di Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli
[il presente scritto è un estratto in anteprima del seguente libro in prossima pubblicazione online: Politica-struttura espressione concentrata dell’economia]
Un’altra verifica e un ulteriore stress-test riguardo alla teoria della politica-struttura e del fatto che una sezione della sfera politica si rivela costantemente “espressione concentrata dell’economia” consiste nell’esperienza concreta e plurisecolare del capitalismo, la quale dimostra instancabilmente come proprio a fini economici e materiali di classe “il controllo del potere statale (o la sua conquista, quando era necessario) sia stato l’obiettivo strategico fondamentale di tutti i principali attori nella scena politica, lungo l’intero arco del capitalismo” (Wallerstein).
Perché dunque risulta così importante, anche nelle formazioni economico-sociali capitalistiche contemporanee, “occupare” e controllare i gangli fondamentali del potere politico e degli apparati statali?
Perché impossessandosi totalmente/parzialmente dei diversi organi dell’apparato statale, in modo più o meno completo i nuclei politici vittoriosi escludono gli antagonisti dall’accesso al potere direzionale, di controllo e repressivo delle loro formazioni statali, potendo pertanto decidere sugli affari comuni della società in un senso sfavorevole agli interessi politico-materiali dei propri avversari/antagonisti e dei loro mandanti sociali, garantendosi allo stesso tempo una favorevole riproduzione materiale della loro esistenza come soggetto politico e – soprattutto – producendo scelte di priorità almeno particolarmente a vantaggio dei loro più diretti referenti sociali.
Una prima conferma “in negativo” della sovraesposta “teoria dell’occupazione” viene dall’esperienza plurimillenaria vissuta dall’élite economica del popolo ebraico e in particolare dalla sua profonda e costante vulnerabilità, in assenza forzata fino al 1947 di un suo controllo (almeno parziale) sui centri decisivi del potere politico e degli apparati statali delle nazioni nelle quali operava.
«In diversi periodi, nell’antichità, nei secoli bui e nell’Alto Medioevo, nel XVI secolo, gli ebrei avevano avuto commercianti e imprenditori brillanti, spesso di grande successo, ma il potere economico ebraico era estremamente vulnerabile, con ben scarsa tutela sul piano legale. Sia nella cristianità sia nell’islam i patrimoni degli ebrei erano esposti a sequestro arbitrario da un momento all’altro. Si potrebbe dire che l’assalto nazista alle attività ebraiche, tra il 1933 ed il 1939, o le confische di proprietà ebraiche da parte degli stati arabi negli anni 1948-50, sono stati soltanto gli ultimi più radicali di questi attacchi economici contro gli ebrei.»
Il filosionista P. Johnson, ostile ai sacrosanti diritti del popolo palestinese, almeno ha intuito quasi per caso la reale importanza (economica) del controllo diretto-indiretto degli apparati statali per ogni classe e frazione di classe sfruttatrice: ma anche nella nostra epoca post-moderna vi sono innumerevoli segnali in questa direzione, a partire dalla vittoria nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2000 e del 2004 del repubblicano G. W. Bush.
Anche se la differenza reale tra i programmi di quest’ultimo e quelli dei democratici A. Gore e Kerry era inesistente su nodi politici centrali, quali la difesa a oltranza del sistema capitalistico americano o la priorità assoluta attribuita da tutti gli interessati alle esigenze planetarie dell’imperialismo statunitense, il successo riportato dal rampollo della dinastia Bush sui suoi rivali ha consentito per una certa fase la quasi completa affermazione della sfera dei bisogni e dell’opzione politico-materiale di alcune frazioni del monopolio statunitense operanti nel settore energetico e degli armamenti, tanto da consentire allo scrittore statunitense G. Vidal di affermare che “l’ex presidente Bush Senior rappresenta il Carlyle Group: petrolio. L’attuale presidente, George W. Bush, rappresenta la Harken Oil, che ha legami con l’Arabia Saudita. La bellissima Condoleeza Rice è stata per dieci anni una dirigente della Chevron: petrolio. Il ministro della Difesa Rumsfield, Occidental Oil: petrolio. Questi sono i grandi rappresentanti del governo” (Manifesto, dicembre 2002).
Detto in altri termini, tra il 2001 ed il 2008 i mandatari politici delle grandi multinazionali petrolifere e del complesso militare-industriale del paese hanno occupato le posizioni centrali della stanza dei bottoni di Washington, spostando con più decisione che in passato il baricentro politico dell’imperialismo USA a sostegno di posizioni iperaggressive rispetto ad aree “calde” ed importanti del pianeta quali l’Asia centrale, il Golfo Persico e l’Europa orientale, dando vita ed alimento alle guerre scatenate contro l’Afghanistan e l’Iraq nel periodo compreso tra il 2001 e il 2003 ed ottenendo dal loro successo politico enormi dividendi materiali per i loro diretti mandanti sociali: ad esempio la Lockeed Martin ha visto aumentare le sue vendite di armi al Pentagono più del 30% nel periodo compreso tra il 2001 ed il 2004.
