Il centralismo democratico secondo Cunhal

a cura di Annita Benassi

Riteniamo utile proporre ai lettori di Marx21.it questo importante contributo del grande dirigente comunista portoghese Alvaro Cunhal, pubblicato recentemente dal sito “La Città Futura”.

cunhal redIl centralismo democratico secondo Cunhal – Parte I
Annita Benassi, a cura di | lacittafutura.it

La democrazia interna
Il centralismo democratico, principii e pratica

L’osservanza formale dei principi di base del centralismo democratico definiti da Lenin, consacrati dall’Internazionale Comunista e praticamente dagli statuti di tutti i partiti comunisti, non definisce solo per sè il funzionamento organico del Partito, la vera relazione tra la Direzione e la base, e molto meno lo stile di lavoro.

Potrà sembrare che, definiti questi principi e garantita la loro applicazione formale, sono definite e garantite le caratteristiche fondamentali della struttura organica del Partito.

Tuttavia questo non corrisponde alla realtà.

Spettano all’adempimento formale dei principi basici del centralismo democratico molti e vari metodi di lavoro di direzione e di intervento degli organismi e dei militanti nella vita di Partito.

La correlazione del centralismo e della democrazia può presentare differenze profonde nel quadro dell’adempimento formale dei principi classici fondamentali.

Ci può essere un forte centralismo nelle decisioni, senza partecipazione effettiva delle organizzazioni e dei militanti che non sia per l’approvazione delle proposte venute dal centro, o ci può essere un intervento effettivo delle organizzazioni e dei militanti.

Può esserci un processo sistematico di determinazione delle decisioni per maggioranza e minoranza, che rifletta pertanto gravi conflitti interni, o può esserci una determinazione delle decisioni che risiede nel dibattito approfondito di opinioni convergenti che non richiede una qualche votazione.

Può esserci una pratica democratica in cui i militanti esprimono liberamente la loro opinione; o può esserci, a partire dal centro, clima di pressione e anche di coazione che limita o impedisce la vita democratica interna.

L’esperienza del nostro Partito, come quella del movimento comunista internazionale, dimostra che l’enumerazione negli statuti dei principi essenziali del centralismo democratico e anche la sua applicazione formale non basta per concretizzare i veri principi organici e la vera pratica di funzionamento di un partito.

Gli statuti del PCP (articolo 16) definiscono come principi del centralismo democratico: ” a) L’elezione di tutti gli organismi di direzione del Partito, dalla base al vertice; b) La obbligatorietà per gli organismi dirigenti di rendere conto regolarmente delle loro attività alle rispettive organizzazioni e di dare la massima attenzione alle opinioni e critiche che queste manifestano o fanno; c) La sottomissione della minoranza alla maggioranza; d) Il carattere obbligatorio delle risoluzioni e istruzioni degli organismi superiori verso gli inferiori e l’obbligatorietà per queste di fare una relazione sulla loro attività agli organismi superiori; e) La disciplina rigorosa nell’adempimento dei principi organici e delle disposizioni statutarie del Partito e la proibizione dell’esistenza di frazioni o qualunque atto di frazionismo “.

Naturalmente è importante l’adempimento formale di questi principi. Ma importante quanto l’adempimento formale è il senso profondo dell’adempimento e le forme e i metodi concreti che assume.

Le caratteristiche che attualmente ha nel nostro Partito il centralismo democratico sono il risultato di un lungo processo e di una larga esperienza. La correlazione tra il centralismo e la democrazia è mutata durante la vita del Partito in base alle condizioni concrete in cui la lotta si svolgeva. Mutò anche per fattori di ordine soggettivo – specificatamente per i criteri, orientamenti e stile di lavoro degli organismi dirigenti.

Il nostro Partito trovò fondamentalmente soluzioni giuste per garantire un orientamento politico certo e definito, una Direzione Centrale rispettata da tutto il Partito e una vita democratica tanto larga quanto le ragioni di riservatezza e difesa permisero. Il Partito apprese anche con le esperienze positive e negative risultanti dai criteri, orientamenti e stile del lavoro di direzione.

In certi momenti della sua storia, il Partito conobbe i malefici tanto degli eccessi del centralismo quanto della democrazia anarcoide. Migliorò metodi. Corresse errori. Apprese con la vita.

In questo senso si può considerare che il centralismo democratico, così come attualmente è concepito e applicato nel PCP, è il risultato dell’approfondimento e arricchimento dei suoi principi e della sua pratica attraverso una lunga esperienza.

(segue)


Il centralismo democratico secondo Cunhal -­ Parte II
Annita Benassi, a cura di | lacittafutura.it

La democrazia interna. Centralismo democratico e democrazia nella clandestinità

Il fatto che il Partito sia stato obbligato a lottare in una severa clandestinità per 48 anni di dittatura fascista ha condizionato fortemente l’applicazione dei principi del centralismo democratico.

I quattro principi considerati fondamentali furono, certamente, sempre consacrati nei documenti del Partito, specificatamente nei rapporti e risoluzioni del III, IV, V e VI Congresso e negli Statuti approvati nel V e VI Congresso. Ma fu sempre sottolineato che le condizioni di repressione feroce che si abbattevano sul Partito e la necessità imperativa di difesa obbligavano a rinforzare gli elementi del centralismo e a serie limitazioni della democrazia interna.

