Lenin per l’oggi: la centralità della politica contro i piloti automatici

Intervista di Ascanio Bernardeschi a Vladimiro Giacché

da lacittafutura.it

Vladimiro Giacché ci parla della raccolta da lui curata degli scritti di Lenin sull’economia della Russia dopo la rivoluzione di Ottobre.

Vladimiro Giacché ha recentemente curato una raccolta di scritti di Lenin (Economia della rivoluzione, edito da Il Saggiatore) aventi come tema centrale i problemi della realizzazione del sistema economico di transizione verso il socialismo nella drammatica realtà della Russia post rivoluzionaria. La scelta degli articoli e le parti introduttive, sia quella iniziale che quelle ai singoli capitoli, rendono un grande servizio, nel centenario dell’Ottobre russo, agevolando la comprensione delle difficoltà incontrate lungo un quantomai impervio percorso. Ne viene fuori chiaramente l’approccio leniniano a quelle problematiche, all’interno di un quadro completamente inedito e in cui predominavano arretratezza economica, guerra civile, accerchiamento da parte delle maggiori potenze imperialistiche, carestia e via dicendo. Un approccio fatto di assoluto antidogmatismo, di capacità di ammettere e correggere gli errori, di praticare “ritirate strategiche”, di scendere a patti con forze avverse, per salvare la rivoluzione dalla sconfitta.

D. Intanto, Vladimiro, ti ringraziamo per la disponibilità a ragionare con noi di una storia che ci fornisce insegnamenti preziosi anche per l’oggi. Ti chiediamo preliminarmente le ragioni che ti hanno indotto a pubblicare questa antologia e se questo lavoro rientra in un programma più esteso di ricerca sull’economia dei paesi socialisti.

R. Da diversi anni desideravo pubblicare un’antologia di scritti economici di Lenin. Per due motivi.

Il primo: Lenin è noto come pensatore politico, in un passato ormai abbastanza lontano è stato anche apprezzato come filosofo, ma – in Italia e non solo – la conoscenza del suo pensiero economico è molto lacunosa e imprecisa. Questo è abbastanza strano se si pensa che il giovane Lenin guadagnò notorietà e rispetto nella socialdemocrazia internazionale proprio grazie ai suoi scritti economici. Ma sono soprattutto i suoi scritti di argomento economico del periodo successivo alla rivoluzione che sono stati come oscurati dal suo pensiero politico. Non a caso l’unica altra antologia degli scritti economici di Lenin pubblicata in Italia, quella edita da Umberto Cerroni nel 1977 per gli Editori Riuniti, dà un risalto molto maggiore alle prime opere che a quelle del periodo successivo alla rivoluzione d’ottobre. Viceversa, l’intreccio di economia e politica nella Russia postrivoluzionaria è così stretto che è letteralmente impossibile giudicare le decisioni politiche del Lenin capo di Stato se si ignorano i suoi obiettivi e la sua strategia in materia economica.

Il secondo motivo è legato alla rilevanza del pensiero di Lenin nella costruzione dell’esperienza sovietica e delle società socialiste novecentesche. Questa storia è oggi oggetto di una gigantesca rimozione, che ovviamente si accompagna a una feroce demonizzazione promossa da chi utilizza anche la riscrittura della storia per legittimare gli assetti di potere attuali. A chi questi assetti appaiono insostenibili dovrebbe per contro interessare una ricostruzione il più possibile esatta di questa storia, perché la conoscenza della configurazione economica di quelle società, dei loro successi ed errori è indispensabile per chi voglia porsi il problema del superamento del modo di produzione capitalistico. I primi anni della rivoluzione, ripercorsi attraverso gli scritti del suo principale artefice, offrono ricchissimi materiali per iniziare questa ricostruzione. E in effetti per quanto mi riguarda questa edizione delle opere di Lenin rientra in un progetto più generale di studio/approfondimento degli snodi fondamentali del comunismo novecentesco – letto attraverso i rapporti tra piano e mercato nelle società post rivoluzionarie.

D. Le prime misure del potere comunista, uscita dalla guerra, espropriazione dei latifondi e concessione in uso ai contadini delle terre, nazionalizzazione delle banche, furono assolutamente in linea con le aspirazioni del blocco sociale che aveva fatto la rivoluzione: operai, contadini e soldati. Quali furono esattamente le misure economiche, i problemi incontrati e quali difficoltà incontrò, nel corso della guerra civile, il “comunismo di guerra”?

