Pietro Secchia: un grande comunista del novecento

Il 25 ottobre u.s. si è svolto a Carrara, organizzato da l’ernesto toscano, un convegno su Pietro Secchia, figura tra le più prestigiose della storia dei comunisti italiani.
Un’iniziativa, questa di Carrara, in netta controtendenza rispetto agli approcci revisionisti delle varie anime della sinistra, da quella ex a quella neo comunista, che tendono da un lato a rimuovere senza attenuanti tutto l’impianto teorico e pratico del leninismo che ha segnato l’esperienza storica del comunismo del novecento, e quello che invece propone la lettura più benevola, parzialmente assolutoria della storia del PCI in quanto esperienza originale ed autonoma e perciò separabile delle vicende dello stalinismo. Queste letture presentano Pietro Secchia come l’esponente dogmatico, l’uomo di fiducia di Stalin, il regista di una struttura clandestina, irriducibile antagonista di Togliatti. C’è stato addirittura chi, come Miriam Mafai, non ha esitato a titolare il suo libro biografico su Secchia, ”l’uomo che sognava la lotta armata”, lasciando così trasparire l’idea che potrebbe essere stato lui il grande vecchio, ispiratore del terrorismo BR.

Organizzato con grande impegno da Giorgio Lindi e dai compagni di Carrara, il convegno su Pietro Secchia ha compiuto, con gli interventi di Ferdinando Dubla, Angiolo Gracci, Fausto Sorini, lo scrivente ed altri un’incursione approfondita e diversificata che rende giustizia al ruolo svolto da Secchia nel periodo cruciale della storia del PCI, cioè il suo passaggio da piccolo partito di quadri forzosamente disperso, durante la clandestinità, nelle carceri, al confino e nell’emigrazione, a partito nuovo e di massa dopo la liberazione.
Un passaggio deciso, non da un’improvvisa folgorazione dei suoi dotati dirigenti, ma giunto a maturazione dopo la travolgente accelerazione imposta dagli avvenimenti di quegli anni: la caduta del fascismo, la guerra e la sua svolta dopo Stalingrado, la resistenza italiana ed europea e, infine, la resa dei conti finale con la belva hitleriana nel bunker di Berlino. Una storia svoltasi in un contesto internazionale in fase molto dinamica, su cui ha pesato il ruolo svolto dall’Unione Sovietica, che ha sconvolto gli assetti geopolitici dell’Europa e che ha visto irrompere sulla scena politica europea il movimento operaio e i partiti comunisti. Partiti che, benché liberati dai vincoli organizzativi della Terza Internazionale, sciolta nel 1944, e resi totalmente autonomi di svolgere le politiche più consone alle rispettive esigenze nazionali, conservavano tuttavia, con il realismo tipico della scuola leninista, una visione comune del quadro internazionale e dei rapporti di forza che si stavano delineando tra imperialismo e socialismo negli anni del dopoguerra, dopo gli accordi di Yalta.
Il PCI di quegli anni è chiamato ad operare in una realtà pesantemente marchiata e inquinata dalla presenza degli apparati statali ed economici ereditati dal ventennio fascista e in un regime di occupazione militare americana, pilastro principale della restaurazione anticomunista in Occidente.
I comunisti italiani, da poche migliaia di militanti selezionati, erano già diventati nel 1948, un grande partito di massa con più di 2.000.000 iscritti, ed erano più che mai la forza politica trainante dello schieramento democratico antifascista. Ed è con quella forza che il partito diretto da Togliatti, Secchia e Longo, si appresta a fronteggiare, dopo la sconfitta elettorale dell’aprile 1948, uno scontro durissimo contro il grande capitale e la proprietà terriera ansiose di restaurare le antiche gerarchie del potere e del comando nelle fabbriche, nella società e nelle istituzioni.
Pietro Secchia è l’uomo cui viene affidato il compito più arduo e difficile: trasformare il prestigio e il consenso di massa acquisito dai comunisti nella lotta antifascista e nella Resistenza, in una grande forza politica organizzata, fortemente strutturata nelle cittadelle proletarie del nord, nonché tra le masse dei contadini poveri, dei braccianti e dei senza terra del Mezzogiorno, con l’obiettivo ravvicinato di costruire un sistema di alleanze e un blocco di forze sociali che porti a compimento le riforme democratiche sanzionate dalla nuova Costituzione repubblicana.