La necessità di difesa del Partito obbligò a mantenere segreti la maggior parte dei dati relativi all’organizzazione (includendo il numero dei membri) ai quadri e/o tutti gli aspetti della vita interna. Il fatto che soltanto un numero molto ridotto di compagni, tanto a livello centrale quanto negli organismi intermedi e di base, conoscesse certi aspetti del lavoro, ha limitato il numero di quelli che si potevano pronunciare su di loro.

Esisteva una severa divisione del lavoro. I militanti tenevano segreta la loro identità ed erano conosciuti per pseudonimi. Ogni membro del Partito conosceva il minimo degli altri membri ­ in principio, solo quelli con i quali aveva compiti da realizzare. Queste stesse condizioni impedivano un’ampia informazione alle organizzazioni, la presentazione di conti, larghi dibattiti e l’elezione degli organismi dirigenti, salvo del Comitato Centrale nei congressi e del Segretariato nel Comitato Centrale. Anche i criteri di disciplina erano necessariamente molto severi e rigidi.

Per tutte queste ragioni, e per tendenze negative nel lavoro di direzione, il centralismo fu considerevolmente rinforzato nel periodo della dittatura e la democrazia interna fortemente condizionata e limitata. In periodi prolungati della vita del Partito, la direzione centrale decideva, imponeva l’adempimento delle decisioni e prendeva misure disciplinari per quelli che non agivano in conformità. Tuttavia, anche nella clandestinità, gli orientamenti predominanti e le esperienze che alla fine vennero a determinare lo stile di lavoro andarono nel senso del compimento, il più ampio possibile, dei principi democratici ­ senza considerare tendenze, che anche si verificarono, di democrazia anarcoide, come fu il caso della tendenza anarco­liberale nel lavoro di direzione negli anni 1956 -1959.

Anche nella clandestinità, salvo periodi giustamente considerati come di eccessivo centralismo (specificatamente prima della riorganizzazione del 1940­ – 1941 e negli anni 1950­ – 1955), l’orientamento predominante fu nel senso di assicurare la democrazia interna.

Costituiscono esempio di questo orientamento l’esistenza del lavoro collettivo negli organismi esecutivi del Comitato Centrale, l’accettazione della minoranza delle decisioni prese secondo l’opinione della maggioranza, l’ascolto delle opinioni della base del Partito, le discussioni collettive nel Partito e la presentazione di rendiconti attraverso relazioni e documenti del Comitato Centrale e di altri organismi di direzione.

Per il rafforzamento della democrazia interna del Partito nelle condizioni di clandestinità, ebbe particolare importanza la realizzazione dei congressi del Partito: III Congresso (1° illegale) nel 1943, IV Congresso nel 1946, V Congresso nel 1956 e VI Congresso nel 1965.

Con il III Congresso, per la prima volta nella clandestinità, fu eletto il Comitato Centrale del Partito. Tutti questi congressi allargarono il numero dei membri degli organismi della direzione centrale, rafforzarono la direzione collettiva, sottolinearono l’importanza dell’opinione e partecipazione dei militanti del Partito in tutta l’attività. Tutti furono preceduti da numerose riunioni per elaborare i documenti soggetti all’approvazione.

Il VI Congresso fu preceduto da tantissimi dibattiti sull’orientamento politico del Partito, con particolare riguardo al Programma del Partito. Nelle discussioni del progetto di Programma intervennero centinaia di compagni, furono fatte e approvate molte centinaia di proposte di emendamenti, e il Programma, nella sua redazione finale, fu in larga misura il prodotto di un vasto lavoro collettivo nel Partito.

Le esperienze della democrazia interna raggiunte nella clandestinità e lo spirito democratico esistente nel Partito ebbero importanza determinante per lo sviluppo e l’arricchimento dei principi del centralismo democratico nelle nuove condizioni create dalla rivoluzione del 25 Aprile e dalla conquista della legalità del Partito. (segue)


Il centralismo democratico secondo Cunhal – Parte III
Annita Benassi, a cura di | lacittafutura.it

Il profondo significato della democrazia interna

La democrazia interna del Partito non si può definire in poche parole, in maniera semplicistica. Non bastano per definirla le norme consacrate nello Statuto. La democrazia interna è questo, ma molto più di questo.

Il contenuto reale della democrazia interna, nato e sviluppato attraverso la storia del Partito e delle sue esperienze, è straordinariamente più ricco e profondo dei principi e delle norme statutarie. Nell’esperienza del PCP, la democrazia interna, nella quale risiede il centralismo nella sua più elevata accezione, si è tradotto attraverso un lento e creativo lavoro educativo, e per la convergenza di tutti i suoi principi, norme e pratiche, in una caratteristica essenziale del Partito nel momento attuale: il lavoro collettivo, la nazione e la dinamica del grande collettivo di partito.

