Ridiscutere di imperialismo

Gli anni che vanno dal 1991 – “operazione di polizia internazionale contro l’Iraq” – al 1999 – “guerra umanitaria della NATO contro la Repubblica federativa jugoslava” – rappresentano il decennio costituente del “nuovo ordine mondiale”. E ripropongono con drammatica urgenza il problema dell’analisi del carattere sociale e di classe di queste “guerre” mai dichiarate, in cui le coalizioni degli Stati più potenti e capitalisticamente avanzati hanno “punito” paesi di gran lunga meno potenti e meno sviluppati nelle strutture capitalistiche. Alcuni hanno accennato al carattere neocoloniale di questi interventi militari, altri hanno fatto riferimento alla costituzione di “un nuovo sistema imperiale”. Meno comune è stato il ricorso alla categoria di imperialismo nella sua accezione marxista. Categoria che fino alla metà degli anni ’70 era abitualmente impiegata – anche eccessivamente – all’interno del movimento comunista internazionale. E che ora appare abbandonata dai più, insieme con altre fondamentali categorie del marxismo, bollate come “vecchio armamentario ideologico”. Non siamo particolarmente affezionati alle parole, e se quella di imperialismo non esprime più i caratteri del mondo attuale, meglio metterla in soffitta. Ma prima di far ciò, conviene esaminare se è proprio così. Coniato in Francia ai tempi del II Impero in riferimento ai disegni egemonici di Napoleone III, il termine imperialismo si affermò in Inghilterra alla fine degli anni 1870 per indicare il programma di espansione coloniale del governo Disraeli ed entrò poi nell’uso comune come sinonimo di politica di potenza e di conquista territoriale su scala mondiale. Questo imperialismo, che a partire dal 1880 conosce un ulteriore sviluppo con la rapidissima spartizione di gran parte dell’Africa tra le potenze europee, è nuovo rispetto alla politica di colonizzazione perseguita dagli Stati europei nei secoli XVII e XVIII all’insegna del protezionismo mercantilistico, dello sfruttamento delle materie prime delle colonie, delle guerre commerciali per la limitazione della potenza straniera. La novità, che ne costituisce profondamente il tratto caratteristico, è data dal suo essere espressione del capitale finanziario nella sua fase monopolistica: la politica delle cannoniere, la politica di potenza, fino alla guerra – sia nei confronti dei paesi capitalisticamente meno sviluppati che delle altre potenze capitalistiche concorrenti – è un’implicazione necessaria del capitalismo dei monopoli, dei cartelli, dei trust. Il nesso tra economia capitalistica e politiche imperialistiche di espansione e spartizione del mondo – con tutti i mezzi, fino al ricorso alla guerra – viene individuato con chiarezza già nel 1902 ne L’Imperialismo dell’inglese Hobson, riformista fabiano (1): le cause economiche dell’imperialismo inglese vanno ricercate nella sovrapproduzione di merci e capitali che cercano occasioni di investimento all’estero. Hobson, tuttavia – e come lui numerosi altri teorici che nei primi decenni del ‘900 indagano sull’imperialismo, tra i quali Schumpeter (Sociologia dell’imperialismo, 1919) – nega il rapporto di implicazione necessaria tra capitale monopolistico e imperialismo che caratterizza, anche se tra divergenze rilevanti, l’analisi marxista, da Rosa Luxemburg (L’accumulazione del capitale, 1913) a Bucharin (L’economia mondiale e l’imperialismo, 1915) al “saggio popolare” di Lenin (Imperialismo fase suprema del capitalismo, scritto nel 1916). Hobson ritiene che l’imperialismo sia il risultato della politica disastrosa di determinati circoli finanziari e industriali e che sia errato ritenere inevitabile l’espansione imperialistica come sbocco necessario per il progresso dell’industria. “Non è il progresso industriale che richiede l’apertura di nuovi mercati e di nuove aree di investimento, ma la cattiva distribuzione della capacità di consumo che impedisce l’assorbimento di merci e capitali all’interno del paese”. Analisi simili (che riappaiono anche alla fine del XX secolo) tendono a vedere la politica imperialistica come fenomeno relativamente autonomo dal capitalismo. Per Schumpeter l’imperialismo è una tendenza contraddittoria rispetto al capitalismo industriale e non una fase necessaria dello sviluppo capitalistico: l’uso da parte di trust e monopoli della potenza dello Stato per una politica di militarismo aggressivo non sarebbe che una deviazione rispetto all’attività razionalizzatrice dell’imprenditore nel quadro della concorrenza. L’imperialismo sarebbe frutto della sopravvivenza di tendenze legate a situazioni precapitalistiche, alla mentalità di caste feudal-militari, agli interessi dinastici e ad interventi perturbatori dello Stato, quindi ad elementi politici e sociologici che ostacolerebbero il dispiegarsi della razionalità capitalistica. Per Lenin, invece, l’imperialismo si qualifica essenzialmente non come qualcosa di strutturalmente diverso dal capitalismo e nemmeno come una conformazione fissa e stabilizzata dei rapporti economico-sociali, ma come stadio monopolistico del capitalismo. Diverso dal colonialismo tradizionale, che è sorto in una fase storica anteriore all’imperialismo, esso presenta i seguenti aspetti:

1. Concentrazione (orizzontale e verticale) della produzione. Nasce così il capitalismo monopolistico: in esso ogni settore della produzione capitalistica diventa monopolio di pochi o anche di un solo gruppo di imprese. Ciò determina una profonda modificazione del mercato capitalistico con i “sovrapprofitti” di monopolio.