R. La storia della prima fase della rivoluzione è anche la storia di un programma realizzato in pochi mesi. È il programma che si legge nelle poche righe dell’Appello ai cittadini di Russia, scritto dallo stesso Lenin e diffuso il giorno stesso della rivoluzione. In esso troviamo «l’immediata proposta di una pace democratica, l’abolizione della grande proprietà fondiaria, il controllo operaio della produzione, la creazione di un governo sovietico». Non si trattava di un programma estemporaneo. Al contrario, i suoi punti erano stati esposti in dettaglio dallo stesso Lenin in diversi scritti precedenti la Rivoluzione.

In ogni caso, l’effetto di queste misure è enorme. Il decreto sulla pace pone la Russia al di fuori della prima guerra mondiale, rispondendo alle aspirazioni più profonde di un popolo spossato da una guerra sanguinaria alla cui logica il governo di Kerenskij non aveva voluto sottrarsi. Sotto il profilo economico il decreto cruciale è però il secondo, il Decreto sulla terra, approvato dal Congresso dei soviet nella notte tra l’8 e il 9 novembre. Esso prevedeva l’abolizione immediata e senza alcun indennizzo della grande proprietà fondiaria e metteva a disposizione dei comitati contadini e dei soviet distrettuali tutti i possedimenti dei grandi proprietari fondiari e le terre dei conventi, delle chiese e della corona, con il compito di distribuirle ai contadini. Passarono ai contadini 150 milioni di ettari di terra in tutta la Russia. In media, in tutto il paese, la terra concessa in uso ai contadini passò dal 70 per cento al 96 per cento di tutta l’area coltivata. E questo in un paese in cui sino a pochi decenni prima vigeva la servitù della gleba. Con il decreto sulla terra la Rivoluzione si conquistò l’appoggio dei contadini e accentuò la spaccatura all’interno dei socialisti-rivoluzionari tra la destra (ostile all’esperimento rivoluzionario), e la sinistra, che infatti nel mese di dicembre entrò a far parte del Consiglio dei commissari del popolo vedendosi attribuito tra l’altro proprio il Commissariato all’agricoltura. Negli stessi giorni in cui venivano emanati i primi decreti del governo sovietico Lenin stese anche il Progetto di regolamento del controllo operaio, sulla cui base fu approntato il Regolamento approvato il 27 novembre 1917 il quale stabilì che gli operai potessero accedere a qualsiasi documento riguardante la vita dell’impresa e loro (o i loro rappresentanti) potessero prendere decisioni vincolanti per l’amministrazione, pur senza trasferire nelle loro mani la proprietà delle fabbriche.

Un anno dopo, nel novembre 1918, Lenin avrebbe commentato così quella misura (cito testualmente): «all’inizio, la nostra parola d’ordine è stata quella del controllo operaio. Noi dicevamo: […] il capitale continua a sabotare la produzione del paese, mandandola sempre più in rovina. È oggi evidente che ci si avviava verso la catastrofe, e quindi il primo atto fondamentale, obbligatorio per ogni governo operaio e socialista, deve essere quello del controllo operaio. Noi non abbiamo decretato di colpo il socialismo in tutta la nostra industria, perché il socialismo può organizzarsi e consolidarsi solo quando la classe operaia abbia imparato a dirigere, solo quando le masse operaie abbiano rafforzato la loro autorità. Senza di questo il socialismo è soltanto un pio desiderio. Pertanto abbiamo introdotto il controllo operaio, ben sapendo che si trattava di una misura contraddittoria e incompleta».

