Giovani Comunisti: quale politica? quale identità?

Nel contesto di un dibattito sempre più animato tra le varie anime del movimento italiano dei Disobbedienti che ne segnala un momento di grave crisi, vorremmo cercare di cogliere alcuni dati politici dal percorso che ha visto i Giovani Comunisti praticare la disobbedienza civile prima (in particolare a Genova) e “inventare” il laboratorio della disobbedienza sociale dopo, sino a mutare anche da un punto di vista formale la propria natura giungendo a firmarsi con la sigla Giovani Comunisti- Disobbedienti; salvo poi scoprire che non solo ci sono settori che si considerano gli “unici” e i “veri” disobbedienti (con tanti saluti all’apertura e attraversabilità delle esperienze da sempre sventagliata), ma che questi stessi settori considerano una sventura per il movimento l’esistenza stessa di Rifondazione Comunista e GC ,ed anzi invitano in particolare questi ultimi a sciogliersi1.
Diciamo subito qual è lo scopo che ci anima: fare chiarezza su alcuni punti dirimenti dell’esperienza che abbiamo maturato negli ultimi anni come Giovani Comunisti, per risalire all’origine di alcuni punti di estrema crisi che riscontriamo, e nello stesso tempo proporre percorsi che sappiano uscire da questa crisi per rilanciare l’attività dei Giovani Comunisti e quindi del PRC, visto che consideriamo ancora queste due organizzazioni come parti dello stesso progetto politico.

Finalmente la nostra dirigenza si è messa seriamente a fare i conti col fatto che ci troviamo di fronte da ormai due anni e mezzo ad un governo della peggior destra, autoritaria e pericolosa su tutti i fronti, da quello dei diritti dei lavoratori a quello della messa in discussione delle radici democratiche della Repubblica scaturita dalla Resistenza. Ci troviamo di fronte ad un attacco generalizzato (ben più generalizzato, purtroppo, rispetto agli scioperi disobbedienti) ai diritti ed alle condizioni di vita dei lavoratori, degli studenti, dei ceti popolari in generale. Il tentativo di cancellare l’art. 182 e con esso le rappresentanze sindacali ed il conflitto dal terreno del lavoro; la legge 30, con la precarizzazione del lavoro ad ogni livello; la riforma delle pensioni, attraverso la quale si vuole distruggere la previdenza pubblica usando il subdolo strumento del conflitto tra generazioni; la riforma Moratti, se così si può chiamare il tentativo di ripristinare un sistema di istruzione discriminatorio e classista di stampo fascista; l’invasione dell’Iraq – con quello che ne consegue – perdite di soldati comprese – in veste di vassallo dell’imperialismo anglo-americano. Ci fermiamo qui nell’elencazione e per giunta senza approfondire: è chiara la portata dell’offensiva e dovrebbe essere chiaro che la risposta in difesa dei diritti è la mobilitazione, la partecipazione di sempre più ampie fasce di popolazione alla lotta. Non stiamo dicendo niente di nuovo, o almeno così dovrebbe essere, visto e considerato che sui temi della giustizia, con modi e forme in parte condivisibili, i vari movimenti dei girotondi ne hanno colto l’importanza ben prima del nostro partito3. Di fronte a questa situazione la nostra risposta deve essere quella del lavoro di massa per far crescere la lotta e la mobilitazione con l’obiettivo della cacciata di Berlusconi. L’intervento di massa per un partito comunista è storicamente fondamentale, e mantiene oggi la sua importanza. Sviluppare interventi di massa significa stare sulla realtà, interpretarla, far crescere le lotte non solo standoci a ruota, ma indirizzandole. Non vogliamo fare la lezioncina a nessuno, ma constatiamo che la realtà del nostro partito oggi è tutt’altra: non siamo un partito di massa e non abbiamo interventi di massa significativi né sul lavoro o sul sindacato, né tra gli studenti,e nemmeno nel movimento per la pace. Al contrario siamo sempre più spesso al traino, un passo indietro a tutti; e se ciò è scusabile qualora si tratti di deficit nella struttura del partito, di certo è più grave quando il ‘codismo’ è frutto di una scelta, come è accaduto durante la fugace esperienza dei social forum e in quella certamente più deleteria della disobbedienza.