Democrazia deve significare un intervento effettivo delle organizzazioni di base e dei membri del collettivo nell’esame dei problemi e nell’elaborazione dell’orientamento del Partito. La democrazia interna presuppone l’abitudine ad ascoltare, con effettivo rispetto e interesse a comprendere e ad apprendere, opinioni differenti ed eventualmente discordanti. Presuppone la coscienza che, come regola, il collettivo vede meglio dell’individuo. Presuppone la coscienza in ogni militante che gli altri compagni possono conoscere, vedere e analizzare meglio i problemi e avere opinioni più giuste e più corrette.

La democrazia interna è un insieme di principi e un orientamento di lavoro pratico che si inserisce nella sfera della teoria, della politica, della pratica e dell’etica. La democrazia interna del Partito è una maniera di decidere un metodo di lavoro, un criterio di discussione e di decisione, una maniera di agire e di stare nella vita, una forma di pensare, di sentire e di vivere. Democrazia implica un elevato concetto circa l’essere umano, del suo valore presente e del suo valore potenziale.

Per questo il comunista formato ai principi democratici è democratico senza sforzo. È democratico perché non sa pensare e procedere altrimenti. Perché non ha uno smisurato orgoglio e vanità individuale. Perché ha coscienza dei suoi limiti. Perché rispetta, perché ascolta, perché apprende, perché accetta che gli altri possano avere ragione.

Questo profondo contenuto della democrazia interna del Partito è il risultato di una lunga evoluzione e un accumulo di esperienze, proprie e di altri. C’è ancora molto da migliorare e perfezionare. Ma la grande forza della democrazia interna del PCP e i suoi risultati mostrano che la vita interna del PCP va sulla strada giusta.

La democrazia, il collettivo e l’individuo

La democrazia interna del Partito trova una delle sue massime e significative espressioni nella direzione collettiva e nel lavoro collettivo.

La democrazia significa essenzialmente la legge del collettivo contro le sovrapposizioni e imposizioni individuali e soprattutto individualiste. Questo non significa che la democrazia disprezza l’individuo, il suo volere e il suo contributo. Al contrario. La democrazia stimola, motiva e mobilita la capacità, l’intervento, la volontà e la decisione dell’individuo. Ma, come grande merito e superiorità dello spirito e dei metodi democratici, la democrazia inserisce il contributo di ogni individuo nel quadro del contributo degli altri individui, ossia, inserisce il contributo individuale nel quadro del contributo collettivo, come parte costitutiva della capacità, intervento, volontà e decisione collettiva.

Ciò è ugualmente valido nelle organizzazioni di base e negli organismi più responsabili. Anche i dirigenti inseriscono il loro lavoro individuale nel lavoro collettivo e le loro opinioni e proposte devono essere sempre pronte all’arricchimento, al miglioramento e alla correzione. Nel nostro Partito non trova terreno fertile chi considera che la democrazia sia una forma diretta o indiretta di far prevalere le proprie opinioni individuali. Infatti si incontrano episodicamente compagni che, in termini generali, difendono la più ampia democrazia, nella forma in cui viene considerata dall’opinione dei militanti, ma che di fatto riconoscono che esiste democrazia soltanto quando impongono la loro opinione personale.

Se il collettivo a cui appartengono concorda con le loro opinioni, la democrazia (secondo loro) è applicata e allora esigono naturalmente che tutti rispettino ciò che si è deciso e contestano che altri compagni continuino a difendere le proprie opinioni. Ma se il collettivo non accetta le loro opinioni e mette in pratica quelle che sono democraticamente decise, allora (sempre secondo loro) non esiste la democrazia e, in nome della democrazia, si sentono nel diritto, contro l’opinione e le decisioni del collettivo, di difendere le loro opinioni che non furono accettate.

Tutti i membri del Partito hanno il diritto di esprimere e difendere la loro opinione nell’organismo a cui appartengono, ma nessuno ha il diritto di sovrapporre o voler sovrapporre la sua opinione individuale all’opinione del collettivo, all’opinione del suo organismo o organizzazione, all’opinione del suo Partito.

Così si intende la democrazia nel nostro Partito. È la più larga, la più sana, la più profonda che mai sia esistita in alcuno dei partiti politici portoghesi.

Democrazia, divergenze e critica

Il pieno diritto dei militanti di manifestare nell’organismo a cui appartengono le loro opinioni, eventualmente divergenti, far critiche, avanzare proposte è un importante tratto della democrazia interna. Ma la vera democrazia nel Partito esclude che le differenze di opinione si radichino in gruppi di compagni, intorno ad una o altra idea, o ad uno o altro suggeritore o animatore della divergenza.

La proibizione della formazione di correnti dentro il Partito è un principio che rispetta l’unità e la disciplina. Ma rispetta anche la concezione della democrazia. Il Partito Comunista non è un’organizzazione unitaria ma un’organizzazione politica avanzata con una natura di classe e un programma e un’ideologia corrispondenti. L’esistenza di correnti, che per definizione racchiudono disaccordi di fondo e non solo differenze di opinioni congiunturali, significherebbe che la democrazia interna non sarebbe tale da garantire il contributo effettivo di tutti nella definizione delle grandi linee di orientamento.