Perché contraddittoria e incompleta? La contraddittorietà risiedeva nel fatto che il diritto di proprietà non era intaccato, e in effetti le stesse Istruzioni generali allegate al decreto riservavano al proprietario il diritto di dare ordini esecutivi per quanto riguardava la direzione dell’impresa e facevano divieto ai comitati di fabbrica di interferire nella loro esecuzione o impartirne altri in contrasto con essi; era inoltre esplicitamente vietato ai comitati «prendere possesso dell’impresa o di dirigerla», se non a seguito di espressa deliberazione delle autorità statali. L’incompletezza consisteva nel fatto che, non esistendo alcuna forma generale di coordinamento tra le imprese, l’attività dei comitati rischiava di avere carattere aziendalistico e di perdere di vista gli interessi più generali dell’economia. A quest’ultimo problema si cominciò a porre rimedio con la creazione, nel mese di dicembre 1917, del Consiglio superiore dell’economia nazionale, ma soltanto anni dopo sarebbe stato possibile realizzare un vero e proprio piano dell’economia nazionale. Quanto all’altro problema, quello della contraddittorietà (e dei conflitti) tra controllo operaio e proprietà dell’impresa, in casi di sabotaggio conclamato e di conflitto insanabile esso fu risolto nazionalizzando le imprese. Ma è degno di nota che nei primi mesi del potere sovietico ci si mosse con molta cautela su questo terreno: Lenin era ben consapevole del fatto che «è necessario un lungo periodo di tempo perché gli operai imparino a gestire l’industria». Il primo settore nazionalizzato fu quello bancario, ritenuto a ragione un ganglio vitale dell’economia e tale da consentire una sorta di controllo dall’alto delle imprese, che andava ad aggiungersi al controllo operaio dal basso.

Se i primi mesi della rivoluzione furono una sorta di marcia trionfale (senza dimenticare però che eserciti controrivoluzionari iniziarono da subito ad operare nel paese), il panorama cambiò radicalmente con l’esplodere della guerra civile, che insanguinò il paese dalla tarda primavera del 1918 al 1921. Al posto della costruzione economica, la priorità dovette essere attribuita alla lotta per la sopravvivenza del potere sovietico. Questo significò la costruzione dal nulla dell’Armata Rossa, il cui entusiasmo riuscì a battere eserciti armati, finanziati e sostenuti apertamente dalle principali potenze capitalistiche dell’epoca. Essenziale in questo contesto fu l’approvvigionamento di cibo per gli abitanti delle città e per l’esercito. Gli approvvigionamenti furono ottenuti attraverso una dura politica di requisizione delle eccedenze agricole («e a volte» – come riconobbe Lenin più tardi – «non solo di quelle»); si tentò inoltre (con minore successo) di organizzare scambi in natura tra prodotti dell’industria e prodotti agricoli.

Si trattava di una politica in gran parte imposta dalle circostanze, ma in cui non pochi bolscevichi videro un avvicinamento al socialismo. Così, Preobraženskij vide nell’iperinflazione del periodo un fenomeno salutare in quanto avvicinava la fine dell’economia monetaria, mentre Bucharin salutò con favore il “crollo del sistema monetario” e vide nel sostanziale ritorno al baratto la “lacerazione del feticismo della merce”. Non soltanto l’illusione di molti bolscevichi che vedevano in questi fenomeni un passo avanti verso il comunismo si rivelò errata, ma le politiche seguite – pur necessarie nel contesto della guerra civile – alienarono al partito comunista le simpatie di larga parte dei contadini. I problemi esplosero, sotto forma di rivolte nelle campagne, proprio mentre la guerra civile contro i Bianchi stava finendo vittoriosamente. Questo fu il motivo fondamentale che spinse Lenin a denunciare gli errori compiuti durante il “comunismo di guerra” e a compiere una svolta radicale nella politica economica.

D. Il passaggio dal comunismo di guerra alla Nuova Politica Economica (NEP) suscitò forti perplessità e divisioni nello stesso partito comunista russo. Lo stesso Lenin ammise che si introducevano elementi borghesi nel sistema economico che egli stesso qualificò onestamente come capitalismo di stato. Quali furono le maggiori “concessioni” all’economia borghese e come vennero giustificate?

R. Innanzitutto fu reintrodotto il commercio nella forma dello scambio monetario. Fu in altre parole consentito ai contadini di vendere contro denaro la parte sostanziale della produzione agricola (quella rimanente dopo l’applicazione di un’imposta in natura che era comunque di entità molto inferiore a quanto prima veniva prelevato forzosamente). In realtà i bolscevichi tentarono in un primo tempo di organizzare lo scambio di prodotti agricoli e prodotti industriali, ma lo stesso Lenin pochi mesi dopo dichiarò che il mercato aveva preso il sopravvento su questo tentativo (cosa non difficile da spiegare, se si considera che le drammatiche condizioni dell’industria non rendevano praticamente possibile quello scambio) e che al potere sovietico restava il compito di sovrintendere all’organizzazione del commercio, anzi quello di stabilizzare la moneta per agevolare il commercio stesso. L’idea comunque è quella di ripristinare l’alleanza tra classe operaia e contadini e su questa base procedere alla ricostruzione della base produttiva, che era crollata rispetto alle condizioni d’anteguerra. La cosa funzionò. Domenico Mario Nuti ha detto molto efficacemente che, se il “comunismo di guerra” aveva garantito la sopravvivenza, la nuova politica economica garantì la ricostruzione.