2. Massiccia incorporazione della scienza nella produzione capitalistica, con lo scopo di accrescere ulteriormente la produttività del lavoro.

3. Nuova funzione delle banche, che forniscono all’industria non solo capitale di esercizio ma una quota di capitale fisso. Formazione del capitale finanziario: capitale che, pur investito nell’industria, appartiene non agli imprenditori industriali ma a finanziatori esterni all’impresa.

4. Esportazione di capitali – e non più soltanto di merci – sia verso i paesi capitalisticamente non (o poco) sviluppati che verso quelli capitalisticamente avanzati. I grandi investimenti compiuti dalle maggiori potenze capitalistiche introducono il capitalismo in nuove regioni del mondo, un capitalismo dipendente.

5. Spartizione del mondo tra i gruppi capitalistici. Crescita del ruolo dello Stato sia come committente (da qui lo sviluppo del “complesso militar-industriale”), che come sostegno nello sfruttamento dei paesi dipendenti e nella lotta contro gruppi capitalistici stranieri rivali.

6. Sviluppo ineguale delle aree capitalistiche.

Per Lenin, dunque, l’imperialismo, “epoca del capitale finanziario e dei giganteschi monopoli capitalistici, epoca in cui il capitalismo monopolistico si trasforma in capitalismo monopolistico di Stato, mostra in modo particolare il consolidamento della macchina statale”.

Questa analisi consente a Lenin di caratterizzare il primo conflitto mondiale – contro le ideologie nazionalistiche cui fanno ricorso i rispettivi governi per organizzare il consenso – quale guerra imperialistica, tra opposti imperialismi. Tale analisi si incontra col movimento reale del proletariato russo e internazionale e fornisce gli strumenti teorici per unificare – contro le tentazioni filocolonialiste dei partiti della II Internazionale, da cui non fu esente neppure un grande pensatore marxista come Antonio Labriola – le lotte del proletariato dei paesi capitalisticamente sviluppati con il movimento di emancipazione dei popoli oppressi dal giogo coloniale: lotta antimperialista è, ad un tempo, quella della classe operaia dei paesi sviluppati contro i propri governi al servizio dei grandi monopoli e del capitale finanziario e quella dei popoli che intendono scuotere il giogo coloniale e che trovano nella neocostituita URSS e nell’Internazionale comunista – al di là di oscillazioni, errori, arretramenti – una sicura retrovia. Si tratta di chiedersi ora se nel corso della storia mondiale del ‘900 siano sostanzialmente mutati quegli aspetti essenziali del capitalismo monopolistico che caratterizzavano per Lenin l’imperialismo. Con la inevitabile schematicità cui obbliga lo spazio di questo articolo si può rispondere che tutti gli aspetti caratterizzanti l’imperialismo individuati da Lenin hanno conosciuto un enorme sviluppo: i monopoli, i cartelli, i trust sono diventati megamonopoli che hanno travalicato i confini stessi dello Stato d’origine, divenendo potentissime corporation transnazionali, il ruolo del capitale finanziario si è immensamente accresciuto, lo sviluppo ineguale è molto più evidente, il capitalismo è oramai pienamente sistema mondiale, all’interno di questo sistema non vi è interdipendenza, ma rapporti di gerarchia e subordinazione tra paesi capitalistici dominanti e paesi capitalistici dipendenti, ai quali i grandi monopoli impongono i loro diktat, le loro politiche economiche, ricorrendo, se necessario, all’impiego delle armi, in forma indiretta (i colpi di Stato in America Latina, di cui quello di Pinochet in Cile nel 1973 a difesa delle multinazionali USA è uno degli esempi più illuminanti) o diretta (le “operazioni di polizia internazionale”, le “guerre umanitarie” degli anni ’90). Quello attuale è un mondo di Stati deboli e disgregati e Stati forti disgreganti. In questi ultimi si rafforza il consolidamento della macchina statale (compresi gli apparati egemonici e di fabbricazione del consenso) di cui parlava Lenin. Non bisogna infatti confondere l’attuale tendenza “neoliberista” di riduzione dell’intervento statale nelle spese sociali e di privatizzazioni con l’indebolimento dello Stato stesso, sempre più sottomesso ai grandi gruppi monopolistici, sempre più “sussunto realmente” dal capitale. Sotto questo profilo non siamo affatto usciti dall’epoca dell’imperialismo ed è allora più che opportuno il ricorso a tale categoria, non feticcio di consunta bandiera, ma attuale e valido strumento per l’analisi del presente.

Note

1) Dall’antico romano Quinto Fabio Massimo, il “temporeggiatore”: i fabiani ritenevano che il proletariato dovesse evitare le battaglie decisive e puntare ad un gradualismo evoluzionistico.