Le differenze di opinione, quando espresse con spirito costruttivo, intervengono come un fattore positivo per la chiarezza e la decisione. Diventano, tuttavia, un fattore negativo contrario alla democrazia interna quando si trasformano in una sistematica posizione di contestazione, di divergenza o di opposizione all’orientamento e alle decisioni democraticamente approvate.

È evidente che, in quest’ultimo caso, i contestatori si oppongono, con il loro comportamento, all’applicazione effettiva dei principi, norme e pratiche democratiche. La democrazia interna nel PCP non ha niente a che vedere con un gioco permanente (ispirato alle concezioni, abitudini e vizi del parlamentarismo borghese) di divergenze, di tendenze, di gruppi, di bipolarizzazione dei militanti, divisi tra l’opinione ufficiale e l’opinione dell’opposizione o delle opposizioni, tra quelli che detengono il potere e quelli che lo contestano.

I comunisti portoghesi osservano stupefatti casi conosciuti nei quali le riunioni della direzione, aperte al pubblico, danno lo spettacolo di conflitti violenti di “leader”, di “notabili” e di gruppi, di lotte per il comando, di manovre di corridoio, di trucchi da assemblea generale, di continue votazioni da cui escono conclusioni pubbliche date come leggi e subito dopo revocate da nuove maggioranze – mentre il Partito nel suo insieme resta come un semplice uditore e strumento obbediente soggetto a ferrea disciplina e a sanzioni, quando infrange quest’ultima.

Un tale spettacolo è considerato dai comunisti portoghesi come una vera aberrazione. Nel PCP, la Direzione lavora secondo norme democratiche. E il Partito partecipa nell’insieme a tutto il lavoro politico. La democrazia interna ammette differenze di opinione, divergenze e critiche, ma inserite nel lavoro collettivo, nella decisione collettiva e nell’azione collettiva.


Il centralismo democratico secondo Cunhal – Parte IV
Annita Benassi, a cura di | lacittafutura.it

L’elezione dei dirigenti

L’elezione degli organismi di direzione dalle rispettive organizzazioni è uno dei principi della democrazia interna. È applicabile tanto in relazione agli organismi di direzione centrale come agli organismi dirigenti di qualunque organizzazione. Dopo il 25 Aprile, scomparse le limitazioni imposte dalle condizioni di clandestinità, uno sforzo serio è stato fatto per porre in pratica questo principio.

Si tratta di un processo il cui andamento è orientato dall’idea che l’elezione degli organismi dirigenti si devono realizzare solo quando le condizioni per tali elezioni si siano create. Cioè: si intende che non sempre esistono condizioni e che, non esistendo condizioni, non sarebbe positivo precipitare la realizzazione di elezioni che, sotto la copertura della pratica formale della democrazia, falserebbero il carattere democratico delle elezioni e condurrebbero necessariamente a elezioni difettose.

Tale il caso di località in cui, per ritardo o dispersione delle organizzazioni, i militanti non si conoscono tra di loro e i compagni più responsabili conoscono poco sufficientemente i membri del Partito. Tale anche è il caso di municipi e consigli in cui la strutturazione e la politica dei quadri sono particolarmente in ritardo. È ancora il caso delle organizzazioni regionali le cui assemblee, per la vastità delle organizzazioni e per la complessità dei problemi posti, non furono vivibili fino ad oggi.

In tutti questi casi, la designazione da parte degli organismi superiori di membri di organismi dirigenti e la cooptazione da parte di questi di nuovi membri, è stata pratica normale e corrente, nonostante sempre considerata di carattere provvisorio, perché dimostra un ritardo in importanti aspetti del funzionamento democratico del Partito.

Tuttavia la situazione si è evoluta favorevolmente. Nelle 1278 assemblee di organizzazione realizzate dal 25 Aprile, furono eletti gli organismi dirigenti. Gli anni dal 1984 e 1985 furono segnati anche per la realizzazione delle assemblee delle organizzazioni regionali e distrettuali e per l’elezione delle rispettive direzioni. Si tratta di importanti passi della democrazia interna del Partito.

Le elezioni degli organismi devono avere due preoccupazioni fondamentali: assicurare, da un lato, il diritto dei militanti a scegliere i loro dirigenti e, da un altro lato, assicurare il buon fondamento e la correzione della scelta.

Quanto al primo aspetto, nonostante sia da ammettere e perfino da desiderare in ogni caso un regolamento per l’elezione (che può accrescere più o meno le forme di intervento dei militanti nell’elezione), il diritto di voto significa il diritto di votare per, o di votare contro, le proposte fatte, o di astenersi. Quelli che partecipano alle elezioni si devono sentire completamente liberi di esprimere la loro opinione e votare secondo coscienza. Quanto al secondo aspetto, è importante accertarsi che, nella votazione, ognuno sia nelle condizioni di valutare i compiti che comportano gli incarichi che si assumono, le qualità richieste per disimpegnarle e il valore relativo ai quadri. Ciò è particolarmente valido negli organismi e incarichi più responsabili del Partito, essendo per esempio assolutamente fondato il criterio di eleggere nel Comitato Centrale, e non nel Congresso, non solo la Commissione Politica, il Segretariato e il Segretariato Politico Permanente ma anche il Segretario generale del Partito.