Noi crediamo che questi risultati non possano essere disgiunti dalla cultura politica che li ha generati.
Per provare a cogliere qualche elemento di questa cultura, ci siamo serviti del libro scritto dal disobbediente Camille De Toledo4, figlio di un importante industriale francese: ci sembra infatti che alcune sue riflessioni siano simili a quel “sentire comune” che abbiamo visto tante, troppe volte alla base di molte scelte (ed altrettanti errori) della nostra organizzazione giovanile.
“La rivolta deve passare per l’oblio”, scrive De Toledo, che afferma, prendendosela con i “vecchi”: “Non ne vogliamo più sapere della storia che scrivono. Ecco la nostra!”. Insomma la storia del 900 è rifiutata in blocco, da Lenin in poi. Dunque da contrapporre alla vecchia storia c’è una nuova storia: ma il carattere di questa, almeno per come è presentato, ci crea sinceramente più preoccupazioni che speranze. Per quanto possa essere poetica infatti, l’immagine di “un’insurrezione di ogni istante mirata non ad accorciare il tempo che separa il desiderio dalla sua soddisfazione, ma ad allontanarli l’uno dall’altro per, soprattutto, desiderare” non ci sembra adeguata ad affrontare la situazione estremamente difficile in cui ci troviamo, e la situazione ben più tragica, occorre ricordarlo, in cui si trovano i popoli minacciati dall’imperialismo militare ed economico degli USA.
Sulla base della nostra esperienza di attività politica in alcuni quartieri popolari di Milano, crediamo di poter affermare con certezza che i lavoratori sarebbero in realtà ben contenti di accorciare il tempo che li separa dalla realizzazione di alcuni immediati desideri: dal diritto a case decenti con affitti accessibili, al diritto ad un lavoro, magari non precario e ad una scuola dignitosa e pubblica ecc.
Ma, come abbiamo visto, “la nuova storia disobbediente” segue binari suoi propri, spesso divergenti rispetto alla storia che vive quotidianamente la gente comune, e si concretizza in una serie di “azioni” simboliche che assumono valore non in relazione ai contenuti che intendono promuovere né in relazione ai risultati che riescono ad ottenere, ma giungono ad avere un valore in sé: viene rivendicato il valore della forma di lotta prima ancora di quello della sostanza dei contenuti. La pratica della disobbedienza, privilegiando il gesto eclatante rispetto alla controinformazione e alla condivisione dei contenuti, fa sì che inevitabilmente anche i giovani che si riescono a coinvolgere nelle mobilitazioni spesso non riescano a cogliere e fare proprie le motivazioni profonde della battaglia politica. Senza questo passaggio di maturazione ed elaborazione è difficile discutere e portare contenuti e posizioni sul lavoro, tra gli amici e così via.

Affrontando questo delicato rapporto tra le forme ed i contenuti, è inevitabile e doveroso analizzare l’elemento della violenza anche in relazione alla campagna, strumentale e cinica, condotta da mass media e da forze del governo, che tende ad equiparare il movimento o alcune sue articolazioni al terrorismo.
Occorre a nostro parere uscire dalla dicotomia che vede da una parte una posizione radicalmente non violenta e dall’altra una posizione che invece giustifica, quando non rivendica direttamente, azioni violente anche se sostanzialmente simboliche.
La prima impostazione è ben rappresentata da Marco Revelli, che chiede al movimento una coerente scelta di non-violenza “senza se e senza ma” simmetrica rispetto al rifiuto della guerra5. Questa posizione però, se assunta in toto, ci condannerebbe all’incomprensione pressoché totale delle lotte di resistenza e di liberazione che si sviluppano anche oggi nei territori che subiscono le angherie dell’imperialismo (citiamo qui solo Iraq, Palestina e Colombia…). È opportuno ripeterlo ancora una volta: non possiamo mettere sullo stesso piano aggressori ed aggrediti, chi opprime i popoli esportando la guerra (e non certo la democrazia) in tutto il mondo e chi lotta per la libertà del proprio popolo. La seconda impostazione è riassumibile ad esempio nella dichiarazione di Casarini secondo cui “siamo condannati alla violenza da una condizione sociale e politica di violenza”6, o dal passaggio del documento firmato dall’assemblea dei disobbedienti riunita a Roma il 5 ottobre, in cui si invocano “libere valutazioni (…) fuori dalle logiche manichee che dividono tutto in bene e male, in violenza e non violenza”. Occorre innanzitutto affermare con chiarezza che queste posizioni sono lontane anni luce dalle deliranti analisi delle cosiddette nuove brigate rosse (rispetto alle quali, detto per inciso, l’album di famiglia più utile da consultare sarebbe quello dei servizi segreti). È però innegabile che affermazioni e conseguenti azioni di questo tipo prestino il fianco a troppo facili strumentalizzazioni, non portando in cambio nessun risultato ma contribuendo anzi ad un restringimento delle possibilità di interlocuzione che il movimento per la pace aveva ad esempio costruito con ampi settori della popolazione italiana.
Si tratta a nostro parere di essere molto chiari nell’affermare che oggi in Italia non ha alcun senso (se non quello di rafforzare le forze di destra e giustificare manovre repressive) l’utilizzo di forme violente, anche se magari legate solo all’attacco a “simboli del capitalismo”, senza per questo condannare la violenza (perché effettivamente di questo si è trattato e di questo si tratta ancor oggi) della resistenza armata dei popoli oppressi dal fascismo (è immediato il riferimento alla Resistenza italiana) o da colonialismo e imperialismo, ma anche delle rivoluzioni che hanno portato ad accrescere in maniera straordinaria le condizioni di vita materiale, di lavoro, le possibilità culturali in molti paesi nel corso del ‘900