In modo sostanzialmente corretto Norman Birnbaum, docente all’Università di Georgetown di Washington, ha focalizzato l’attenzione sul cardine centrale dell’ideologia e della pratica politica di G. W. Bush e del suo clan, in cui la distinzione tra politica ed affari sostanzialmente svanisce, anche sotto l’aspetto formale e propagandistico.
«I democratici ridono del suo nepotismo, l’accusano di considerare la politica un business. Ma, in realtà, il giovane Bush ha capito un aspetto fondamentale del capitalismo: la sottomissione della sfera pubblica al mercato. I suoi soci in affari, esattamente come suo padre, sono presenti nel commercio delle armi, nei servizi finanziari, della petrolchimica e dell’alta tecnologia. E i loro rappresentanti sono stati quindi piazzati alla testa delle istituzioni e dei dipartimenti federali».
Bush padre, Bush figlio, Silvio Berlusconi e Donald Trump costituiscono del resto quattro esempi concretissimi e ipermoderni di controllo e occupazione, diretta e plateale, del potere politico da parte di grandi miliardari e di sezioni, più o meno consistenti, dell’alta borghesia occidentale legate e connesse al quartetto in oggetto, il quale ha compreso perfettamente il ruolo giocato dalla “leva di Wallerstein”.
L’importanza di avere propri uomini e propri amici, ben “piazzati” nei gangli centrali degli apparati statali, risulta del resto perfettamente conosciuta dalla borghesia e si è manifestata chiaramente anche nei frequenti scontri creatisi tra i monopoli della stessa nazione o di diversa provenienza statale, lotte che hanno spesso segnato nell’ultimo secolo i processi economici all’interno delle metropoli del capitalismo di stato post-moderno e contemporaneo. Quando l’economista S. Cingolani ha analizzato minuziosamente le “guerre dei mercati” e le alleanze che hanno contraddistinto la storia delle multinazionali mondiali del settore dell’auto, dell’elettronica, delle finanze e dell’energia, dell’aviazione e dell’alimentazione a partire dall’inizio della seconda guerra mondiale e fino al 2000, sintetizzando i risultati complessivi del suo lavoro lo studioso italiano ha espresso un’interessante valutazione sul ruolo determinante giocato dalla sfera politica nelle guerre di mercato, con particolare riferimento al ventennio 1980-2000.
«Nel ventennio in cui lo stato ha mollato il ruolo di produttore di ricchezza, ha ridimensionato la sua funzione redistributrice (soprattutto di fronte all’esplodere dei mercati finanziari), ma molto spesso ha rinunciato anche a scendere in campo come arbitro, si sono verificate pesanti intromissioni dei governi nelle guerre di mercato per sostenere imprese (è avvenuto nella battaglia Boeing-Airbus) o interessi di gruppi organizzati (come i contadini in Europa e i produttori di auto negli Stati Uniti), operare salvataggi non tutti economicamente giustificati (l’acciaio in Europa, la Chrysler e le casse di risparmio negli USA). In modo diretto e indiretto il potere politico è sempre rimasto attivo, come abbiamo visto. Persino la Coca-Cola deve il suo primato al sostegno ottenuto dell’esercito americano durante la seconda guerra mondiale. Il dibattito sul ruolo del pubblico contrapposto al privato, dunque, dovrebbe tenere presente molto di più il concreto svolgimento del conflitto concorrenziale».
Il ruolo del settore pubblico ha esercitato un enorme peso sia nel caso politico-giudiziario che ha coinvolto la Microsoft di Bill Gates nel 1997-2001 che nel processo di sostegno finanziario statale costantemente offerto, per decenni, al monopolio torinese della FIAT, passando negli ultimi decenni dalla vendita-regalo dell’Alfa Romeo fino agli aiuti economici forniti dai governi Prodi e Berlusconi alla famiglia Agnelli per “contrastare la concorrenza internazionale”: gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare proprio partendo dall’area italiana, visto che un certo Silvio Berlusconi è sicuramente a conoscenza da molti decenni del ruolo decisivo svolto dalla sfera politico-sociale nell’assicurare il successo/insuccesso economico di certi capitalisti, di determinati monopoli e di particolari tendenze politico-sociali della borghesia monopolistica, rispetto ai loro concorrenti economici ed avversari politici.
Un’ulteriore massa di prove empiriche a sostegno dell’importanza assunta ancora oggi, proprio nell’era post-moderna, dai processi di occupazione – totale/parziale – degli apparati statali e della sfera politica da parte delle diverse frazioni che compongono l’insieme dei gruppi sociali privilegiati proviene dalle concrete esperienze moderne e post moderne vissute da tutte quelle potenti “minoranze economicamente dominanti” nei loro stati di appartenenza, abitati in larga maggioranza da popolazioni di etnia/religione/lingua diversa dalla loro, le quali risultano di regola particolarmente vulnerabili ad attacchi politico-economici da parte dei loro concittadini, ivi comprese le lobby economiche più ricche e potenti di questi ultimi.