La simpatia, l’impressione diretta e momentanea derivante da un intervento o da un discorso, la conoscenza incompleta dei quadri, l’informazione irresponsabile, possono portare a dare preferenze sbagliate ed eventualmente all’elezione di compagni senza le condizioni richieste.

Intanto si devono tener in conto due aspetti della valutazione. In primo luogo, le qualità e possibilità dei quadri, considerate globalmente in un momento dato, sono di regola molto meglio conosciute dagli organismi responsabili che dalla base nel suo insieme. In secondo luogo, numerosi importanti tratti del carattere e del comportamento sfuggono molte volte agli organismi dirigenti e sono osservati e analizzati dalla base del Partito e dai compagni di lavoro e di lotta della quotidianità. Per questo è buon criterio che siano gli organismi dirigenti a proporre i quadri da eleggere; ma è essenziale, affinché la proposta sia sufficientemente fondata e corretta, sentire prima informazioni e opinioni sui quadri da proporre.

L’elezione democratica non esaurisce la democrazia interna rispetto agli organismi eletti. I diritti dei membri del Partito in relazione alla Direzione non si limitano a eleggere i dirigenti. Gli organismi eletti non si impossessano del potere come succede nei partiti borghesi. L’attività della Direzione è inseparabile dal costante intervento democratico delle organizzazioni e dei militanti.

Il problema del voto segreto

Nel nostro Partito non si utilizza il voto segreto. Né nella elezione degli organismi dirigenti né nell’approvazione di qualche decisione. Chi vota qualcuno, da qualche punto di vista, prende di fronte agli altri la responsabilità della sua scelta. Affinché sia certa la vera coscienza e la libera scelta, questa forma di votare presuppone che il diritto di scelta, e pertanto di discordanza, sia pienamente riconosciuto, che non esista nessuna forma di coazione o di pressione, che il militante non sia alla mercé di qualche discriminazione, cattiva volontà e percezione a causa del fatto che abbia apertamente dichiarato il suo voto.

Esistono, certamente, situazioni indesiderabili, in cui queste condizioni non sono adempiute. Come risultato, la scelta dichiarata, soprattutto quando minoritaria e discordante con quella della Direzione e della grande maggioranza, sottopone il militante ad una censura di condanna, che può eventualmente avere sgradite conseguenze nella sua vita come quadro del Partito. Esistono anche situazioni (e questo è accaduto nel nostro Partito e in altri partiti fratelli) in cui il voto discordante e minoritario ha condotto a persecuzioni, condanne, sanzioni effettive e anche all’eliminazione politica di buoni quadri.

Come conseguenza di tali situazioni o in previsione di queste è sorta la questione del voto segreto. Se, in un determinato partito, si vive in un ambiente di autoritarismo, di culto della personalità, di dispotismo, o si attraversa una crisi grave segnata da profonde divergenze e conflitti, si capisce che l’utilizzo del voto segreto possa essere, in determinate circostanze, un passo per la democratizzazione della vita interna.

Intanto, fuori da tali situazioni, e come metodo per assicurare piena libertà di voto, numerosi partiti adottano il voto segreto. Rispetto all’elezione del Comitato Centrale, in base ai dati di cui disponiamo in relazione ad un elenco di 42 partiti, adottano il voto segreto 4 su un totale di 9 partiti di Paesi socialisti, 15 su un totale di 18 Paesi capitalisti europei, 10 su un totale di 15 dell’America Latina.

Nel nostro Partito non fu adottato il sistema del voto segreto. Riconoscendosi ai militanti il diritto di voto, riconoscendosi realmente il diritto di esercitarlo (di votare pro o contro) ed esistendo un’educazione e un ambiente democratici, la votazione non segreta non genera problemi.

Se si arrivasse alla conclusione che il voto non segreto è una limitazione all’espressione della volontà dei militanti, perché sottopone i votanti a qualunque ritorsione posteriore, sarebbero possibili due soluzioni. Una, l’adozione del voto segreto. L’altra, esigendo modifiche del funzionamento e un lavoro educativo più profondo, stabilire e praticare norme di vita interna del Partito che garantiscano effettivamente il diritto di ogni militante di votare secondo la sua opinione, di manifestare naturalmente di fronte agli altri la sua opinione e vedere la sua opinione rispettata dagli altri.

Nel PCP si intende che il voto non segreto (siccome è assicurato il diritto dei militanti) è un’espressione elevata della democrazia, del rispetto effettivo per l’opinione e volontà di ogni militante, della responsabilità assunta da ognuno circa la sua opinione e del suo voto, della coscienza del riconoscimento e garanzia dei diritti di tutti e di ciascuno.