L’attuale stato dei Giovani Comunisti nella federazione di Milano ci mostra quali siano gli effetti della pratica disobbediente su una struttura importante per il partito. Abbozzando un bilancio dalla conferenza ad oggi, non si può certo dire che i risultati siano stati contraddittori o di segno alternato: no no, univoci su tutto il fronte… l’esperienza della cosiddetta innovazione è stata devastante per i Giovani Comunisti.
I principali risultati del lungo periodo alla “ricerca di nuove forme di politica, aggregazione e socialità” (!!) sono che: i GC non solo non organizzano un intervento strutturato, ma neppure un volantinaggio o una presenza in corteo da quasi due anni; il coordinamento è stato completamente svuotato di ogni funzione. Non ha potuto coordinare nessuna attività, non è stato sede di proposta politica per il radicamento e la crescita dell’organizzazione, non è stato sede di confronto tra i compagni. Il coordinamento non è stato convocato più di cinque volte in tutto. Non è stato eletto un coordinatore, non esistono commissioni, non ci sono raccordi tra i compagni dei circoli e tra i circoli ed il livello provinciale e, più grave di tutti, non sono stati dati spazi di discussione tra i compagni, dal momento che dalla conferenza non sono stati convocati attivi. L’idea di innovazione come smantellamento dell’organizzazione ci sembra rispecchi abbastanza fedelmente quanto teorizzato durante la conferenza (basta con le vecchie strutture, con le organizzazioni del ‘900 e via dicendo) ed i risultati sono drammaticamente chiari: è stata cancellata la pur minima idea di struttura organizzata per rivolgere l’attenzione e l’azione politica esclusivamente su ambiti esterni al partito, separatamente da esso, al limite anche in contrapposizione. Dal punto di vista della consistenza dell’organizzazione, i risultati sono altrettanto negativi ed è abbastanza scontato: come si può pensare che cresca un partito che di fatto non esiste? Su quali basi può ingrandirsi un’organizzazione che non ha prodotto un rigo di proposta politica per due anni?
Chiaramente in due anni di inerzia-da-innovazione si sono persi i pochi interventi in piedi, senza peraltro aprirne altri, in particolare quello tra gli studenti. Questo caso è particolarmente interessante per chiarirsi bene quali siano stati i frutti della scelta di subappaltare il lavoro sulle scuole senza portare contenuti, presenza organizzata e visibilità. I compagni che si occupavano del movimento degli studenti, di fatto liberi e indipendenti dal partito, hanno fatto la scelta di non militare più in Rifondazione – brillanti risultati della contaminazione in atto! –, avvicinandosi in modo più organico ai Disobbedienti. Risultato: tabula rasa, i GC non hanno un ruolo o dei contatti organici con i collettivi e con il movimento degli studenti. Il risultato di tale impostazione sul lavoro politico nelle scuole è che i GC non costruiscono iniziative all’interno degli istituti per coinvolgere il maggior numero di studenti possibile, non sono promotori di momenti di lotta, non cercano di essere punto di riferimento per i collettivi. La logica non è quella di entrare nelle scuole e da lì provare a ricostruire un movimento tra gli studenti, che si radichi a partire dai singoli collettivi all’interno delle diverse scuole. L’operazione negli ultimi anni è stata opposta: portare fuori dalle scuole i pochi studenti relativamente più sensibili ai temi del movimento e “rinchiuderli” in uno spazio sociale privilegiato, tra simili. Così non crescono la consapevolezza ed il livello politico della massa degli studenti, le strutture di coordinamento non rappresentano più la presenza di scuole e collettivi, ma la partecipazione di singoli. In una situazione di vuoto, di carenza di analisi e di intervento politico dei GC, con dei collettivi deboli o inesistenti e strutture di coordinamento autoreferenziali, la destra, Azione Giovani in particolare, ha cominciato un intervento consistente tra gli studenti e cresce in diverse scuole della città.

