976. La pubblico nella consapevolezza che su molte questioni avevo un punto di vista politicamente arretrato e complessivamente inadeguato per ciò che riguarda la comprensione degli eventi. All’epoca ero un giovane ventiduenne ancora ignaro della complessità della lezione “leninista” e attratto invece dal “mito” di Berlinguer che veniva sbandierato in quegli anni da diverse sponde politiche. Non avevo ancora sviluppato contatti con organizzazioni comuniste e non avevo ancora approfondito la storia universale del ‘900, compito che credo di aver parzialmente assolto almeno nei fondamentali nell’opera A cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre. In difesa del socialismo reale e del marxismo-leninismo, pubblicata il 15 dicembre del 2017 direttamente sul web (su Intellettualecollettivo.it), e scaricata gratuitamente da oltre 3000 persone. Ne approfitto per segnalare che per favorirne ulteriormente la diffusione e la consultazione stiamo pubblicando i contenuti anche sul sito Storiauniversale.it.

In quell’opera, e particolarmente nel capitolo 21 dedicato all’Italia, è presente un percorso di lettura molto differente da quello che può emergere da questa tesi di laurea.

A distanza di circa un decennio, con una maggiore consapevolezza storico-politica sulle spalle, indicherei due principali punti deboli del presente lavoro:

1) la mia mancata comprensione che la svolta del “compromesso storico” non fosse tattica bensì strategica. Il compromesso storico non era una tattica per prendere il potere perché la maggioranza del gruppo dirigente del PCI era davvero convinta, seppur con sfumature diverse, di poter ottenere un avanzamento sociale governando assieme alla DC. Ciò costituisce un errore di valutazione per molteplici ragioni, e sancisce la degenerazione definitiva della “via italiana al socialismo”, la quale nelle presentazioni togliattiane era già stata sospettata di “revisionismo” dai settori rimasti “sani” del movimento comunista internazionale (dal 1956 al 1964 anzitutto la Repubblica Popolare Cinese piuttosto che l’URSS chrusceviana). La politica berlingueriana ha comportato la rottura dell’unità del movimento comunista in Europa, indebolendo notevolmente il blocco socialista e favorendone dall’interno l’ascesa di “nuove tendenze” (ogni riferimento a Gorbacev e Occhetto è puramente casuale) sostanzialmente borghesi che si innestarono sui propugnatori delle vie nazionali al socialismo. Non c’è da stupirsi troppo che oggi il PD sia diventato il partito organico della finanza internazionale, completamente dimentico della stessa lezione berlingueriana, che pure era di ben altro spessore…