Rendiconto dell’attività

Render conto dell’attività è un principio generale della democrazia interna che, in tutti i settori e a tutti i livelli, si concretizza attraverso manifestazioni molto diversificate tanto di carattere individuale quanto di carattere collettivo. Rendere conto dell’attività è soprattutto una fase costante e un atto necessario e obbligatorio nella realizzazione di qualsiasi compito. Nel lavoro quotidiano del Partito il controllo dell’esecuzione non è altro se non il seguire la realizzazione dei compiti, sollecitando regolarmente e nel tempo dovuto affinché gli organismi e i militanti rendano conto del lavoro di cui sono responsabili. La intensissima attività del Partito rende tale rendiconto materiale e indispensabile in tutti i momenti. Intanto, essendo anche frequente che decisioni prese soffrano di lungaggini e siano anche dimenticate, il miglioramento del controllo di esecuzione deve essere una preoccupazione di tutti gli organismi responsabili.

Nessun organismo e nessun militante può dire che “non devi dar conto a nessuno”. Tutti hanno rendiconti da dare a qualcuno. Questo qualcuno è il Partito, nella persona degli organismi o militanti competenti dei fatti. Se un militante o un organismo pongono difficoltà o perdono l’abitudine di rendere conto, spetta al Partito esigere che lo facciano, poiché non rendere conto non solo colpisce, degrada, disorganizza e ritarda l’attività ma crea situazioni, abitudini e vizi che sarebbero in contrasto con i principi di base della democrazia interna.

Rendere conto non è nessuna imposizione dovuta a sfiducia, nessun atto di subordinazione o di mancanza di autorità. Rendere conto è dire semplicemente ciò che si fece e perché si fece nell’ambito dei compiti stabiliti e del lavoro collettivo. O ciò che non si è fatto e perché non si è fatto. È un comportamento corretto, facile, abituale di tutti gli organismi e militanti. È un aspetto comune e quotidiano inerente alla dinamica del lavoro. I militanti rendono conto dell’attività tanto negli organismi di base quanto negli organismi superiori. E anche gli organismi di base e gli organismi superiori rendono conto della loro attività

È una forma corrente di rendere conto la spiegazione dell’attività degli organismi del Partito attraverso documenti, articoli, interventi, discorsi plenari, dibattiti e altre forme di informazione e chiarimento sull’attività del Partito. E oltre a queste forme correnti nella vita quotidiana del Partito, esistono, per i grandi bilanci, locali e momenti appropriati. Il Comitato Centrale rende conto nei congressi e conferenze nazionali del Partito attraverso i sui rapporti in cui relaziona le linee essenziali dell’attività sviluppata, si puntualizzano i suoi risultati, si procede ad una sana critica e si propongono gli orientamenti e i compiti. Gli organismi di direzione delle regioni, dei distretti, dei comuni, dei municipi, delle isole, locali, di zona, di impresa, delle professioni e di settore rendono conto nelle assemblee delle rispettive organizzazioni.

Se si considera il rendere conto in funzione della struttura organica del Partito, si può dire che questa è, in termini adeguati, realizzata nei due sensi: dagli organismi inferiori agli organismi superiori e dagli organismi superiori a quelli inferiori.

E se si considera il rendere conto in funzione della responsabilità degli organismi e dei militanti, si può dire che deve essere tanto più esigibile e tanto più rigorosa quanto più responsabile è l’organismo e il militante.

Il rendere conto è un’assunzione di responsabilità di fronte al Partito nel senso più nobile della parola. È espressione della coscienza che l’attività di ciascuno è parte integrante e indissociabile dell’attività di tutti.


Il centralismo democratico secondo Cunhal – Parte V
Annita Benassi, a cura di | lacittafutura.it

Maggioranza, consenso, unanimità

La sottomissione della minoranza alla maggioranza è una regola essenziale da quando è compresa come espressione di tutto il ricco funzionamento del Partito. Cioè, inserita in uno stile caratterizzato dalla direzione collettiva e lavoro collettivo e dal diritto e la libertà di opinione e di critica.

Se la sottomissione della minoranza alla maggioranza è intesa come una forma semplificata di decisione e di disciplina, finisce per essere non una regola democratica e una pratica democratica ma un processo democratico, falsificando grossolanamente la democrazia interna. Se, per esempio, in un organismo determinato, una parte maggioritaria dei compagni abbrevia o elimina le discussioni, se si disinteressa delle opinioni degli altri e ricorre sistematicamente alla votazione maggioritaria, deturpa e infrange il vero principio di decisione per votazione maggioritaria. Nella decisione per maggioranza non è la votazione in sé la cosa fondamentale.

La cosa fondamentale è accertare una opinione collettiva maggioritaria quando non può essere unanime. Votazioni fatte per accertare attraverso il voto maggioritario che non risiedono in un aperto, franco e profondo scambio di opinioni e nella conoscenza e nell’esame attento e reciproco di queste opinioni, sono un atto formale che assicura, certamente, che a decidere sia il maggior numero, ma non assicura che il maggior numero decida secondo coscienza. In condizioni di vita meno democratiche, la decisione per votazioni sistematiche presenta un pericolo supplementare: la tendenza per una posizione conformista,votando con i più responsabili, non cercando né di comprendere il problema in discussione né di prendere una posizione conforme alla propria coscienza.