Solo chi coscientemente non vuole vedere può negare questa situazione (… e Milano non è certo uno sfortunato caso isolato) eppure non sono in vista apprezzabili inversioni di tendenza; l’ultimo documento scritto dall’Esecutivo Nazionale GC7, infatti, non risponde allo stato di crisi della nostra organizzazione e non si inserisce nella nuova fase con proposte di lavoro politico esaurienti, ma appare invece il frutto di un’impostazione ancora una volta autoreferenziale.
In un momento nel quale dal Paese reale, da milioni di lavoratori e cittadini, viene la chiara richiesta di cacciare il governo Berlusconi (il governo del massacro sociale e della guerra imperialista), il documento dell’Esecutivo resta avvitato su una disquisizione tutta interna al movimento dei movimenti, o meglio, ad una sua parte: l’area disobbediente.
In un momento nel quale l’erosione delle condizioni di vita delle masse popolari è evidente, sotto gli occhi di tutti, è compito dei comunisti indicare quali siano le ragioni di questa crisi (l’impianto neoliberista) e quale altra politica sia necessario perseguire per invertire la tendenza.
Autocentrare tutto il ragionamento sulla disobbedienza, cioè su se stessi e pochi altri intimi, non ci pare affatto produttivo. Di fronte alla straordinaria occasione di coinvolgere altri giovani, i tanti neppure sfiorati dal “vento di Seattle”, si prosegue nell’angusta pratica politica di chi si è confinato ed auto-marginalizzato in una sorta di “riserva indiana” di elementi radicali (più nelle forme di lotta adottate che nella sostanza politica).
Nel documento dell’Esecutivo non c’è, di fronte alla crisi (non certo casuale) della nostra organizzazione, un’analisi ed una conseguente prospettiva che riguardi il livello di presenza, radicamento e lavoro politico svolto nei principali ambiti di massa. Questo ragionamento (in una parola: il radicamento), che dovrebbe essere sempre la base di partenza di qualsiasi ragionamento politico sull’attività dei comunisti, manca.
L’asse strategico del documento (nonostante, potremmo aggiungere, la concomitante svolta imboccata dal Partito) non cambia la prospettiva che l’attuale maggioranza ha dato ai GC; smussa, è vero, alcune spigolature: alcune pratiche un po’ estreme e controproducenti (a Milano si tentò persino un assalto alla Croce Rossa), alcuni personaggi divenuti un po’ scomodi, se non ingombranti (Casarini e le sue tute nere) divengono oggetto, implicito, d’imbarazzata riflessione.
Ma anche su questo punto: sempre le forme e i personaggi sono al centro del ragionamento, mai la sostanza, quasi mai la politica.
È a nostro avviso un’operazione che, più che valorizzare la nostra organizzazione (intesa nel documento, ancora e sempre più, solo come pezzo della disobbedienza) tende a segnare distinguo rispetto ai soggetti portati in auge sino a ieri e verso cui alcuni nostri giovani avevano iniziato a guardare. Riportare questi nostri compagni a fare politica nelle strutture (denigrate) del Partito non sarà facile. Specie se non si corregge l’impostazione di fondo.