Ulteriori concessioni furono ancora più clamorose, e suscitarono discussioni e polemiche molto accese all’interno del partito comunista. Penso alle ipotesi di concessioni di risorse minerarie e impianti industriali a capitalisti stranieri contro il pagamento allo Stato sovietico di una parte dei profitti. In tal modo Lenin intendeva cogliere due obiettivi: da un lato raccogliere i capitali necessari per effettuare gli investimenti necessari a far ripartire la grande industria, dall’altro spostare la competizione con le potenze imperialistiche dal piano bellico a quello della guerra e della competizione economica. In realtà le concessioni all’atto pratico furono ben poche. Più importante, almeno in termini di prospettiva, il piano di elettrificazione del paese lanciato da Lenin tra il 1920 e il 1921, con l’obiettivo di dotare l’industria di una base tecnica più moderna.

Dal punto di vista teorico, infine, il concetto chiave di questi anni è senz’altro quello del “capitalismo di Stato”. Già nel 1918 Lenin aveva risposto alle accuse di reintrodurre il capitalismo di Stato, provenienti dall’opposizione interna (i “comunisti di sinistra”), osservando che il capitalismo di Stato in un’economia come quella russa, frammentata in una miriade di piccole e piccolissime imprese contadine, sarebbe stato un passo avanti. Negli anni della NEP questo concetto diventa cruciale, ma è ora formulato sottolineando la differenza sostanziale tra un capitalismo di Stato in uno Stato in cui il potere è in mano alla classe operaia, e in cui lo Stato detiene la gran parte dei mezzi di produzione industriali, rispetto al capitalismo di Stato tradizionale, che aveva caratterizzato l’economia di guerra tedesca e che comunque era funzionale agli interessi della grande borghesia capitalistica; inoltre in quest’ultima fase delle riflessioni di Lenin il capitalismo di Stato è visto non in opposizione, ma come complementare all’economia dei piccoli produttori delle campagne, che potranno semmai associarsi in cooperative.

D. L’enorme crescita dell’economia cinese si è basata anch’essa su un compromesso con il capitale privato. Ritieni che essa, pur avendo basi specifiche, abbia fatto tesoro dell’esperienza sovietica o si tratta di una scelta indipendente da tale esperienza?

R. Ovviamente il contesto storico è molto diverso, e questo richiede cautela a chiunque provi a confrontare le politiche del Lenin della NEP a quelle seguite nella Cina da Deng Xiaoping in poi (la cosiddetta “politica di riforme e apertura”). Non mancano ricostruzioni che esplicitano i legami tra le due esperienze, e quindi il ruolo di ispiratore che Lenin avrebbe avuto nei confronti dei comunisti cinesi. Mi sembra che in effetti, fatte salve le ovvie differenze tra il potere sovietico ancora in consolidamento in un paese come la Russia, appena uscito da una sanguinosa guerra civile, e un partito comunista al potere già da quasi 30 anni in un’economia centralizzata, le due esperienze siano accomunate da un aspetto simile in termini strutturali: in entrambi i casi il tentativo è quello di sviluppare un settore privato nel contesto di un’economia in cui le leve essenziali sono in mano allo Stato. Del resto, non è un caso che negli ultimi anni una delle pochissime apparizioni di Lenin sulle copertine di un settimanale internazionale si sia avuta nel 2012 su un numero dell’ Economist dedicato a “The rise of State capitalism” [l’ascesa del capitalismo di stato], definito dal periodico britannico come “The emerging world’s new model” [il nuovo modello dei paesi emergenti], con particolare – anche se non esclusivo – riferimento proprio alla Cina e ai suoi successi economici. Più di recente Martin Wolf, del Financial Times, ha scritto un articolo cui nella traduzione italiana da parte del Sole 24 Ore(1° novembre 2017) è stato dato questo titolo: “Perché il sistema Lenin fallito in URSS ha ancora successo in Cina”. Nell’articolo il motivo di questo successo è attribuito precisamente alle “scelte intelligenti compiute da Deng Xiaoping”. Anche se poi Wolf riporta il tutto sul terreno politico, parlando del “connubio di politica leninista (intesa come autocrazia) ed economia di mercato”, mentre è chiaro che quello che si è affermato in Cina è un modello economico di economia mista, che vede la compresenza di un ruolo di orientamento delle scelte economiche ancora in mano allo Stato (direttamente e attraverso le imprese di Stato) e un forte sviluppo di un settore privato dell’economia. Si tratta di una situazione aperta, di un equilibrio mutevole e instabile. Ma comunque diversa dal “capitalismo di Stato” dei paesi occidentali, in cui il ruolo dello Stato, anziché nell’orientare le scelte economiche (totalmente lasciate in mano alle grandi corporations finanziarie e industriali), si è espresso dopo la crisi del 2008 nella più imponente socializzazione delle perdite che la storia ricordi.