La studiosa americana Amy Choua ha notato correttamente che, tra il 1945 ed il 2002, «in tutti i paesi del Sud e del Sud-Est asiatico, dell’Africa, dei Caraibi e delle Indie occidentali, in quasi tutta l’America Latina e in alcune zone dell’Europa orientale e della ex Unione Sovietica, il libero mercato ha determinato una rapida accumulazione di ricchezze, tanto consistenti da risultare spesso sconvolgenti, nelle mani di una minoranza etnica “estranea” o “alloctona”»: secondo Choua tali minoranze dominanti sul piano economico si distinguono sia «per le loro origini, per il colore della pelle, per la religione, per la lingua o per legami di sangue dalle masse impoverite o dalle altre sezioni dei ceti benestanti che li circondano e che li considerano appartenenti a una diversa etnia o a un gruppo differente», che per il loro interesse vitale al mantenimento/acquisizione di un grado sufficiente di controllo sulla sfera politica e gli apparati statali.
Sempre secondo la studiosa «il dato di fondo è questo: la democrazia» (di matrice occidentale e liberal parlamentare) «può risultare avversa agli interessi delle minoranze economicamente dominanti. Gli indiani del Kenya e i bianchi del Sudafrica, dello Zimbabwe e degli Stati Uniti del Sud che per generazioni hanno opposto resistenza alla democratizzazione avevano ottime ragioni per farlo: le minoranze economicamente dominanti non aspirano mai alla democrazia, almeno non quando rischiano che il loro destino sia deciso da un vero governo di maggioranza.
Alcuni lettori solleveranno di certo molte obiezioni. Spesso sembra che diverse minoranze economicamente dominanti – i cinesi in Malaysia, tanto per fare un esempio, o gli ebrei in Russia e gli statunitensi in tutto il mondo – rappresentino i più accesi fautori della democrazia. Ma il concetto di “democrazia” è notoriamente controverso, e il suo significato varia secondo l’uso.
Quando una minoranza imprenditoriale ma politicamente vulnerabile, come i cinesi del Sud-Est asiatico, gli indiani dell’Africa orientale o gli ebrei russi, auspica la democrazia, quello che ha in mente è un sistema costituzionale di garanzia dei diritti umani e di tutela della proprietà delle minoranze. In altri termini, quando questi gruppi “estranei” rivendicano la democrazia, richiedono una protezione dalla “tirannia della maggioranza”.»
In altre parole, tali “gruppi estranei” richiedono almeno un controllo parziale sulla politica economica degli stati in cui operano, ed un’occupazione parziale del potere politico.
«In modo analogo, quando le élite di sangue europeo della Bolivia, dell’Ecuador o del Venezuela parlano di democratizzazione, fanno invariabilmente riferimento allo “Stato di diritto”. Ciò che di sicuro queste élite non vogliono dalla democrazia è che il diritto di proprietà e la politica economica finiscano improvvisamente nelle mani della maggioranza di sangue indio del paese, impoverita e scarsamente istruita. (Ne siano testimonianza l’orrore provato dall’élite venezuelana quando il leader populista Hugo Chavez è asceso al potere e i conseguenti tentativi di spodestarlo)».
Tirando le conclusioni, ha acquisito un valore generale per tutte le società classiste (asiatiche, schiavistiche, ecc.) la tesi espressa dallo storico I. Wallerstein in riferimento al rapporto continuamente riprodottosi, negli ultimi secoli, tra potere politico ed interessi di classe/frazioni di classe della borghesia.
«In che modo la gente, i gruppi di persone hanno condotto le loro politiche nel capitalismo storico? La politica consiste nel cambiare i rapporti di potere in una direzione più favorevole agli interessi di qualcuno, e nel riorientare per conseguenza i processi sociali. Perseguirla con successo vuole dire trovare leve per il cambiamento che consentano il massimo vantaggio con il minimo sforzo… Non è un caso, perciò, che il controllo del potere statale (o la sua conquista, quando era necessario) sia stato l’obiettivo strategico fondamentale di tutti i principali attori nella scena politica, lungo l’intero arco del capitalismo moderno».
“Controllo del potere statale” come “obiettivo strategico”, per “conseguire il massimo vantaggio” (economico, materiale) con “il minimo sforzo”: la “leva di Wallerstein” illumina la profonda matrice e il pesante ruolo socioproduttivo svolto dalla sfera politica borghese nell’ultimo millennio.
I. Wallerstein, “Il capitalismo storio”, p. 34
P. Johnson, “Storia degli ebrei”, p. 314, ed. TEA
P. Phillips e Project Censored, “Censura 2007″, p. 339, ed. Nuovi Mondi Media
N. Birnbaum, “Le Monde Diplomatique”, ottobre 2002
S. Cingolani, “Guerre di mercato”, p. 461, ed. Laterza e W. Reymond, “Coca-Cola. L’inchiesta proibita”, p. 296, ed. Anteprima
Amy Chua, “L’età dell’odio”, pp. 31/285, ed. Carocci
I. Wallerstein, “Il capitalismo storico”, p. 34, ed. Einaudi