L’accettazione del principio che le decisioni siano prese a maggioranza non significa che in ogni caso si abbia votazione. La votazione deve essere fatta quando è necessario. Può in qualche caso essere il miglior processo di accertamento. Non il processo normale e obbligatorio. Così, in numerose questioni di ordine pratico e di carattere secondario, è molte volte preferibile, in base a proposte iniziali e a un brevissimo tempo per obiezioni eventuali, procedere a una votazione che aprire e chiudere discussioni.

Rispetto alle questioni più importanti, specificatamente a decisioni politiche, se esiste un vero lavoro collettivo, non è necessario, salvo casi eccezionali, procedere ad una votazione. Lo stesso dibattito permette il chiarimento e la formazione di una opinione collettiva. L’opinione collettiva deriva con naturalezza dallo stesso dibattito. Un documento redatto o un compagno con un intervento orale concretizza la conclusione, questa riceve eventualmente una o un’altra proposta al fine di un maggior rigore e si ha la conclusione collettiva, senza che sia necessaria una votazione. A volte, a questa forma di prendere decisione viene dato il nome di consenso.

La parola è adatta. Ma è necessario essere vigili contro certe forme sbagliate di comprendere il consenso. Una conclusione collettiva presa senza votazione, nel quadro di un lavoro collettivo, non può essere confusa con conclusioni unilaterali, frettolose e tendenziose – di un dibattito incompleto in cui non tutti espressero le loro opinioni – presentate come “consenso”. L’approfondimento del lavoro collettivo fa evolvere le decisioni prese a maggioranza verso decisioni prese per consenso. Un approfondimento ancora maggiore finisce per condurre all’unanimità. Nel quadro del lavoro collettivo, l’unanimità appare come una superiore prova della democrazia esistente.

Ci sono, certamente, esempi di situazioni in cui l’unanimità può essere espressione di un ambiente di coazione politica e psicologica, di un funzionamento antidemocratico, dell’esistenza del culto della personalità, di un concetto burocratico o militarista della disciplina e dell’unità. Nel PCP, l’unanimità appare nella vita attuale come il culmine di tutto un processo democratico di partecipazione e intervento creativo dei militanti, di continuato, ampio e profondo lavoro collettivo. Osservatori superficiali rimangono sorpresi, quando, in un congresso o in una conferenza nazionale, o in assemblee di organizzazione del Partito, centinaia o migliaia di delegati approvano all’unanimità i documenti fondamentali. Ma sono ancora più sorpresi, quando vedono levarsi nell’aria la foresta di carte rosse e l’esaltante entusiasmo che accompagna la votazione e il suo risultato.

Cercano di spiegare questo fenomeno (sospetto ai loro occhi) con qualche filtraggio di delegati, con qualche terribile disciplina di tipo militare, con qualche forma di pressione o coazione, o ancora con un ritardo politico e mentale dei membri del Partito, che voterebbero tutto ciò che gli è proposto perché incapaci di pensare e di avere una opinione. Alcuni arrivano perfino a paragonare queste votazioni e questa unanimità verificata nel PCP con i dibattiti conflittuali e numerose e minuziose votazioni a maggioranza e minoranza verificate in congressi di altri partiti, concludendo che è in questi ultimi c’è la democrazia, mentre l’unanimità nel PCP dimostra la sua mancanza.

Questa valutazione dimostra la profonda ignoranza della realtà e un criterio superficiale, limitato, burocratico e piccolo borghese della democrazia. Infatti, in questi altri partiti citati, perché si verificano dibattiti tanto acuti e conflittuali nei loro congressi? Perché si assiste a divisioni tanto profonde e costanti in relazione a tutti i problemi discussi? Perché si polarizzano tante volte le opinioni e votazioni intorno a piattaforme politiche divergenti e di dirigenti in permanente conflitto? Perché questa necessità di votazioni dettagliate a proposito di cose tanto piccole? Questo accade perché non esiste una vera democrazia interna, perché si ammettono e si prolungano situazioni antidemocratiche, perché non c’è la ricerca costante di contributi dei militanti e di accertamenti democratici, perché non esiste lavoro collettivo.

In questi casi, gli accesi dibattiti e votazioni conflittuali prese sempre per maggioranza e minoranza sono l’esplosione pubblica e globale della mancanza di democrazia interna. Nel PCP, l’unanimità deriva da tutto un lavoro anteriore e profondo nel quale i militanti parteciparono, intervennero, contribuirono al risultato con le loro opinioni e le loro proposte.

Quando si assiste ad una votazione di massa e unanime in una grande iniziativa del Partito, questa votazione significa, da parte di ognuno, che riconosce che si sta approvando non qualcosa che proviene dall’alto e gli è estranea ma qualche cosa che è anche sua, per il contributo che ha dato o avrebbe potuto dare se lo avesse giudicato necessario. Le votazioni unanimi e entusiaste sono l’espressione finale di tutto un processo democratico di dibattito, definizione e decisione. Ma non solo. Sono anche l’espressione di tutta una realtà più ampia, più profonda e più ricca, abbracciando tutti gli aspetti della vita e l’attività del Partito.

Nel PCP, l’unanimità verificata nei congressi pervade la realtà della direzione collettiva e del lavoro collettivo, la pratica del riconoscimento dei diritti uguali di tutti i militanti, la profonda democrazia interna esistente e la coscienza di tutti che questa esiste ed è assicurata.