2) il secondo grande difetto di impostazione è la mancanza di un approfondimento adeguato e ampio sulla questione internazionale, non a caso liquidata in poche pagine in cui emerge un giudizio inadeguato sull’Unione Sovietica. L’URSS ha infatti continuato a dare tutto l’aiuto tecnico, economico e politico possibile al PCI fino almeno alla metà degli anni ’70, interrompendo certi supporti solo a seguito della sciagurata dichiarazione di Berlinguer sulla NATO mi sento più sicuro stando di qua, sotto l’ombrello della Nato»), che sancisce un grande spartiacque nella storia del marxismo occidentale, tanto da essere tuttora usata come arma dai “democratici” per rivendicare come ortodosso il proprio fiero atlantismo filo-imperialista. All’epoca quella di Berlinguer fu una dichiarazione personale, non concordata con gli altri membri della Segreteria, che la lessero direttamente sui giornali. Nel 2007 riportai le dichiarazioni di agenti imperialisti che sostenevano l’ostilità di Mosca alla formazione di un regime socialista in Italia. Non ho mai trovato elementi che suffragassero seriamente questa tesi. Anche sull’opera di Fasanella e Incerti sono uscite ricostruzioni che mettono in forte dubbio la veridicità delle tesi circa il desiderio sovietico di vedere Berlinguer morto. Sicuramente non era ben visto per ragioni politiche, e non a torto, verrebbe oggi da aggiungere… Per chi volesse approfondire il punto di vista del PCUS sul PCI di inizio anni ’80, rimando sempre all’opera In difesa del socialismo reale. La sostanza del discorso è che l’URSS anche nell’ultimo periodo di esistenza, lungi dall’essere «l’Impero del male» (cit. Reagan), rappresentava il baluardo della pace e della cooperazione internazionale, alla testa di un blocco alternativo a quell’imperialismo occidentale a guida statunitense che dominava – e domina tuttora – buona parte del mondo. Nel 1973 ciò era ben visibile nella dinamica del golpe cileno di Pinochet, che fornì l’occasione a Berlinguer di lanciare indisturbato una tesi che covava da tempo, dando una lettura “di destra” dell’impostazione togliattiana dei rapporti con la DC. Sostanzialmente Berlinguer si convinse dell’impossibilità di governare democraticamente anche con un eventuale 51% dei consensi. Berlinguer sapeva che l’imperialismo gli avrebbe fatto la guerra e ha scelto, in una fase cruciale della contrapposizione tra i blocchi, con l’Occidente in piena crisi energetica e di caduta sempre maggiore del tasso di profitto, di abbassare le armi, cercando il compromesso con la borghesia nazionale italiana e i suoi rappresentanti politici della Democrazia Cristiana. Negli stessi anni in cui la Trilateral Commission progettava a tavolino l’offensiva di classe su larga scala, scatenatasi negli anni ’70 con l’abbandono delle politiche keynesiane a favore di quelle liberiste, il PCI proponeva un armistizio di classe. In un momento in cui bisognava passare all’offensiva e far emergere tutte le contraddizioni nel campo nemico “liberale”, il PCI mise il proprio peso politico al servizio del “Paese”. Forse si poteva portare al potere la classe lavoratrice, ma da questo punto di vista si riteneva che il golpe cileno sarebbe stato l’esito ineluttabile. Di qui il tentativo di smarcarsi dal blocco socialista dando luogo alla stagione dell’eurocomunismo, che nella situazione concreta è rimasta un’opzione politica impraticabile e deleteria, spingendo il PCI nel campo del socialismo utopistico. I tempi lunghi non furono concessi a Berlinguer. Per non rischiare e per ricordare che l’Italia è, oltre a potenza imperialista, una semi-colonia a sovranità limitata sotto controllo degli USA, nel 1978 qualcuno riuscì a manovrare in modo da eliminare pure le incertezze e le ambiguità politiche che scaturivano dalle dichiarazioni di Aldo Moro. Anche su questa vicenda rimando alle ricerche più recenti.

Quali sono i pregi di questo lavoro, di cui, dopo tutte queste critiche, ritengo comunque utile dare pubblicazione a distanza di quasi 12 anni dalla sua realizzazione?