Una fase perciò molto complessa, definita di transizione, che comporta scelte politiche e tempi di marcia verso il futuro denso di incognite e un’esposizione costante ai rischi del settarismo e dell’opportunismo. Del tutto ovvio che nel PCI, che fin dai tempi dell’Ordine Nuovo non è mai stato un partito dogmatico e ossificato, come a volte di afferma oggi, non manchino le discussioni e i confronti anche aspri, all’interno del gruppo dirigente. Tuttavia Secchia non ha mai messo in discussione la lungimiranza della svolta di Salerno compiuta da Togliatti al suo arrivo in Italia. Lui, quella svolta l’ha voluta e saputa compiere nei CLN (Comitati di Liberazione Nazionale), una forma unitaria di potere antifascista e popolare del Nord, che a differenza del sud, è maturata nel fuoco della lotta armata e dell’insurrezione, e Secchia guarda al futuro postbellico con l’intenzione di mantenere ed usare come propellente il patrimonio di egemonia accumulato dalla classe operaia e dai comunisti durante la Resistenza. I tratti distintivi della linea di Secchia hanno riguardato innanzitutto le caratteristiche interne del Partito e solo marginalmente la sostanza della linea politica. E pertanto non è mai stata una linea alternativa a quella di Togliatti. Il carattere democratico e costituzionale del processo di transizione che avrebbe dovuto aprire la via al socialismo in Italia, non è mai stato messo in dubbio. Le modalità dello sciopero generale del luglio 1948, dopo l’attentato a Togliatti, e le dure critiche di Secchia agli episodi avventuristi, ne sono la conferma più che evidente. Il cosiddetto operaismo di Secchia si traduce puramente in un rafforzamento del partito concepito come esigenza primaria per resistere all’offensiva del capitale che non sarebbe tardata ad arrivare in questa parte occidentale del mondo, all’interno del quale non era prevedibile a breve un cambiamento rivoluzionario. Pertanto la fabbrica doveva essere, secondo Secchia, l’epicentro della resistenza prolungata contro il ritorno offensivo e repressivo del grande capitale sostenuto dall’imperialismo americano.
Nel documento redatto a Mosca nel 1947 (Archivio Secchia – Introduzione di Enzo Collotti, pag. 100) ritroviamo un’articolata sintesi delle posizioni di Secchia. Il passaggio decisivo è quello riguardante la lotta politica concepita come combinazione di lotta parlamentare e di lotta extraparlamentare, di azione di vertice e di mobilitazione di base. Lotte più decise, lotte più impegnative, un movimento di massa ininterrotto, un’azione più incisiva e più incalzante, la consapevolezza che il cedere su certe posizioni (scindere la vita del partito da quella dei comunisti nel governo) significasse perdere, e per sempre, una parte dei risultati conseguiti negli spostamenti degli equilibri di classe interni, tra classe operaia e borghesia. Questa è la diversità essenziale tra le due linee. Troppo poco per definire quella di Secchia una vera e propria alternativa a quella di Togliatti. Ma elementi sufficienti per arricchire la politica di unità nazionale di quei contenuti che allora si chiamavano di ‘democrazia progressiva’.
Il convegno di Carrara ha preso ovviamente in esame uno spazio temporale ben più ampio di queste sommarie note introduttive, spingendosi fino ed oltre la morte di Pietro Secchia avvenuta in circostanze sospette (avvelenato dalla CIA?) nel 1973. Benché rimosso da vice segretario del PCI, dopo il clamoroso tradimento del suo vice, Giulio Seniga, fuggito con la cassa del partito, Secchia ha continuato a far sentire forte e chiara la sua voce, a scrivere libri e saggi importanti per la storia del movimento operaio, a svolgere la sua attività di educatore comunista, ad aggiornare le nostre nozioni di politica internazionale in una fase piuttosto turbolenta della coesistenza pacifica, segnata dalla rottura dell’URSS con la Cina e dall’irrompere sulla scena mondiale di grandi movimenti antimperialisti, Algeria, Cuba, Vietnam. Temi, questi ultimi su cui, non a caso, le sue intuizioni finirono per convergere ancora una volta con le correzioni alla linea kruscioviana proposte da Togliatti nel memoriale di Yalta miranti a costruire su basi nuove (unita nella diversità) le relazioni tra i partiti comunisti.
Il gruppo di compagni che hanno resistito prima e dopo la Bolognina alla deriva e allo scioglimento del PCI e hanno dato vita al PRC, devono molto a Pietro Secchia. Se Gramsci e Togliatti sono stati dei giganti che hanno alimentato con il loro pensiero le grandi battaglie ideali e politiche del movimento operaio italiano, Pietro Secchia è stato l’organizzatore, l’architetto, il costruttore che ha dato impulso al formarsi di cellule comuniste in migliaia di fabbriche, in ogni comune, accanto a ogni campanile, unendole in una rete poderosa di strutture comuniste organizzate, forza motrice delle straordinarie lotte politiche e sindacali che ha fatto diventare il PCI il più grande partito nell’occidente capitalistico.
E già tanto basterebbe per indagare e riflettere, senza pregiudizi e senza etichette, su quella formidabile esperienza.
Il convegno di Carrara ha offerto una prima opportunità di ricostruzione storica. Non sarebbe male trovare tempi e modalità per poterla proseguire.