Il centralismo democratico secondo Cunhal – Ultima parte
Annita Benassi, a cura di | lacittafutura.it

Congressi, conferenze nazionali e assemblee

I congressi e le conferenze nazionali del Partito e le assemblee delle organizzazioni rappresentano un importantissimo ruolo nella vita del Partito e costituiscono una delle più ricche manifestazioni del centralismo democratico.

Già nelle condizioni di clandestinità, nonostante le difficoltà esistenti e le restrizioni imposte per motivi di sicurezza, i congressi del Partito ebbero un ruolo di rilievo nell’instaurare criteri democratici nella vita interna. Dopo il 25 Aprile, si ebbero grandiose realizzazioni, in cui si affermava lo sviluppo creativo del centralismo democratico.

Da congresso a congresso – il VII (straordinario) nel 1974, l’VIII nel 1976, il IX nel 1979, il X nel 1983 – si è accentuato il carattere collettivo sul piano politico, organizzativo e tecnico, di tutta la preparazione e realizzazione.

Riguardando tutto il Partito, dal Comitato Centrale alle organizzazioni di base, i congressi costituiscono una esaltante affermazione del grande collettivo che è il PCP. I congressi sono il collettivo che pensa, lavora, realizza, decide in un entusiasmante impegno di insieme che dà una giusta misura di come nel PCP l’orientamento politico, l’intensa attività, l’unità e la disciplina siano inseparabili dalla democrazia interna, nonostante, su altra scala, lo stesso si possa dire delle conferenze nazionali del Partito, realizzate dal 25 Aprile per decidere su problemi concreti.

A partire dal 1977, si realizzarono undici conferenze nazionali del Partito, delle quali tre sulla situazione economica e la politica economica del Partito, una sul Mercato Comune, due sul Potere Locale e cinque sulla preparazione delle campagne elettorali. Finalmente, così come i congressi e le conferenze nazionali, le assemblee delle organizzazioni costituiscono uno degli aspetti più significativi e caratteristici della vita di partito.

Secondo lo Statuto del Partito (art. 33), “l’assemblea è l’organo superiore di ognuna delle organizzazioni regionali, distrettuali, consiliari, di municipio, di isola, di luogo, di zona, di impresa, di classe professionale e di settore”. Come organo superiore di ognuna e di tutte le organizzazioni, l’assemblea ha un distaccato luogo nella struttura e nel sistema di direzione del Partito. Tuttavia la sua funzione non si limita a questo. Prezioso fattore della democrazia interna, la sua importanza, il suo ruolo e la sua influenza si ripercuotono praticamente in tutti gli aspetti della vita di partito.

Dal 25 Aprile fino al Maggio del 1985, si sono realizzate 1277 assemblee di organizzazione, delle quali 12 regionali, 5 distrettuali, 227 conciliari, 394 di municipio, 84 locali, 220 di zona di settore e di subsettore e 346 di cellula. A partire dall’ VIII Congresso fino ad oggi si sono realizzate in media 12 assemblee al mese. Di particolare rilievo le grandi assemblee delle organizzazioni regionali, realizzate nel 1984 – 1985.

L’elaborazione di studi e documenti riguardanti praticamente tutti gli aspetti della vita di settore, le riunioni e i dibattiti precedenti, l’elezione dei delegati, il montaggio, l’organizzazione e l’andamento dei lavori riguardano un profondo e accertato lavoro politico, organizzativo e tecnico. Le assemblee sono sempre grandi realizzazioni delle rispettive organizzazioni e a favore di esse. Sono in molti casi grandi realizzazioni su scala nazionale. Le assemblee delle organizzazioni regionali e di molte delle organizzazioni comunali e di settore con centinaia di delegati e a volte migliaia di invitati, danno una magnifica testimonianza di un elevato livello di preparazione, capacità ed esperienza.

Le assemblee delle organizzazioni hanno valore per se stesse. Ma valgono anche per tutto il lavoro preparatorio precedente e per gli effetti sul lavoro successivo. Le assemblee, come pure i congressi e le conferenze nazionali di partito su scala nazionale, mobilitano le organizzazioni per l’esame della situazione nell’ambito della attività della rispettiva organizzazione, al fine di fare un bilancio del lavoro realizzato e definire l’orientamento da seguire. Formalizzano la prestazione di rendiconto degli organismi dirigenti. Concretizzano l’elezione degli organismi dirigenti. Stimolano e dinamizzano la militanza e tutte le attività. Svolgono in pratica il lavoro collettivo e arricchiscono il suo concetto. Rinforzano la coesione e l’unità del Partito.

I congressi e le conferenze nazionali del Partito, le assemblee di organizzazione, come pure le conferenze e gli incontri nazionali di organizzazione del settore, presentano ognuna a suo modo una sintesi e il risultato dello stile di lavoro del PCP.

Per ciò che si riferisce ai principi organici, danno esempi dell’insostituibile valore della democrazia interna e del lavoro collettivo, sua più alta espressione, come componenti del centralismo democratico.