Sulla professionalità del lavoro posso dire che all’epoca venne apprezzata dalla commissione guidata dal prof. Agostino Giovagnoli, che gli diede il massimo dei voti, consentendomi di laurearmi con 110. Il prof. Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea, era noto per essere uno dei maggiori specialisti della storia della Democrazia Cristiana. Io all’epoca mi sentivo già comunista, anche se ne avevo ancora un’idea molto vaga e poco approfondita. L’ambiente dell’università cattolica, semi-imposto da quel padre a cui ho poi dedicato il lavoro, mi stava ormai stretto e cercavo di capire come passare alla specialistica all’università Statale. Non ce l’avrei fatta per una delle molte assurdità in cui incombe la burocrazia universitaria, ma questa è un’altra storia, come quella che mi portò alla scelta di fare la tesi specialistica, La Popular Music Politica. Un’analisi storico-sociale sul contesto italiano, in sociologia, con il prof. Marco Lombardi. All’epoca del primo colloquio con Giovagnoli non pensavo di trattenermi a lungo in “Cattolica”, e nella scelta della tesi volevo fare qualcosa di attinente al movimento comunista. Ricordo che proposi alcuni temi, tra cui un’analisi del compromesso storico di Berlinguer o una ricostruzione del “catto-comunismo” dei dossettiani. Meglio il compromesso storico, disse il professore, che mi affidò tre annate di Rinascita da spulciare con una nonchalance notevole. In genere la tesi triennale comporta 1 o 2 mesi di lavoro. A me ne richiese circa 6, passati a scartabellare le pagine antiche di un’epoca ai miei occhi leggendaria. Scelsi di esporre le questioni per tematiche e non in maniera meramente cronologica. Su questo, come su altre decisioni prese autonomamente, mi presi i rimbrotti del professore, che mi mise in guardia sul rischio di “banalità” nell’esporre le cose in questa maniera. Ai posteri l’ardua sentenza. Ritengo un’esposizione di questo tipo ugualmente accettabile per una narrazione di taglio storico, in quanto capace di concentrare l’attenzione sull’evoluzione di specifiche questioni, che altrimenti rischiano di rimanere sullo sfondo o scollegate. È lo stesso metodo che ho cercato di adattare, su maggiore scala cronologica, nel libro che ho pubblicato ad inizio 2017, La Soie di Chatillon. Vita, lavoro e lotta di classe e nei lavori successivi. Ai posteri la sentenza sullo stile. A proposito degli aspetti formali: pubblico la tesi a seguito di una revisione grafico-stilistica che non ha apportato cambiamenti a livello contenutistico, limitandosi ad adeguare la professionalità e la scorrevolezza di bibliografia, citazioni e note.

Un pregio dell’opera è l’assenza di una presenza troppo invadente del sottoscritto: ho preferito lasciare ampio spazio direttamente ai protagonisti di quella stagione politica. La mole di documenti è consistente, più di quanto mi ricordassi, onestamente. La lettura di questi testi, esaminati con occhi più maturi, mostra come si sia svolta la lotta politica interna e l’addomesticamento degli intellettuali organiici. Non sono mancate reazioni critiche “dal basso”, prontamente oscurate però dagli scritti redazionali filo-berlingueriani di Chiaromonte e Reichlin. Questi ultimi sono due dirigenti che nel 1989 saranno tra i favorevoli alla “svolta della Bolognina” e alla trasformazione del partito comunista in un partito della socialdemocrazia. Tutto ciò impone considerazioni da farsi anche sulla soluzione togliattiana alla “guerra di posizione” teorizzata da Gramsci.

Il nodo della formazione, sia intesa in senso generale, che più strettamente politico, era e resta centrale; in tal senso la rivista Rinascita assunse un peso notevole nell’orientare i quadri intermedi del PCI. In queste pagine si vedono bene i molteplici segni di degenerazione e di puro cedimento ideologico interni al partito. Occorre studiare senza indulgenza le ragioni per cui sia stato possibile che il partito rivoluzionario di Gramsci sia diventato quello del compromesso storico. Nessuna organizzazione comunista può rinascere dalle ceneri attuali senza un riesame approfondito degli errori tattici e strategici del movimento comunista. Tali lezioni costituiscono una preziosa messa di esperienze indispensabili per proseguire nel nostro “apprendimento” politico.

In definitiva, Il compromesso storico e la rivista Rinascita è un saggio che mi sembra utile se letto in maniera ragionata e critica; per tutti i limiti segnalati, e molti altri, non posso che appellarmi all’inesperienza legata alla giovane età (23 anni) dell’autore. Sono stato tentato di apportarvi svariate modifiche, ma credo sia giusto pubblicarla nel suo contenuto originario. Queste posizioni sono comunque rappresentative di un percorso di maturazione politica e professionale, ricordandomi che la strada per un’adeguata interpretazione del passato deve richiedere sempre un approccio critico fondato su un sistematico dubbio e su un’ampia apertura mentale.

 

Milano, 5 agosto 2019

Alessandro Pascale