D. Veniamo a noi. Cosa ci insegna in Occidente l’esperienza leniniana? Inoltre, dato l’enorme sviluppo delle forze produttive in queste realtà è possibile che l’edificazione del socialismo possa incontrare minori ostacoli?

R. Ci insegna la centralità della politica e ci invita a riconquistarla contro la presunta centralità dell’amministrazione – che altro non è che la politica a favore delle classi dominanti affidata a tecnocrazie falsamente presentate come neutrali – e contro i suoi “piloti automatici”.

Quanto alla difficoltà nell’edificazione del socialismo in Occidente, Lenin in effetti pensava qualcosa del genere: nei paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti la rivoluzione sarebbe stata più difficile a farsi, ma poi l’edificazione del socialismo sarebbe stata più rapida. Un grande sviluppo delle forze produttive è oggi obiettivamente presente. Ma ho qualche difficoltà a condividere quella speranza parlando del presente, in particolare in un momento storico come l’attuale, in cui la classe lavoratrice è divisa e disarticolata.

D. Paul Cockshott e Allin Cottrell, in diversi loro lavori, sostengono che le tecnologie informatiche disponibili rendono non necessaria, in un sistema socialista, l’economia di mercato e anzi asseriscono che l’economia pianificata supererebbe il mercato anche in efficienza. Si tratta di uno studio teorico basato sul calcolo della quantità di flussi informativi richiesti nei due opposti contesti, che non si pone quindi il problema della motivazione dei lavoratori in assenza di incentivi economici. Mi pare cioè che la cosa possa funzionare solo in seguito a un intenso lavoro per formare “l’uomo nuovo”. Ritieni comunque che nei paesi a capitalismo avanzato il passaggio dal socialismo di mercato a un’economia interamente pianificata possa essere possibile in tempi più brevi di quanto è avvenuto in economie arretrate?

R. I lavori di Cockshott e Cottrell sono sicuramente di grande interesse. Su questi temi però il dibattito è proseguito, e ci sono elaborazioni più recenti non meno interessanti (penso ad esempio al Dynamic Model of Interbranch-Intersectoral Balance elaborato da Roman Kravchenko a partire dalle intuizioni del cibernetico sovietico N. Veduta). In ogni caso, hai perfettamente ragione sull’importanza dell’impegno per formare “l’uomo nuovo”. Il Lenin della NEP ha acquisito la consapevolezza della necessità di contemperare entusiasmo e interesse personale, almeno per una lunga fase di transizione; ma negli ultimi scritti insiste sul socialismo come prodotto di un livello superiore di “civiltà”, per cui devono essere costruiti i presupposti materiali (un adeguato sviluppo delle forze produttive), ma anche culturali. Quanto alla praticabilità del passaggio a un’economia interamente pianificata, in verità, personalmente nutro qualche dubbio. Ma direi che comunque, in ogni caso, prima si dovrebbe arrivare al socialismo di mercato, ossia a un’economia mista in cui uno Stato sotto il controllo dei lavoratori effettua le scelte strategiche fondamentali, ma sussiste un mercato in cui produttori indipendenti offrono merci contro denaro. Oggi siamo molto lontani anche da questo.

Note:

[1] Lenin, Economia della Rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, ed. Il Saggiatore, Milano, 2017, pp. 521, € 29,00.