Fondamentale è pertanto quel lavoro politico che porta a comunicare, a trasmettere contenuti politici alle nuove generazioni, a quanti più giovani è possibile raggiungere.
È ancora fondamentale il lavoro di informazione – controinformazione – contro la fabbrica del pensiero unico, appena incurvata dai movimenti di contestazione.
Non basta trascinare i giovani delle scuole nei cortei dietro i propri sound system per costruire un movimento contro la guerra che duri e dia filo da torcere ai padroni del vapore. Non basta perché se non si danno gli strumenti interpretativi per capire i motivi reali per cui si è fatta la sporca guerra all’Iraq, se non riesce a trasmettere l’ingiustizia profonda e l’intollerabile disegno di “dittatura planetaria” che il IV Reich americano vuole imporre ai popoli e alle nazioni non si riesce a costruire un coinvolgimento sempre più grande, sempre più di massa, sempre più cosciente.
Oggi, dopo la tragedia di Nassirya, è possibile rilanciare, nonostante la retorica assordante, l’impegno per la pace. È doveroso chiedere il ritiro immediato del contingente italiano dall’Iraq per restituire la sovranità al popolo irakeno, che combatte per la propria libertà ed indipendenza, e per evitare che il nostro paese si macchi di sangue solo per compiacere un’America prepotente ed in declino. Per fare questo è però necessaria una grande attenzione ai contenuti, è necessario lavorare con la prospettiva dell’egemonia e quindi con un altro stile di lavoro. Infatti l’egemonia è praticabile solo se è visibile la nostra presenza, in quanto giovani e comunisti, negli ambiti di massa dove esercitare una politica di radicamento.
Radicamento significa diventare punto di riferimento per un numero sempre maggiore di persone grazie ad un’azione politica di lotta quotidiana che non verta su pratiche elitarie ma su vertenze concrete e condivise. Vuol dire, ad esempio, essere in prima fila nello spiegare la pericolosità eversiva della controriforma Moratti, che rischia di riportare la scuola italiana e l’intera società indietro di circa 60 anni. Significa organizzare gli studenti per mettere in campo una forte opposizione contro questi progetti. È un caso che la riforma della scuola più pericolosa dell’intera storia della Repubblica abbia visto sinora le mobilitazioni più fiacche da parte degli studenti ?
O, in parte, la responsabilità è dovuta anche al fatto che noi, come GC, al posto di aver sviluppato con il nostro capillare e quotidiano lavoro politico, una sensibilità diffusa di ostilità alle riforme, ci siamo baloccati in arcani discorsi sul “senso e i saperi” e ci siamo autolimitati in pratiche minoritarie e improduttive?

Per svolgere un lavoro di radicamento politico, difficile, progressivo ma indispensabile, occorre però avere uno strumento adeguato. Questo strumento è il partito con la sua struttura giovanile (per ciò che concerne lo specifico dell’intervento nelle giovani generazioni). Senza la costruzione paziente di questi due elementi non c’è (come si è visto) e non ci può essere alcuna risposta adeguata alle sfide che la fase ci pone. Pensare che il movimento (quale fra i tanti ?) possa risolvere i problemi del mondo di per sé, continuando a mobilitare i pochi già illuminati sulla via di Damasco è una prospettiva angusta. Occorre tornare, giocoforza, alla vecchia tradizionale militanza. Militanza che vive di lavoro quotidiano e parla il linguaggio dei bisogni reali, così come si presentano. È questo che rende interlocutori credibili e protagonisti reali del conflitto contro la globalizzazione imperialista; centrale è pertanto il lavoro sul territorio, a fianco dei cittadini, attraverso i circoli del Partito. È questo che permette non solo di dire che un altro mondo è possibile, ma di combattere per un altro mondo necessario, quello socialista.

Note

1 Vedi l’articolo di Lutrario: “Partito o Movimento?”

2 Non è questa la sede, ma ci teniamo a ricordare, a distanza di qualche mese, che sarebbero state opportune una seria valutazione politica prima ed una seria riflessione autocritica dopo la scelta avventuriera del referendum…

3 Che la giustizia e la difesa della costituzione fossero centrali nell’opposizione a questo governo avrebbe dovuto essere chiaro da subito; che i girotondi fossero prima di tutto un sintomo di questo per la verità anche. Snobbarli e tacciarli di essere espressione di interessi piccolo borghesi per un certo periodo significava semplicemente non cogliere un nodo politico di lotta che si stava sviluppando nel paese.

4 Camille De Toledo, Superpunk arcimondano, Confessioni Scomode di un giovane disobbediente, Feltrinelli, Milano, 2003

5 il manifesto 9/11/2003

6 La Repubblica, 31.10.2003

7 “In cammino, discutendo di disobbedienze…”, Liberazione, 16/10/2003.